L’ho visto volare

Sul balcone, a fumare una sigaretta, cerco qualche stella nel cielo di una città notturna. All’improvviso, non so come, mi viene in mente una canzone …. ho visto Nina volare… la canticchio in testa, credo perchè i balconi dei piani alti mi fanno quest’effetto: guardo di sotto e penso sempre che si potrebbe provare a volare.

Poi ho pensato che io qualcuno l’ho visto volare: Agostino, cioè, quando l’ho visto volare non conoscevo il suo nome. E’ stato qualche anno fa, una mattina, mentre stavo rientrando a casa. Era una giornata di sole di settembre, limpida, camminavo spedita e non so perché a un certo punto ho alzato lo sguardo proprio nell’esatto momento in cui dall’attico del palazzo ho notato venir giù qualcosa. Non ho capito cosa fosse, sembrava un fantoccio avvolto di abiti gonfi di aria e in quei pochi secondi mi sono chiesta: chi getta da lassù un pupazzo di dimensioni umane? poi però ho realizzato che non era un pupazzo, era un essere umano. Così dalla curiosità sono passata al panico perchè nel frattempo ero proprio lì, nel punto esatto del tonfo. Un rumore secco, forte, disperante.

Mi sono infilata nel bar, concitata, sono riuscita a dire: qualcuno dev’essersi buttato, non avevo il coraggio di guardare. Dal bar invece si sono precipitati fuori e il suo nome a quel punto l’ho sentito urlare.

“Agostino, ma è Agostino!”

Ho saputo poi che Agostino era un dolce ragazzo che aveva perso tutti, che viveva da solo, lì, nelle vicinanze, che stava spesso seduto davanti ai negozi del quartiere, che campava con qualche lavoretto e con ciò che buone anime gli regalavano, cibo o vestiti.

Mi sono chiesta perché. Perchè. Per giorni e giorni quell’immagine di Agostino che veniva giù dal cielo mi ha paralizzato il cervello. Davvero l’aveva voluto fare? O voleva soltanto provare a volare? Magari si sarà detto: metto un piede fuori, poi un altro, vediamo cosa succede.

Cosa avrà pensato Agostino in quei pochi secondi di volo? Era felice? Libero? Atterrito? Pentito? Aveva gridato aiuto? O forse soltanto davvero si sentiva un pupazzo con abiti gonfi di vento? Rideva? Piangeva? Chiamava qualcuno? Pregava? Malediceva se stesso e quell’attimo in cui aveva sbilanciato il suo corpo nel vuoto?

Agostino. Io non l’avevo mai visto. Era sull’asfalto quando ho conosciuto il suo nome. Se fosse un pupazzo rotto o intero non so.

Spengo la sigaretta, e mi sovviente un’altra canzone.

Oggi ho imparato a volare, e non me ne voglio più dimenticare.

Ad Agostino, stasera.

I’ BUTTIGGHI

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Erano in tutto tre i giorni dell’anno in cui mia madre non era in casa: il giorno delle grispelle per natale, il giorno delle cuzzupe per pasqua e il giorno delle bottiglie per l’inverno.
Il giorno delle bottiglie cadeva verso la fine d’agosto. Io mi svegliavo e in casa c’era un silenzio insolito. Dopo la colazione, mi sciacquavo il muso e andavo al vecchio forno di mia zia, poco distante, dove gli adulti erano già tutti all’opera. C’era profumo di basilico e pomodori e da fare per tutti. Due quintali circa di pomodori erano stati lavati e messi nelle cassette al sole. Poi era la volta del lavaggio delle bottiglie, le migliori erano quelle della birra da tre quarti, riciclate, anno dopo anno. Erano sempre le stesse.
A me era riservato il basilico, dovevo lavarlo e sfogliarlo, facendo attenzione a lasciare intatta la cima. Quella serviva per le bottiglie con i pomodori a pezzi, che dovevano essere pressati per bene, “mungiuti” , altrimenti il rischio era che rimanesse aria e le bottiglie sarebbero scoppiate. Lavoro di responsabilità che di solito mi lasciavano iniziare, ma ahimè, a finire la bottiglia “bella mungiuta” era sempre mia madre.
Si passava quindi alla spaccatura, mia madre lavorava di polso e coltello, quando era soddisfatta ripeteva “belli, belli chini“, il che voleva dire che i pomodori erano sani, grossi e maturi. Giusti insomma.
Chini e spaccati  riempivano  “i quadari piccirrilli”  e venivano messi a bollire sulla legna fino a “squadarsi“.
La fase successiva toccava a mio padre, che aveva fissato la macchinetta dei pomodori al tavolaccio con due vaschette: una davanti raccoglieva la salsa e una dietro per le bucce che venivano espulse. I mestoli pieni di pomodori bollenti andavano e venivano dal bocchettone della macchinetta. La salsa tonfava nella vaschetta e mia madre la trasferiva nelle bottiglie.
Ah, io c’avevo già infilato le foglie di basilico lavate. Mica dormivo!
Poi le bucce: venivano passate più volte. Più il pomodoro era chino, più le bucce erano succose e quindi venivano rigirate nella macchinetta, perché quello era il cuore del pomodoro, finché non ne uscivano secche e  incolori.
Le bucce da quelle parti allora non si buttavano, c’erano appositi secchi destinati alla “vrudata” per i maiali di qualcuno che in campagna non mancavano mai.

