Butta tutto in una storia

Marco Quarin (scrittore) ha letto Luna Pietra e così scrive:

“Prendimi con te, raccontami del tuo inutile amore, del terremoto dei sentimenti sotto un cielo popolato da rondini madri. Butta tutto in una storia. Magari ingannami, non è la ragione che mi salverà dalla scintilla della tua finzione”. [pag. 70]

“Butta tutto in una storia”, mi ripetevo avanzando nella lettura del bel romanzo di Daniela.

Solo dentro una storia, la nostra chimica prende sangue e carne, solo le storie nutrono il nostro sapere.

Solo le storie ci istruiscono su ciò che meno conosciamo, o conosciamo superficialmente, spesso affidandoci a stereotipi e pregiudizi.

Daniela ha intessuto una poetica storia di donne immerse ed emerse dalla terra di Calabria, terra sommersa da arcaici gravami (ma anche di incontaminata e salvifica bellezza), che è perfino superfluo nominare.

Ha creato una perfetta osmosi fra mondo della realtà, nel quale ha calato quelle storie per permetterci di capirlo, e mondo della fantasia, nel quale con le stesse storie possiamo immaginarne uno diverso, migliore e sempre più umano.

Potrei raccontare molto delle storie di Cosma, di Cettina, di Tilde, di Elvira. Potrei dilungarmi sulle loro aspirazioni e delusioni, sulle loro speranze e disillusioni.

Non lo faccio perché spero che in tanti spendano pochi euro per scoprirle da soli.

Ne vale la pena, anche perché la scrittura di Daniela è coinvolgente, punta sui sostantivi che ti fanno vedere e sentire senza depistarti, e abbagliarti, con furbi aggettivi.

Daniela Grandinetti, Luna Pietra, Acireale (CT), a&beditrice, Gruppo editoriale Bonanno, 2022, pagg. 162.

UN ROMANZO DI LUOGHI E PERSONE

Recensione

Questo romanzo, fatto di luoghi e di persone, racconta la nostra Calabria incastonata in una storia che evolve con essa nella trasformazione del territorio, nell’inevitabile fluire del tempo fatto di un “prima” (passato), di un “adesso” (presente) e di un “poi” (futuro). I luoghi della Calabria, dunque, fanno da cornice ai fatti raccontati e al tempo entro al quale si svolgono.

Il tempo del “prima”, risalente agli inizi del Novecento, porta con sé un racconto soffiato dal vento impetuoso di Sovara e srotolato, tra le generazioni, per dare testimonianza dei luoghi che, pur abbandonati, possiedono una storia che li preservano dalla morte.

Storie amare quelle di un tempo. Il tempo dei nostri contadini e pastori che, sotto il peso delle fatiche, vivevano di stenti e privazioni resi ancora più duri da una sorta di individualismo rafforzato nella nostra Calabria dalla montuosità del territorio e dalle sue terre non sempre generose.

Dal tempo del “prima” si appropria quello dell’“adesso”. Il tempo nostro dei luoghi, dei paesi che subiscono l’abbandono, come quello di Sovara, protagonista di uno spopolamento sempre più incalzante dei comuni montani del nostro Paese, diventati nel tempo dei veri e propri ghost town. Oltre questo tempo, si desume che all’autrice piaccia pensare a quello di un “poi”, speranza auspicabile di un ripopolamento dei paesi che, fra le altre cose, attraverso varie strategie politiche, sembra stia già avvenendo in borghi abbandonati, Pentedattilo o Laino Castello sono tra questi.

Un’impresa difficile ma non impossibile perché i luoghi vivono fino a quando le persone sono legate ad essi. E il ritorno è sempre cambiamento, una sfida verso il luogo natio che non è più lo stesso; lo sa bene Cettina, una delle protagoniste del racconto così come tutte quelle persone che guardano alle proprie radici indossando quegli occhiali che solo una vita trascorsa lontano dalle proprie origini ti può donare.

