“… devo rassegnarmi a non vederla più”.
Chiudi il libro, lo appoggi sul comodino, pensi che è finita e ti senti ovattata in una malinconia silenziosa. Alle tue spalle c’è il fondale di un palcoscenico in bianco e nero che riproduce la gigantografia di un rione e due donne che parlano fitto, di profilo, e sembrano divertirsi.
Fai fatica a incamminarti, a uscire da lì. Fuori ti aspetta un cielo grigio e insidioso, che non promette niente di buono. Sono già le quattro e tu sei ancora in pigiama in una giornata che sta andando via così. A volte succede. Che non se ne ha voglia.
Vorresti trattenerle, Lila e Lenuccia, ma se ne stanno andando, cominciano già a sbiadire, mentre intorno gli oggetti acquistano la consistenza della realtà. Certi distacchi sono così. Anche quelli da certi libri.
Ci sono periodi in cui le cose spiacevoli si susseguono tanto da farti pensare che esiste un disegno degli astri a cui tu sei appeso tuo malgrado e ci si ritrova stanchi di combattere contro mulini a vento. Ogni giorno porta con sé un carico di frustrazione, incontri con la stupidità della cattiveria, della vendetta, delle ritorsioni. Quella mediocrità che hai sempre cercato di tenere lontana e che adesso ti bracca. Tu sei lì che vorresti ridere in faccia a un destino che è storto. Ma sarà l’inverno, o il freddo o lo stress, senti che non valgono neanche quella risata. In momenti come questi la lettura può essere consolatoria. Non terapeutica, perché al mattino poi ti devi alzare e risbatterti nel frullatore. Però alla sera, quando tutto si ferma, tu te ne vai. Accade magari che ci siano ad aspettarti due donne che ti invitano a entrare nella propria casa e ti mostrano la loro vita, e sono così brave di risucchiartici dentro. La tua attenzione è solo per loro, sgravata dalla giornata pesante, prendi le distanze da tutto e tutti. Così, dopo, puoi dormire tranquilla.
Inizia in un rione di Napoli negli anni ’50 la storia di Raffaella Cerullo ed Elena Greco, nel primo dei quattro volumi che compongono L’amica geniale, romanzo di Elena Ferrante.
Lo sfondo da commedia anni ’50, sembra di essere in un film di De Sica: le voci di Napoli nei vicoli, le sfogliatelle e l’aria di mare, il Vesuvio all’orizzonte, e quelli che vivono in quartieri fatiscenti che il mare non l’hanno mai visto per annusandone l’odore. I poveri ma belli. Una lettura piacevole.
Poi l’ambizione cresce e si alza la posta: le due amiche bambine nel primo romanzo, nel seguito – Storia del nuovo cognome – diventano adolescenti, le seguiamo nel tempo di mezzo nella Storia di chi fugge e di chi resta, fino alla maturità nella Storia della bambina perduta.
Così non è più solo la storia di Lenuccia e Lila (la prima finisce per diventare una pioniera dell’informatica con la licenza elementare, la seconda un’affermata scrittrice) ma è la storia di questo paese che attraversa il boom economico, il ’68, gli anni di piombo, le speranze delle istanze rivoluzionarie e la politica del degrado del sud, la trasformazione di Napoli – città emblema – della caduta, fino ai tradimenti, agli scandali, gli intellettuali disonesti, alla corruzione che guasta qualsiasi cosa, all’indolenza.
Lila e Lenuccia sono le mogli, le madri, le amanti e in sostanza le croniste di questa storia nella loro stessa storia.
Un’amicizia femminile dunque: un rapporto d’amore e di conflitto che dura una vita e sopravvive alle perdite dolorose, ai rimpianti, ai litigi, ai battibecchi, alle rivalità e all’invidia, una sorta di cordone ombelicale che le lega l’una all’altra passando dalla città dove sono nate.
Elena e Raffaella, i veri nomi nel romanzo. Io e Raffaella, nella realtà. Che ci perdiamo, ci ritroviamo, ci detestiamo quando puzziamo di sconfitta per poi riacchiapparci e ridere a volte, a volte no (chissà se lei lo avrà letto, mi chiedo, nella vita vera.)
E infine due bambole, povere, di pezza, Tina e Nu, abbandonate in uno scantinato e riemerse, malconce ma incolumi dopo decenni, alla fine di una storia che non vorresti mai che finisse.
Ma oggi è finita.
PS Alla fine dei giochi di tutto quello che ho letto sull’identità sconosciuta di Elena Ferrante (romanzo a più mani, operazione di marketing, Starnone o Anita Raja che sia) con buona pace degli intellettuali che storcono il naso (perché la letteratura sembra un software che genera storie, o canovaccio di un’impeccabile serie tv) non me ne importa niente.
Scrivetelo voi un romanzo di quelli che cominci e non smetti di leggere. E che a volte vi salva.