bidoni-2Si arrivava alla sera, con le bottiglie che mio padre aveva chiuso ermeticamente e via via,  una per una, mia madre sistemava nella quadara grande, con vecchie coperte a  coprire gli spazi vuoti. Poi il fuoco veniva alimentato e le bottiglie coperte “avianu i vulliri na nuttata“… e quella era la notte dell’attesa.
Il rischio che le bottiglie scoppiassero c’era sempre.
Il giorno dopo, al mattino presto, mia madre e mio padre erano già lì  a svuotare la quadara grande e trasferire le bottiglie nelle cassette.
Quante ne erano scoppiate? Due, tre, quattro…. era andata bene! Fino a dieci era un successo.

Negli ultimi anni della sua vita mia madre, rimasta sola, ancora si ostinava a voler fare qualche bottiglia, in casa. L’ultima volta sperimentò un metodo che le avevano suggerito: Le bottiglie chiuse e ancora calde lasciate avvolte nelle coperte, senza farle bollire.
Beh, quella notte dell’attesa fu costellata da rumori … bum… bum… bummm…

Una tragedia!
Mia madre il giorno dopo pianse, pianse sul pomodoro che aveva invaso il pavimento e sui cocci.
Pianse per la salsa andata a male? No
Per la fatica sprecata? No
Perché doveva raccogliere il pomodoro? No
Perché si era rovinato il pavimento? No
Pianse perché erano scoppiate i buttiggli… le sue, che conservava da più di 30 anni,  anno dopo anno, quasi fossero una cosa preziosa appartenuta alla famiglia.

Fu la volta buona: smise di fare i pomodori e si convertì ai pelati.

Mandami tanta vita di Paolo Di Paolo

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Finisco di leggere il libro su una panchina, in un luogo quieto del mondo dove non ci sono rumori molesti. Qui sembra diverso anche il tempo che c’è là fuori. Ho abbastanza calma per chiudere il libro e pensare. Strano perché di solito quando finisco di leggere un libro mi dispiace: è come giungere al capolinea e dover scendere proprio quando ti stai divertendo, o salutare un amico che non rivedrai più. Avverti sempre un senso di perdita malinconica. Invece non provo niente di tutto questo.

Eppure è bello questo romanzo, a partire dal titolo. Ed è strano, non concede nulla alle emozioni. E’ ben scritto (cosa non così scontata) e affatto semplice. C’è la storia, ma non la trama, c’è la Storia ma non è raccontata, c’è una destinazione, ma non c’è un finale. C’è un giovane scrittore di talento che mi è sembrato coraggioso, a partire dall’uso sapiente delle parole. La lingua è lingua, e qui è corretta, complessa, giusta.

Uno che non ricerca effetti speciali, non ti fa piangere, non ti fa ridere, non ti esalta nè ti annoia. C’è ordine in questo romanzo, un ordine che ti induce di tanto in tanto a fermarti e a pensare, che è quello che i libri dovrebbero fare a dispetto delle vendite.

E’ un libro tributo a un personaggio storico, ma anche sulla giovinezza. “Le idee, almeno le idee, ci sopravvivono?”

…. si può chiedere al tempo di rallentare?….. vorrebbe cingerle la vita con un braccio, ma si limita a tenerle una mano sulla spalla…. lui pensa E’ una magia. Questo lo pensa anche lei. Lui sente un trasporto quasi violento, eroico, totale verso di lei, verso di loro proiettati in un futuro lieve come queste mongolfiere. Si chiede se lo senta anche lei. Questo è comunque un segno, pensa lui. E poi pensa Non voglio invecchiare mai.”

 Mandami tanta vita  (Paolo Di Paolo)

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