Un padre come Cat Stevens?

(Scritto qualche anno fa, ma non importa)

A chi non sarebbe piaciuto un padre come Cat Stevens? Bello, famoso, ricco, con esperienza del mondo e musicista. Un padre dolce rock, Father&Son: sarebbe stato perfetto.

Ma a me è toccato il mio.

E’ la festa del papà, se te ne dimentichi ci pensa fb a ricordartelo. E così ho voglia di scrivere qualcosa anch’io, ma scrivere di mio padre equivarrebbe a melassa retorica, aveva un certo numero di qualità oggi in via d’estinzione.

Così mi viene in mente un passaggio di un libro letto di recente di Paul Auster, Follie di Brooklyn, nel quale il protagonista a un certo punto dice: “.. alla fine tutti saremmo morti… ma nessun libro sarebbe stato scritto su di noi. Questo è un onore riservato agli individui celebri e potenti, a chi è dotato di qualità eccezionali, ma chi si degnerebbe di pubblicare le biografie della gente comune, senza fama, di tutti i giorni, che incontriamo per strada e non ci diamo neanche la pena di notare? La maggior parte delle vite svanisce. Una persona muore e a poco a poco tutte le tracce di quella vita spariscono…. (…) la mia idea era questa: costruire un’impresa che avrebbe pubblicato libri sulle persone dimenticate, mettendo in salvo storie, fatti e documenti prima della loro scomparsa e ordinarli nel racconto di una vita”.

È quello che ho pensato tante volte pensando a mio padre: via papà, diciamolo, avevi un pessimo carattere, eri un presuntuoso, volevi sempre aver ragione su tutto. Eri permaloso, troppo serio e non ridevi mai. Eri cattolico fino al midollo e c’hai perseguitato un po’ perché volevi diventassimo praticanti come te… non è che uno se ne va e si rimuovono le negatività stampandosi nella memoria dell’assenza solo il buono. Eri un tiranno.

Eppure.

Mio padre odiava i fiori finti…. Che mia madre ovviamente adorava, li disseminava per la casa. E mio padre pretendeva che credessimo a una sua presunta allergia per i fiori finti. e si sentiva pure male. Una volta ci piantò in asso all’inizio del cenone di natale a causa di due stelle di natale finte come centrotavola! Uscì, incazzato, e andò a camminare (ohibò… da chi avrò preso?)

Però amava quelli veri di fiori, coltivava rose vere, regalava rose vere, rosse soprattutto. A me le regalò il giorno della maturità, aspettandomi fuori dalla scuola come un innamorato con le rose in mano.

E poi sì… lo dico: detesto che tu sia stato onesto tanto da non lasciare niente, perfino quello che avresti potuto prenderti con facilità estrema. Detesto che tu sia stato forte e fragile, che t’abbia visto piangere per i dubbi di aver sbagliato qualcosa con noi.

Detesto che tu abbia generato mostri tutti d’un pezzo, ben cinque. Che tu m’abbia insegnato a giocare a carte e a bere grappa. Ad amare i libri perché mi portavi libri da un viaggio, mica giocattoli come i padri normali. Che tu volessi che studiassimo più di ogni altra cosa perché a te con quella gran testa che ti ritrovavi non era stato concesso…. Che noi avessimo un padre vero, non come te che a 12 anni ne avevi avuto uno che t’aveva mollato senza madre con 6 fratelli da crescere…. Sì… prima o poi questa storia la devo scrivere, sarà una storia di altri tempi, di altri padri, di altre vite “che non ci siamo la pena neanche di notare”. di un eroe vero.

Chissà se da dove ti trovi puoi conoscere il mio nuovo segreto… perché se solo questo potesse davvero essere, so che rideresti a crepapelle come non hai mai fatto, perché la vita fa giri strani e tu una figlia strana la dovevi pure avere. È toccato a me. Quindi, sei pregato, se questa risata te la vuoi fare, di darmi una mano… ovunque tu sia adesso.

Che faccio? Prego? Mio padre? Per giunta nel giorno della festa del papà?

Eh. Sì. Prego. Mio padre. Nel giorno della festa del papà.

Anzi, ora che ci penso… mettendo tutto insieme: che abbia avuto un padre dolce rock come Cat Stevens e me ne accorgo solo adesso?