Le migrazioni di “prima” e quelle di “adesso” entrambe legate dalle medesime motivazioni di chi è costretto ad abbandonare luoghi “vivi” per un “altrove” che, pur benevolo, è privo di memoria, di legame fisico e affettivo; di chi ha voglia, dopo essere partito, di tornare, consapevole che pur nella rovina delle cose, a causa dell’abbandono, ha la possibilità di riconnettersi con un passato che dura attraverso le cose nel presente. Filo sottile teso dal ricordo dei padri.

Da questi luoghi carichi di senso, sgusciando, prendono forma le persone e tra queste due donne sono le protagoniste: Cosma e Cettina; vittime della povertà e di una cultura patriarcale che condanna il genere femminile, a ruolo di sottomissione, mediante la violenza fisica o psicologica.

E poi ci sono gli uomini, a mio avviso, i veri perdenti perché escono da questa vita nella maniera più triste che un essere umano possa affrontare, ossia quella della solitudine e dell’abbandono.
Questa sarà la sorte di don Natale che rimasto solo, dopo che la morte avrà falciato la sua intera famiglia, vivrà la sua estrema ora nel buio di una notte solitaria, in compagnia del suo solo fantasma che gli è sempre accanto, vigile a ricordare il male commesso e non lo lascerà fino al suo ultimo istante di vita. E quella del padre di Cettina, nonché marito di Elvira, che trascorre la sua esistenza a riempire con la forza e il potere il proprio serbatoio affettivo, ignaro che questi mezzi non ripagano con il calore dell’affetto, perché l’amore non lo si può ottenere attraverso la paura. Egli, infatti, trascorrerà gli ultimi anni della sua vecchiaia a brancolare nel buio della sua mente dopo aver fallito nel suo ruolo di marito e in quello genitoriale, condizionando fortemente la figlia Cettina nelle sue scelte di vita.

Il romanzo è reso ancora più intenso dall’utilizzo della tecnica del flashback che, intrecciando il presente con il passato, dà al lettore la possibilità di comprendere vite lacerate, percorsi di crescita segnati da paure e conflitti che ostacoleranno per sempre la possibilità di un vivere sereno.
Ciononostante, non bisogna darsi per vinti. Commuovente è il ritorno della protagonista al suo paese. La sua esperienza di violenza psicologica e fisica avrà un impatto notevole sulle sue scelte di vita che la renderanno un personaggio resiliente poiché, mettendo insieme i frammenti della sua anima, sarà in grado di gestire le sue emozioni con una forza di volontà tale da intraprendere un nuovo cammino, quello del ritorno.

Ed è questo un ritorno obbligato anche per tutti coloro che vanno alla ricerca di sé stessi, di verità profonde, parti preziose dell’io che a volte gli uomini perdono nell’oscurità della notte, ritrovandosi esseri fragili a causa delle miserie umane.

Di grande significato è il romanzo di Daniela Grandinetti, la sua lettura ci mostra le “acrobazie” della vita nella notte buia, ma anche il desiderio di profumi e colori naturali che riportano al meraviglioso mondo dell’infanzia, mentre gli occhi rimangono impigliati tra il luminoso chiarore della luna.

Teresa Sinopoli (Docente di Lettere)

RECENSIONE

ARTICOLO DI FRANCA FORTUNATO PUBBLICATO SUL QUOTIDIANO DEL SUD IL 18.02.2023 PER LA RUBRICA “UNA DONNA, UNA MIMOSA…VERSO L’8 MARZO”

UNA MIMOSA PER LA SCRITTRICE DANIELA GRANDINETTI

Ogni scrittrice merita una mimosa perché in ogni libro vivono passione, amore, timori, aspettative, ambizioni, piacere e fatica di ogni donna che ama scrivere. Da qui nasce una mimosa per Daniela Grandinetti, scrittrice calabrese, nelle librerie in questi giorni con il suo ultimo romanzo “Luna Pietra” edito A&B.

Un romanzo ambientato in un piccolo borgo montano nell’ Appennino calabrese, Sovara, e in un tempo che tiene insieme i primi anni del Novecento e il presente. Cosma, Rosaria, Elvira, Cettina, Angela e Tilde sono le donne le cui vite nel romanzo si intrecciano, in un continuum tra nonna e nipote, madre e figlia, amiche e sorelle in un groviglio di solitudine, lacrime, violenze, stupro, aborto clandestino, menzogne, tradimenti, segreti, rancori, paura, rabbia, disprezzo, compassione, riconciliazione, morte e rinascita.

