L’odore dell’arrivo

Resina e vinili: sono i profumi che emanano le pagine del romanzo di Gianluca Veltri L’odore dell’arrivo (Ferrari Editore).

Come una partitura musicale il libro, prima che in capitoli, è diviso in tre “tempi” (Pomeriggi di maggio, Educazione silana, La mia piccola patria), ovvero già nella struttura c’è uno stretto intreccio tra musica, grande protagonista della storia, e le parole.

Ho letto con piacere ed emozione le pagine di questo romanzo narrato in prima persona da un personaggio senza nome, una storia che si dipana tra sentieri della memoria, molto simile anche alla mia storia: la musica raccontata in queste pagine rimanda allo stesso universo musicale con il quale abbiamo conosciuto il “sistema del mondo” in cui lontano era anche vicino, perfino la guerra, quella lontana nel Vietnam, o le mamme in Plaza de Majo, e nel quale al primo posto stavano la relazione con sé, con ciò che avevamo intorno e le relazioni personali, le più variegate. Un tempo in cui la musica era un modus vivendi, non ti era imposta dal mercato, che – diciamo la verità – non avrebbe potuto scovarci negli anfratti dei boschi silani o nei nostri piccoli centri periferici. Non eravamo noi a scegliere la musica “ma era la musica che sceglieva noi” e qui non c’è contraddizione, è che una volta che ascoltavamo un disco, difficilmente quello ci avrebbe mollato.

Avveniva così, magicamente, e avviene altrettanto magicamente nel romanzo di Veltri sin dalle prime pagine, nelle quali si parla, ad esempio, di Nick Drake e la sua “capacità amniotica” (come non avrei potuto amare una storia che inizia con quel genio malinconico che mi segue da una vita), per poi passare a quelle straordinarie scoperte che venivano da altre galassie: gli Who, Joni Mitchell e tanti altri, fino ad arrivare agli zingari felici di Claudio Lolli. Un Circle game.

Capitalizzare i momenti di bellezza”, parafrasando l’autore: è quello che facevamo e che, per fortuna, abbiamo fatto, è il valore del tempo che scorre in questo romanzo.

Aggiungo anche che ho letto con ovvia commozione le pagine dedicate a David Crosby coincise con i giorni della sua scomparsa recente: “Crosby mi era parso un trampoliere del ripensamento, uno che giocava con i sentimenti ambivalenti perché era capace di gestirli; anzi, ne traeva il meglio, pescando nel pozzo delle proprie zone oscure per trasformarle in arte luminosa.

La narrazione, oltre che ruotare attorno alla musica, si intreccia con memorie personali e sportive di quegli anni scanditi da lunghe estati di ozio e compagnia, durante villeggiature in montagna, prima che il mare diventasse il must di molte famiglie e quei luoghi si spopolassero. Prima che il “sole rosso dentro il mare” si intromettesse tra il narratore e la “sua” Sila.

Le case: quelle prese in affitto ogni anno, estate dopo estate. “Cosa resta di noi nelle stanze che abbiamo abitato?”

Alce Nero: nonno Alce, “presenza premurosa e munifica, refugium peccatorum per l’intera famiglia”. Uno di quei personaggi che ti rimangono accanto quando chiudi il libro e continui a sentirne la presenza.

Un romanzo/non romanzo di vibrazioni positive (che cosa meravigliosa di questi tempi!) in cui l’autore non ha timore dei ricordi perché nei ricordi non deve necessariamente stare la melassa della nostalgia come comunemente si intende, quel sentimento che temiamo e ci crea soggezione perché legato al tempo che passa, e questo spaventa.

Invece no, niente di tutto questo: ricordi, profumi, case, dischi, musicisti, allenatori di calcio, coppe Davis e motociclisti lanciati nel vento di circuiti fatali, restituiscono armonia e respiro, gli stessi che provi camminando tra i pini altissimi dei boschi silani (cosa che ho fatto infinite volte).

In fondo la nostalgia è una forma di consapevolezza (e Gianluca Veltri l’ha sapientemente dosata), diventa forza della propria identità, una sorta di area di protezione che serve a mantenersi integri e saldi.

O forse, come fa dire a Toni Servillo Paolo Sorrentino ne La grande bellezza: “è l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro”.

Un romanzo che si legge ondeggiando su un’altalena tra due alberi, fra toni poetici, pagine che fanno sorridere (e a volte ridere), con una bellissima postfazione di Dario Brunori (che non svelo) e che fa bene leggere, proprio nel senso che restituisce benessere, grazie anche a una scrittura lineare e profonda.

L’odore dell’arrivo. Perché, in fondo, non ce ne siamo mai andati da luoghi in cui abbiamo abitato qualcosa di molto simile alla felicità.

UNA CITAZIONE

Mi sentivo pienamente rappresentato da Alce, che stabiliva un ponte felicissimo tra la mia provenienza ancestrale, pre-moderna, alla quale non intendevo rinunciare, e l’omaggio dovuto a Nick Drake e alla sua musica.

Nick, in fondo, pur essendo un idolo pop-rock figlio della modernità, aveva un’anima antica; pur precorrendo i tempi con il suo talento innovatore, quei tempi non aveva saputo viverli.

Io ho sempre amato unire, connettere, anche a costo di qualche arditezza. Nick e Alce Nero avevano davvero poco in comune. Curiosamente, creavo adesso un paradosso, chiudendo un cerchio intimo tra una sorta di fratello, che sarebbe rimasto giovane per sempre, e un nonno che invece era già vecchio quando io iniziavo a ricordarmi di lui. Un giovane imprigionato per sempre nella sua gioventù, che non ha fatto in tempo a invecchiare; un avo che da giovane lo si può soltanto, a fatica, immaginare.