No, non aveva niente di Cat Stevens ed era stonato come una campana, però è stata una delle pochissime persone che mi ha fatto sentire al sicuro, anzi, forse l’unica.

Alright, compa’. Tutto a posto

Non è un bel periodo, dentro di me e fuori di me: la stanchezza e l’incertezza incombono come macigni. Le parole confondono, se ne stanno appese nella testa con mollette di plastica a un filo che sembra non avere fine.

Giornate faticose, spesso insignificanti. Non le vorresti perché vorresti vivere, respirare, riflettere, amare, scrivere e camminare senza essere incalzata da ombre che ti ostacolano il passaggio e tolgono valore al tempo. Che manca, mi manca.

Freddo. Fa freddo. Giornate troppo fredde per queste latitudini, scruto i giorni del calendario per vedere quanto manca allo sbocciare del primo esemplare, uno qualsiasi che ti dica: l’inverno ha ceduto il passo.

Poi arriva la sera, finalmente tutto si ferma e la zavorra che ti inchioda se ne può anche andare a quel paese. Sotto il caldo di una coperta prendi dalla pila il libro che stai leggendo: lo apri alla pagina dove hai lasciato il segnalibro e, finalmente, te ne vai.

In quest’ultima settimana c’è stato lui ad aspettarmi ed è stato un compagno perfetto: un momento rotondo, magico, un incontro fortunato e benedetto.

Compa’, si chiama, perché l’autore a quest’io narrante non ha dato un nome, altro che un appellativo, compa’, come si chiamano qui in Calabria i compari, a volte gli amici. E sì, pensatelo, compari, Calabria, luoghi molto comuni, ma non è quello!

L’autore si fa beffa di voi che leggendo il titolo Alright compa’ vi fate un’idea: quell’idea. Quella sbagliata.

Lo fa lentamente, con malinconia e sagacia, snodando i fili di una storia “piccola”, di una trama sottile, smentendo qualsiasi idea preconcetta vi potreste esser fatti dal titolo, come spesso accade alle cose che accadono a noi, nati in questa terra, magari vissuti altrove.

Compa’ è stato con me in queste serate e mi ha consolato molto, moltissimo: come vederlo, seduto in un angolo ad attendermi, dinoccolato, pigro, incerto e così pieno di pensieri belli. Lui raccontava, io ascoltavo.

Con lui ho qualcosa in comune: la stessa città, Firenze, la stessa esperienza dell’afa e delle notti insonni, gli amici a Piazza Santo Spirito, a ridere, le stesse attese.

“Sudo. Soffoco. Cammino a fatica. Poi mi fermo, a cercare una macchia d’ombra. Chiudo gli occhi. Li riapro, uno alla volta, la mano curva sulla fronte. Quintali di cielo sopra di me.”

Il senso del vagare, il chiedersi a cosa si appartenga davvero, gli appartamenti condivisi, la precarietà. Il cielo uguale ovunque. La bellezza diversa. La vita com’è e come sarà quando cammini con le mani in tasca e non hai una destinazione precisa.

“Osservo e scruto ridendo le loro occhiate rapide; i piccoli movimenti delle labbra, delle dita. Ogni cinque minuti leviamo i calici in nostro onore, alla nostra felicità. Ma fossi da solo, lontano dallo sguardo di tutti, al posto di questo sorriso insano e sconcludente, avrei labbra serrrate a ghigno, a piangere con la faccia sul tavolo.”

Compa’ aspetta la sua chiamata di supplente annuale, calabrese insegnante precario a Firenze, ma se ne va: Londra, Manchester e poi chissà.

Chissà se torna.

Va a trovare un amico che ha un ristorante a Manchester, uno ormai sedimentato nella sua vita stagliata su cieli inglesi spesso cupi in compagnia del suo cane, Nero, che gli ripete: alright, tutto a posto, compa’. Tutto a posto.

Tutto a posto?

“Firenze sarebbe fantastica, se avessi la testa o fossi ancora all’università. Qui mi sento meglio, oppure no, forse non starei bene da nessuna parte, neppure a Cosenza, o a Manchester”.