Tutto ruota intorno a Cettina, alla sua amicizia con Tilde, che cresciute insieme resteranno sempre unite anche quando lei parte e l’altra resta, e al fantasma di Cosma, la “bella contadina morta giovane e che gli anziani del paese raccontavano corresse per i vicoli a seminare vento, tempesta e malasorte”.

Un fantasma, divenuto leggenda, che ha accompagnato, nel racconto di nonna Rosaria, l’infanzia e l’adolescenza di Cettina. Un fantasma che la accoglie e la protegge quando ha paura del padre che picchia rabbiosamente Elvira, sua madre. Una madre che lei vorrebbe salvare ma non sa come fare anche perché non vuole essere salvata, almeno è quello che pensa. Da qui la sua rabbia verso di lei e i sensi di colpa verso sé stessa.

Quel fantasma, il cui volto le somiglia e torna in tutti i suoi disegni e nei suoi scritti, non è che l’ombra di sé stessa, che cerca di rassicurarla e placare le sue paure. Scrivere e disegnare sono le cose che lei ama “di più” ed è per diventare pittrice che lascia quell’inferno e si trasferisce a Milano, dove frequenta per un anno l’Accademia. Un sogno quello di pittrice che abbandonerà, dandole un senso di fallimento, e si accontenterà di vivere malamente il sogno dell’altro, del suo compagno, un pittore famoso.

Il passato anche se si cerca di dimenticare, di rimuovere, come fa Cettina, non si cancella, ed è così che quando decide di ritornare al suo paese e nella casa del padre i ricordi tornano tutti e le chiedono di essere accolti, elaborati, attraversati, con tutto il groviglio di sentimenti negativi che si porta dentro e che chiede di essere sciolto, se vuole lasciarsi davvero il passato alle spalle e ricominciare a vivere.

La nonna, la madre sono morte, il padre “origine di tutto quel male”, da lei sempre disprezzato, è ormai vecchio ed ammalato, è innocuo, e se non lo può amare e perdonare cercherà almeno di averne compassione. Rivive la pena che, da piccola, provava per sua madre, “una donna triste” dallo “sguardo spento” dalla violenza di un uomo che non l’amava e la tradiva.

Solo dopo aver letto una lettera della madre scritta per lei prima di morire in cui le svela l’ultimo segreto e le chiede di essere assolta, Cettina si riconcilia con lei e con sé stessa, superando ogni rabbia e risentimento. Con Tilde si confessano per la prima volta bugie e segreti che “forse – dice l’amica – avremmo dovuto confessarci prima”.

Cettina può ricominciare a vivere con accanto l’ombra di Cosma che finalmente ha trovato la sua quiete. Un romanzo triste ma vero, che suscita sdegno per le tante vite di donne distrutte dalla violenza e dal dominio maschile, in una Calabria che, grazie alle donne, non c’è più se non nello spopolamento dei suoi borghi, come Sovara.

Franca Fortunato

Leggendo Luna Pietra

Wanda Lamonica (poetessa) ha scritto:

“…L’arte però, quella vera, è vergine, creazione immune da qualsiasi altro interesse che non sia l’espressione di un’urgenza interiore. Credimi, c’è sempre qualcuno più bravo di noi, ma nessuno è uguale a noi “

Daniela Grandinetti – Luna Pietra – A&B Editrice

“Arte vera” è, per me, la scrittura di Daniela.

Ho appena finito di leggere il suo libro. Daniela racconta di donne con storie diverse, unite dal filo nascosto di segreti spesso spinosi che la vita, ad un certo punto, ha bisogno di gestire in modo diverso, affrontando passato e verità con una maturità più consapevole. Narra di ferite che vanno guarite insieme a chi ci vuole bene, condividendone il dolore. Cosma, Cettina , Tilde, Elvira, sono tutte figure a cui ci si affeziona e a cui si pensa tanto, anche dopo aver concluso ‘Luna Pietra’.