Il giovane Nick. Il vecchio Alce.

L’OPERA

Un romanzo narrato in prima persona, diviso in tre sequenze, che si dipana in più direzioni, tra paesaggi, sentimenti e personaggi che si completano in un’unica magica storia e concorrono a riprodurre vicende individuali e collettive, in scala ridotta (la voce dei ricordi, l’humus di una piccola città, un’orma sulla luna) o ingigantite (le atmosfere di un giorno qualunque, una vecchia casa nel bosco). Gianluca Veltri racconta così le risonanze e i rispecchiamenti dell’esistenza, attraverso gli occhi e le parole di un protagonista senza nome, stabilendo uno scambio dialettico tra il presente e l’irrealtà reale del passato. Un libro raffinato in cui la musica assume sempre il ruolo del contenuto, dell’essenza: è il racconto del mondo tra gli echi dell’altopiano silano, è la natura intesa come valore da vivere, è la memoria del tempo, è il diritto di dirci felici, è il rosario dei rimpianti, è l’odore dell’arrivo. La postfazione è firmata da Dario Brunori.

L’AUTORE

GIANLUCA VELTRI

Gianluca Veltri, scrittore, giornalista culturale, musicista, vive e lavora a Cosenza. Ha scritto di musica e letteratura su Mucchio selvaggio, Diario della settimana, Musica! Rock & Altro e altre testate. Collabora con Il Quotidiano del Sud, L’Osservatore Romano e il blog letterario Nazione Indiana. Ha curato alcune voci del “Dizionario della canzone italiana”. Diversi suoi testi sono presenti in volumi collettivi. Ha pubblicato “Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di Claudio Lolli” (2006), “Francesco Guccini. Fiero del mio sognare” (2010), “Le parole salvate” (2018).

Il mio omaggio all’autore per dire: grazie!

Malavuci soffiate nel vento da una cantastorie

Molto tempo fa nel secolo decimonono, Honoré de Balzac diede alle stampe “La signorina Cormon”, titolo originale “La vieille fille” che letteralmente significa “La zitella”.

Storia  esilarante di  Rose-Marie-Victorie Cormon, attempata quarantenne, corpulenta e ingenua, discendente di una ricca famiglia borghese che cerca marito. Inutile dire che i pretendenti mirano al suo patrimonio, più che alla povera Rose-Marie. Il romanzo, crudele e grottesco, nel quale sono frequenti doppi sensi a sfondo erotico,  forte per quei tempi, è considerato un capolavoro del romanzo moderno, anche se non è molto conosciuto.

Con Malavuci di Antonella Perrotta, La signorina Cormon non ha molto a che fare per trama o stile, ma nel leggere l’opera di Antonella ho ripensato a questo romanzo di Balzac che lessi molto tempo fa, e questo credo dica già molto.

L’abilità narrativa, il tenere insieme la storie e le storie, il creare personaggi a tutto tondo pur nei rapidi tratteggi, il restituire l’atmosfera di un piccolo paese pettegolo, San Zefiro, dove le chiacchiere viaggiano con il vento e soffiano malamente sulle vite di uomini e donne, mi ha ridato il piacere di una lettura che non provavo da tempo, un po’ come sedersi accanto a un ruscello che scorre e trovare il piacere della frescura lontano dall’afa, sotto l’ombra di fronde mosse dal vento.

In un panormara letterario che ci offre eccellenze, ma spesso anche storie pretestuose, pseudo-intellettuali, che talvolta nascondono l’incapacità di costruire degnamente una storia, una trama, dei luoghi, Malavuci, nei suoi toni che virano sapientemente dall’ironico al drammatico, possiede quella narrazione che crea un affresco, geografico, fisico e umano, come avviene nei “grandi” romanzi.

Pagine ironiche, talvolta comiche, altre volte tristi da far velare gli occhi: le reazioni di chi legge si snodano su un solido filo narrativo che suscita empatia e antipatia, ma sempre coinvolgimento.

Ambientato a San Zefiro, un piccolo borgo calabrese immaginario, siamo nel 1919 e dopo la guerra arriva ad ammazzare pure la Spagnola , che alcuni credono si mandi via con gli scongiuri perché causata da qualche magara. La magara è una ragazza, Lela, colpevole di essere forestera: è lei  la strega della quale liberarsi (ah! i pregiudizi!)

Poi c’è Sasà, figlio di Antonio e Caterina Bellosguardo, famiglia di carriamorti (ovvero proprietari dall’agenzia di pompe funebri, Il Trapasso) che sulle labbra dei paesani diventa  la fimminella di cui sparlare, con grande rabbia della madre che farà di tutto per sfatare questa malavuce (ah! i pregiudizi!)

Un intreccio di vite che l’autrice ci racconta in veste di “cantastorie” e che in un momento di pausa dalla lettura ho preso in mano perché la sera prima di dormire devo comunque guidare la mia insonnia con qualche pagina al letargo della mente e del corpo, ma che invece mi ha catturato completamente, tenendomi sveglia, e mi ha fatto scoprire una narratrice di stoffa! (devo recuperare Giuè, il primo romanzo, che pure ho)

Non ultimo vorrei segnalare la grande cura grafica ed estetica di questo romanzo e voglio dirlo, visto che mi sta capitando di leggere romanzi di accreditate case editrici con refusi e impaginazioni penose. Ecco, l’ho detto.

Antonella Perrotta, Malavuci, Ferrari Editore

Antonella Perrotta nasce in Calabria, dove vive e lavora. Laureata in giurisprudenza, appassionata da sempre di storia, scrittura e letteratura. Suoi racconti sono presenti in volumi collettanei. Collabora, inoltre, con riviste e blog culturali. “Malavuci” è il suo secondo romanzo, dopo “Giuè.

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