Per un po’ di giorni sono andata a letto con questo romanzo, al caldo, via dalla pazza folla, a lasciarmi coccolare dalle parole giuste, sempre quelle giuste (come avrà fatto l’autore, Rino Garro, a trovarle con così tanta cura?) come se i mondi paralleli, quelli del giorno e della notte, fossero giunti a un punto tale di rottura da essere inconciliabili. Mi sono addormentata con Compa’ tra le braccia, tanto da centellinare le ultime pagine perché non volevo se ne andasse, come accade quando stai bene in compagnia di qualcuno che sta per partire.

Andarsene. Qui o altrove.

La cosa che mi è venuta in mente, sorridendo al pensiero, è che Compa’ è quel Massimo Troisi di Ricomincio da tre, quello al quale Mirabella dà un passaggio mentre fa l’autostop:

Venite da lontano?

Da Napoli

Emigrante?

Nnno, io c’avevo pure un lavoro a Napoli, una cosa normale, come tutti quanti… no, so’ partito così, pe’ viaggià, per conoscere un poco…

Conoscere.

Ecco, io ringrazio Rino Garro per il tempo che mi ha regalato, come grata sarò in eterno a Massimo Troisi.

Rino Garro, Alright, compa’, Rubbettino Editore

RINO GARRO
È nato a Rovito, in provincia di Cosenza. Vive a Firenze, dove insegna. Suoi racconti e contributi sono apparsi in Repubblica.it, Nazione Indiana, FlanerìL’immaginazione; e in antologie come Dei Mali (Avagliano, a cura di Idolina Landolfi), Sotto La Lente (Perrone Lab, a cura di Gabriele Ametrano), Libera Tutti (Zona, a cura di Federico Batini), La fortuna del racconto in Europa (Carocci, a cura di Milly Curcio).

Se volete leggere due bellissime recensioni (vere) qui i link

MARTINO CIANO su Gli amanti dei libri

http://www.gliamantideilibri.it/alright-compa-rino-garro/?utm_campaign=shareaholic&utm_medium=facebook&utm_source=socialnetwork&fbclid=IwAR1pILtRYA0cm2lSmuRNB7apRiVj2e0s6ZwPH7AVQaG66uw2NA4tsiIJ9GU

GIANFRANCO CEFALI’ su Borderline

https://borderliber.wordpress.com/2022/01/18/rino-garro-alright-compa-rubbettino-editore/?fbclid=IwAR34PWt7wM2hW_rRzMrR1GzxizECMT8y0RYJnIacEtGUfN4Cievhr1hckHo

Il nostro meglio

Oggi i nostri appartamenti profumano di olezzi di deodoranti e vaporizzatori: sono vietati gli odori sgradevoli, come ad esempio quello del fritto.

Ricordo invece quando la domenica spesso rientravamo in casa ed era proprio l’odore del fritto che ci guidava in cucina a rubare le polpette o le patate: era giornata di pasta al forno e pollo, mia madre ci scacciava con “finitela che poi non mi bastano”, noi figli e nipoti allungavamo le mani come potevamo per agguantarne più possibile, calde e fumanti, patate o polpette che fossero.

Inizio da qui: dalle case com’erano e come sono.

Dai detersivi che oggi liquidano gli odori.

Quando ho iniziato a leggere Il nostro meglio da lettrice dei romanzi precedenti di Alessio Forgione avevo aspettative alte, è un autore che ho amato molto. Eppure ho fatto fatica: le prime pagine non mi “prendevano”, la storia del piccolo Amoresano a Bagnoli, il rapporto con la nonna e le vicende quotidiane di una famiglia come tante, una nonna che gli dice sempre che dopo pranzo bisogna mettersi sul letto per riposare un po’ gli occhi, confesso,è stato difficile entrarci.

Così l’ho lasciato per un po’, lì sul comodino, e ho letto un altro romanzo, sconclusionato, con una bella scrittura, rapida e ardita fino ai limiti dello spericolato.

Amoresano però era lì a guardarmi: io non penso mai che un libro non mi piaccia se ho avuto un inizio difficile, penso che deve arrivare il momento.

Infatti, quando è arrivato, beh, avevo torto io e le 260 pagine del romanzo le ho lette in cinque giorni.