Libro coinvolgente, intenso, ricco di sfumature, di colori, di speranza.

Grazie per tutte le emozioni

Io ringrazio Wanda Lamonica per la sua lettura, le suggestioni restituite alle mie donne e la personalissima foto

Scarnificare

La persona di questo romanzo è la seconda singolare: tu.

Il verbo prevalente il condizionale: potresti.

Tu potresti: l’eventualità, la possibilità, l’opportunità.

Caso mai accadessero o esistessero eventualità, possibilità, opportunità, cosa che appare improbabile per il protagonista di questo romanzo dolente che ha perso la cosa che aveva di più caro e, di conseguenza, sé stesso.

È una storia in cui si parte e si torna, si va e si viene, si riempie una valigia come se si dovesse partire per sempre salvo poi tornare a casa dopo poco.

Come nel gioco dell’oca: quando ti ritrovi nella casella dell’oca nera che ti rimanda a quella di partenza e devi ricominciare.

Andare nel luogo dove sei stato insieme a lei, poi tornare e ripartire per un altro luogo che era il “nostro” luogo preferito: provare a vedere che effetto che fa, andarci da soli, dopo, e ricordare, in un loop che assomiglia al nastro scorrevole degli aeroporti, tu stai lì a fissarlo aspettando il bagaglio mentre gira. Gira. Arriverà e sarà un caso, il tuo bagaglio tra quello degli altri.

Roberto Saporito nel consegnarci questa storia autobiografica non ha usato alcuna indulgenza, né verso sé stesso né verso i lettori : la sofferenza viene evocata da ogni singola parola che alita sulla pelle. Tu quell’alito lo senti e comprendi intimamente che le parole alla fine non servono, o servono a poco, e per questo l’autore scarnifica al massimo l‘uso di quelle parole che al contrario siamo abituati a sprecare, salvo poi perderle quando perdiamo noi stessi o l’altro fuori da noi che rendeva tangibile il nostro esistere, nei gesti, nei luoghi, nei cibi, nei calici di vino condivisi.

L’assenza è un non luogo, è non esserci, è la meccanicità dei gesti in cui cerchi di trovare il senso per stare ancora al mondo, magari è nella ripetizione che potrebbe esserci una sorta di salvezza o qualcosa che le assomigli. Potrebbe: condizionale. A condizione che.

Ma qual è la condizione? Esiste? Può esistere?

Non c’è una risposta e non trovo parole migliori da quelle usate da Kafka per “riferire” quel che io, lettrice, ho avvertito attraverso quel sussurrare continuo sulla pelle che ha accompagnato le lettura di questo romanzo doloroso e bellissimo.

“Ma è bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martella sul cranio, perché dunque lo leggiamo? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo dei libri, e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. (Da una lettera a Oskar Pollak (Novembre 1903)

Grazie a Roberto Saporito per queste pagine intense, per il pugno sul cranio. Ci sono romanzi che raccontano “storie” e altri impregnati di vita e di morte, di assenza e solitudine, da far vibrare quell’essere fragile che vive in ognuno di noi. Nella perdita e nel timore della perdita. Nell’esperienza di sopravvissuti e nella transitorietà di ciò che siamo o supponiamo di essere.

Niente, in questo momento è la tua parola preferita

Il tuo nuovo passo lento da viaggiatore del tempo perduto

ROBERTO SAPORITO

E’ nato ad Alba (CN) nel 1962. Ha studiato giornalismo. Ha diretto una galleria d’arte per trent’anni. Ha pubblicato raccolte di racconti e romanzi, tra i quali ricordiamo Harley-Davidson (1996), Generazione di perplessi (2011), Il rumore della terra che gira (2010), Il caso editoriale dell’anno (2013), Come un film francese (2015), Respira (2017), Jazz, Rock, Venezia (2018) e Come una barca sul cemento (2019). Suoi racconti sono stati pubblicati su alcune antologie e su innumerevoli Riviste Letterarie. Ha collaborato con la Rivista Letteraria di Milano “Satisfiction” con una personale rubrica.

Qui la recensione di Nicola Vacca

https://www.gliamantideilibri.it/in-nessun-luogo-roberto-saporito/

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