Un libro dal quale lasciarsi portare, come ascoltare il gorgoglio di un ruscello montano senza fare altro una qualsiasi domenica di luglio quando vi siete lasciati l’afa alle spalle, una storia di ritmi equilibrati nella quale il respiro si adatta con una naturalezza sorprendente al respiro della narrazione, piano, in silenzio, lasciando  che le immagini della casa, dei luoghi, ci riempiano gli occhi, accogliendo nella nostra testa i pensieri, le parole eleganti e piccole del protagonista, uno che crescendo mal si adatta alla vita che cambia.

Bisogna essere un po’ il fanciullino di Pascoli, ho pensato leggendo, o avere la poesia delle piccole cose, lo stupore con cui si guarda ai legami che sono la cosa assoluta, la vita prima di ogni altra cosa, e poi la morte quando ci lascia un abbraccio.

È stato qui, soprattutto, che ho anche pianto: ho vissuto quell’abbraccio dipinto come un quadro in quello stesso modo, con quella forza, quella disperazione, quella speranza, quel groviglio di lacrime e braccia.

È un romanzo molto bello, l’ultimo di Alessio Forgione, questa è la semplice verità da dire.

Ho letto un’intervista all’autore nella quale raccontava la difficoltà di trovare un titolo, quello convincente e definitivo, quando è arrivato, come tutti i lampi che ti colpiscono tra capo e collo e illuminano per un secondo il buio delle cose e delle parole, ha capito che non poteva essere altro che quello: il nostro meglio (la trovate qui https://www.illibraio.it/news/dautore/alessio-forgione-il-nostro-meglio-1407728/)

La cucina di mia madre, le polpette e le patate, il giorno in cui è morta mentre noi ridevamo tutti insieme,  ho vissuto questo romanzo, più che letto, ritrovando  anche il mio meglio: se crescere è fatto naturale, salvare il meglio di ciò che ci accompagna in quel percorso è invece un fatto mentale, non si tratta di ricordi, ma molto di più: di consapevolezze che una volta scavato il solco dentro, non ci abbandoneranno mai, e abbasso i detersivi che rendono asettiche le nostre case e cancellano odori e umori indispensabili.

“Nonnì….
“Dimmi Chiccù…..
“Me la racconti quella storia….
“Mo’ riposa gli occhi Chiccù, dormi…..

Alessio Forgione, Il nostro meglio, La Nave di Teseo

Alessio Forgione è nato a Napoli nel 1986. Il suo romanzo d’esordio, Napoli mon amour (NN), ha vinto il premio Berto 2019 e il premio Intersezioni Italia-Russia; è stato tradotto in Francia e Russia. Il suo secondo romanzo, Giovanissimi (2020, NN), ha vinto il premio Comisso giovani 2020 ed è stato selezionato nella dozzina del premio Strega.

Raccontarsi/Raccontare

Frase n. 1 – Leggere è vivere altre vite

Frase n. 2 – Scrivere, perché una vita non basta

Frase n. 3 – Bisogna saper ascoltare

Somma di 1+2+3 = Una verità

Frasi fatte, quelle che spesso si leggono quali definizioni di una saggezza inconsistente, perché scrivere o leggere non salvano la vita e non è detto neanche ci renda migliori, anzi, a volte il rischio è di diventare presuntuosi e saccenti e questo pericolo, va detto subito, l’autore di questo libro molto particolare, non lo corre.

La somma che ho indicato però lo rappresenta bene perché l’autore di Ombre di nuvole, Domenico Mauro, è uno psicologo e chi meglio di un terapeuta ascolta e legge vite altrui? Se poi ne fa oggetto di storie che sommate fanno una storia, beh, bingo!

C’è una sala d’aspetto, alcuni pazienti si trovano insieme ad aspettare il dottor Verdiani, ma lui non c’è, dunque nell’attesa i personaggi in cerca del dottore (Pirandello non è richiamato a caso, visto che si parla di identità frantumate) si conoscono. Ognuno ha la propria storia e il proprio disturbo, e in quella stanza finiscono per condividere il proprio spazio intimo, che è il motivo per cui si trovano lì (anche se al dottore che avrebbero dovuto parlare). Un tranello o una coincidenza?

Come sempre non svelo e non dico troppo, il libro è fatto di storie e di vissuti complessi, ma leggere Ombre di nuvole mi ha
riportato alla mia fragilità, che è poi quella di tutti, quel tratto particolare dell’esistenza che talvolta ci fa vacillare, come acrobati
instabili su una corda sospesa sul vuoto, e, insieme, al valore della parola, intesa come comunicazione di sé e ponte con l’altro.

Cosa fa un terapeuta se non lasciare che si parli, si parli, fino a scendere negli inferi e scacciare quel demone che ci tormenta, qualunque esso sia, per potersene liberare?

Domenico Mauro ha messo in fila una serie di personaggi credibili e verosimili, i loro demoni, con uno stile leggero nonostante i temi delicati, regalandoci un libro nel quale le ombre di nuvole che passano sulle nostre teste e a volte oscurano la luce, quelle che non riusciamo ad afferrare perché hanno la consistenza dell’aria, hanno ciascuna un ritmo: infatti (e questa cosa mi è piaciuta molto) ogni personaggio, ogni stato d’animo è associato a una canzone, avviene e ha consistenza in una musica ben indicata.

Fino all’ultima Dream a little Dream di Laura Fygi, che ci risuona nella testa nelle ultime pagine: una melodia leggera, che parla
di uccelli che cantano, di richiami alla pace agognata….

Sweet dreams till sunbeams find you
Sweet dreams that leave all worries behind you
But in your dreams whatever they be
Dream a little dream of me….

Sogna, un sogno piccolo, dolce: dopo aver sofferto, dopo aver pagato, lasciati andare, sii nuvola e viaggia, lascia il tuo male alle spalle e alleggerisci il tuo essere dagli orpelli dei traumi che paralizzano i movimenti e i pensieri.

Un esperimento? Forse, ma dal punto di vista narrativo sicuramente riuscito. Il dottor Verdani lo definisce “una fantasia terapeutica che può realizzarsi solo all’interno di un libro”.

L’autore, Domenico Mauro, alla sua prima prova, sono certa abbia scritto Ombre di nuvole per mostrare come la terapia, in casi di nevrosi anche gravi, sia sempre un supporto, talvolta necessario, ma mai definitivamente risolutivo: un bravo terapeuta è colui che ti conduce laddove devi andare senza mai spingerti, ma accompagnandoti, senza nemmeno tenerti per mano. Il filo della
matassa da dipanare rimane sempre nelle nostre mani.

Tutto questo, nelle storie dei protagonisti, è raccontato molto bene: un libro che non è un romanzo o una raccolta di racconti e nemmeno un saggio, ma è tutte queste cose insieme.

Anche in questo caso, la somma fa la differenza.

 

Domenico Mauro, Ombre di Nuvole, AUGH!EDIZIONI

L’autore

Domenico Mauro è psicologo, psicoterapeuta, ipnoterapeuta e NLPmaster.
Ha insegnato all’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie di Roma e attualmente collabora con l’Accademia di Scienze
Cognitivo Comportamentali di Calabria in qualità di docente. È iscritto all’Albo degli esperti, dei collaboratori e dei ricercatori AGENAS.
Specialista nel trattamento delle “new addictions” e in tecniche di rilassamento e ipnosi clinica, lavora a Catanzaro presso il Centro Clinico “San Vitaliano”

ROMANZI IN EVIDENZA

Ci sono libri che leggo e subito vengono eliminati dalla pila sul comodino per essere riposti negli scaffali, di solito quelli che non lasciano traccia. Ce ne sono invece altri che rimangono accanto a me, sulla scrivania e vicino al pc, a ricordarmi che vale la pena riprenderli in mano, sfogliarne qualche pagina, scriverne.

Tra questi c’è Il bosco di Marx, di Marco Quarin, letto qualche mese fa. Un romanzo bello e complesso che mi ha colpito molto, innanzi tutto per la scrittura lineare e pulita (curatissima, superlativo d’obbligo perché quando ce vò ce vò) poi per la storia, che definire un giallo è riduttivo, anche se narra un’indagine finalizzata a svelare un mistero.

Del resto, quanti sono i misteri nella storia di questo paese? Il romanzo di Marco Quarin si riferisce indirettamente anche a questi.

La storia, dicevo, è complessa: una mattina il giudice Cassan riceve una telefonata che lo informa che Vittorio Marchi è deceduto: “provo a riformulare mentalmente le frasi del maresciallo: zio Vittorio cadavere a Modena sotto un mucchio di stracci come un barbone. Zio Vittorio a Modena, un senzatetto

Vittorio Marchi, zio di Federico Cassan, viene dunque trovato morto con in tasca due biglietti: uno per il nipote “scavare una buca sotto il cippo di pietra del bosco..” e l’altro per una tal Laura Terenzi. Un rebus incomprensibile.

Cassan anni prima aveva allontanato da sé la storia di Zio Vittorio, sparito nel nulla dopo la morte della moglie e la caduta del muro di Berlino, due lutti, uno familiare, l’altro politico (zio Vittorio era un convinto comunista)  e dopo due anni aveva rinunciato a cercarlo.

La telefonata lo riporta indietro e ne è  turbato non solo per la notizia della morte, ma soprattutto nell’apprendere che lo zio era finito a vivere come un barbone. Ed è così che si mette alla ricerca della verità: ha bisogno di capire, non come succede a noi, che spesso ingoiamo e metabolizziamo verità confezionate o supposizioni svendute per certezze. Lui, Federico Cassan, uomo di legge e di giustizia (due cose che non sempre coincidono) vuole capire, sciogliere i dubbi.

Vittorio Marchi in vita era stato un comunista tutto d’un pezzo, di quelli nati nei primi del Novecento, e alla caduta del muro e del comunismo sovietico per lui cade un mondo e si apre uno scorcio che ammanta di oscurità gli ideali di una vita. Difficile da accettare. Sceglie così di sparire, di abbandonare il campo, di non essere più Vittorio Marchi, e diventare un uomo senza identità, (perché, noi storicamente abbiamo un’identità? o piuttosto siamo il frutto di anni di menzogne non c’hanno resi asfittici?). Diventa un senzatetto. Ormai non ha una casa.

Federico Cassan, il vero protagonista del romanzo, combatte invece un’altra guerra, in un’altra terra: quella alla mafia in una procura siciliana.

E Marx? È Karl? No, Marx era il cane di Marchi, non poteva chiamarsi diversamente, ed è sepolto nel bosco insieme ai segreti che l’uomo si è portato con sé andando via dal suo paese.

Nel dipanare il mistero della morte e della scomparsa dello zio, il giovane procuratore ne ripercorre la storia, il passato e i ricordi, anche quelli personali.

“Mi sforzavo di immedesimarmi in zio Vittorio.

Ne scandagliavo i pensieri per isolare quelli che l’avevano portato alla fuga.

Una fuga insensata, un  mistero dai contorni quasi gialli, una buona trama per un romanzo, come mi aveva suggerito sorridendo Alfio. Tre disgrazie una dietro l’altra: Marx morto sotto le macerie di un muro; la caduta di un altro muro, il Muro per antonomasia, la cicatrice che separava l’Est dall’Ovest, il mondo del progresso dal mondo del regresso, secondo zio Vittorio; zia Marta stroncata in pochi mesi dal cancro.

Non dubitavo che zio Vittorio  si sentisse per lo meno smarrito. Me lo figuravo ricurvo, i tratti del volto prosciugati, un brillio d’odio nelle pupille contro il mondo afflitto dalla pestilenza edonistica. Fantasticavo di vederlo nel bosco ora immobile a contemplare orizzonti di cenere ora a vagare berciando le sue fissazioni.

Immaginavo i suoi pensieri disillusi dall’evento berlinese. Non aveva avvertito l’erosione interna della grande utopia tramutatasi di punto in bianco in grande inganno.

La civiltà nemica lo stringeva nelle sue spire e lui aveva scelto di ritirarsi tra i muri della sua casa e nel perimetro del suo bosco.”

Dunque la caduta del muro di Berlino che rappresenta la fine di un’epoca, il segno tangibile di uno spartiacque, la fine di un ideale inseguito da molti;  e poi la mafia, ieri come oggi, a definire due generazioni in trincea: la vecchia rappresentata da Vittorio Marchi, il vecchio comunista che svanisce nel nulla, e la nuova, incarnata dal protagonista Federico Cassan, giovane giudice sbarcato in Sicilia dal Friuli: vecchie e nuove battaglie unite dall’inganno della giustizia, dalla ricerca di nuovi e diversi equilibri.

Una storia densa, scritta con grande maestria, che ci porta di fronte alla verità che domina il secolo scorso: l’Italia del Novecento, dei misteri irrisolti, della democrazia incrinata, delle verità mancate, degli intrecci mai svelati.

Un tema che mi sta a cuore, motivo per cui ho amato due volte di più Il bosco di Marx, il cane seppellito in un bosco, dove i muri non ci sono e gli alberi crescono, nonostante noi.

Marco Quarin, Il bosco di Marx, Prospero Editore

Esistono i personaggi in cerca d’autore?

Negli ultimi mesi tutte le sere, prima di dormire, spengo la luce e accenno un rapido segno della croce, un gesto furtivo, e se per caso lo dimentico ecco che lei arriva a piagnucolare, mi pungola, un monito che mi spinge a compiere un’azione che non mi appartiene, quasi fosse una funzione quotidiana normale. No, non ha niente a che fare con un rito di fede: è a causa di Adania.

Chi è Adania? Una donna di mezza età, albanese di nascita, che lavora come badante presso una casa nobiliare, a servizio di un’anziana taccagna e rompiscatole, vedova di un generale.

Ecco, per me funziona così: Adania è un personaggio, non esiste, per il momento è una minuscola tessera di un mosaico ambizioso, vive su un foglio A4 in uno schema, insieme ad altri personaggi che costruiscono una tessitura pensata la scorsa estate.

Ora perché sia proprio lei tra i tanti a presentarsi ogni sera puntuale e costringermi a ripetere un gesto che appartiene a lei e non certo a me, non so dirlo, non riesco a spigarlo. Arriva nel buio, il volto nell’ombra (ancora non ne conosco la fisionomia precisa, ma conosco già bene la storia) e mi ricorda che lei è lì e starà lì, a ricordarmi di scrivere.

Per me funziona così: non sono io a cercare le storie, sono loro che cercano me. Fintanto che non ho vissuto la scrittura come un elemento vitale indispensabile, non avevo questo genere di ossessioni, magari per mancanza di sufficiente fiducia nelle mie capacità, per i miei dubbi costanti, nella convinzione che “saper scrivere” non equivalga a saper raccontare storie; un talento può esistere, ma tale non è se non è praticato, sofferto, invasivo.

Non ho neanche il trauma della pagina bianca: una volta che lo spazio vuoto mi si apre davanti procedo spedita, loro sono già lì a suggerirmi le traiettorie, i gesti, le azioni, i sentimenti e i conflitti.

Succede che io li tenga sullo sfondo della mia esistenza perché il tempo (almeno il mio) è tiranno, e tanti sono gli impegni, tuttavia non mi mollano.

In questo momento ha le fattezze sfumate di Adania che con quel segno della croce mi pizzica dentro, quasi con cattiveria, come se la sua vita dipendesse da me, come se fosse una sorta di responsabilità che mi sono assunta solo per il fatto di averla immaginata.

A pensarci bene non è un rapporto leale e forse nella mia mente qualcosa non funziona a dovere.

È stato così anche per Anna e quella casa vista in cima alla collina, ma fin lì poteva starci: ne Il mistero della casa del vento Ann è un personaggio sufficientemente autobiografico, la sua esistenza era la mia stessa esistenza, scrivere quel romanzo mi ha dato una forza e una dimensione nuova, diversa, anche se poi ho tirato fuori una bella storia trattata male perché non avevo sufficiente esperienza per distaccarmene e il fascino delle mie donne vento mi ha fatto perdere.

Dopo è stato diverso.

Oriana e Dario, ad esempio: un pavimento di granito, una stanza vuota, una finestra e due sedie (di quelle che si vedono a scuola, di ferro e compensato, una delle quali senza spalliera). Erano seduti lì, io mi trovavo in una località di mare, mi pare fosse Terracina, è stato tanto tempo fa, da dove mi sarei dovuta imbarcare per Ponza, cosa che poi non feci. Mi trovavo a un bar, in vacanza, cosa c’entravano loro? Eppure si presentarono così, senza essere stati invitati. Dopo un po’ di tempo li ho scritti, ho dato loro una collocazione e un tempo: il titolo – Le mani in tasca – era quello giusto, la storia no. Così li ho abbandonati.

Poi è arrivata Cosma, con la musica, su un pezzo dei Dounia questa ragazza di spalle che correva per vicoli. Ho ascoltato la sua storia, me ne sono innamorata e l’ho scritta ed è stata lei a puntare il dito in direzione di Tilde e Cettina le altre protagoniste d La Malasorte.

Uscito il romanzo, Oriana e Dario intanto erano rimasti nello squallore di quella stanza vuota: continuavano di tanto in tanto a presentarsi, a guardarmi di traverso, come se li avessi traditi, fino a che non sono rientrata in quella stramaledetta stanza: Dario era rimasto lo stesso dolce ragazzo, timido, Oriana invece si era alzata imperiosa da quella sedia: voglio fare la terrorista, mi disse. Finalmente erano contenti e la storia sì, era quella giusta, il senso delle mani in tasca che non avevo trovato anni prima.

Adesso so bene che Adania non mi darà tregua, mi vengono in mente altre idee, ma niente: potrò fare tremila altre cose prima di tornare in quella dimora suntuosa, ma lei è lì.

C’è un titolo, altri personaggi e una matassa da dipanare, e fino a che non deciderò di prenderne il filo e tesserlo, tornerà ogni notte perché mi ricordi di lei che è nata nella mia testa a letto, in una stanza fredda, che si segna con la mano. Nel nome del padre, del figlio, dello spirito santo. Amen.

Amare

Voglio un gran bene a questo libro, non mi aspettavo così tanta attenzione, dunque: ne sono felice

Estratti da recensioni

La suggestione di un incontro

Le mani in tasca…
La rappresentazione che si ha della ricerca… fa differire l’umano sentire dalla sola e mera realtà fenomenica.
Daniela Grandinetti autrice raffinata ed elegante, gestisce la “ ricerca “ di Oriana e Dario (protagonisti del suo romanzo) come l’eterna odissea.
Flussi, simboli, richiami di altrove che inevitabilmente ti riportano ad un “elemento “ vissuto chiamato casa.
Sinestesie, suggestioni, di un tempo intenso e rivoluzionario, il tempo, bergsoniana narrazione del divenire.
Le letteratura ha a volte l’ingrato compito di descrivere trasformazioni, cambiamenti, trasformazioni, il fluire della penna di Daniela possiede come elemento caratterizzante “ là bonne lecture”.
Giungendo ad una perfezione dodecafonica.. un flusso intenso e contemporaneamente carezzevole, armonico, sinesteticamente avvolgente.
Essere Oriana, esser Dario, dar voce ai silenzi che molte volte urlano più dell’emissione in sé.
Sguardo, il non toccarsi, si manifesta in tutta la sua tangibilità un atto materico,che trascende il tempo e lo spazio.
A. Rimbaud definì il vivere ”ma bohème”
L’universo Daniela è quella bohème
Fatta di simboli, di unicità, di monadi , che attraverso la sola percezione degli occhi conducono il lettore in quell’altrove che molti hanno vissuto ma che tutti desidererebbero vivere.

Celestina Savoia

Recensione di Gianfranco Cefalì a Le mani in tasca

Gianfranco Cefalì, scrittore (Il giorno in cui abbiamo pianto, Dialoghi) e redattore letterario ha letto Le mani in Tasca

Magnetica. La scrittura di Daniela Grandinetti è attrattiva. Un po’ come quando da bambini si giocava con le calamite, sentire quel click improvviso dopo aver giocato con gli opposti restituiva soddisfazione. Attrazione, ma anche leggerezza, levità che non corrisponde a vacuità, infatti di senso sono fatte le parole scritte dall’autrice. Daniela Grandinetti sa fare bene quello che fa, ovvero: scrivere. Due storie che si creano parallele intersecandosi e divergendo, attraverso uno dei periodi più bui dell’Italia contemporanea, Oriana e Dario — inutile soffermarci sui rimandi dei nomi — nel pieno degli anni di piombo, la strategia della tensione, che culminarono con la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Entrambi provengono da realtà diverse ma simili, piccoli paesini di provincia, entrambi considerati ai margini delle loro società per motivi, che scopriremo durante la narrazione, completamente diversi, ma che in qualche modo ne accomuneranno il vissuto fin dalla tenera età. Il terrorismo e le brigate rosse fanno da sfondo in primissimo piano, mi passerete l’ossimoro, ma i punti focali del libro sono molti, supportano tutta la trama e fondano le basi per gli innumerevoli spunti che offre.Quello su cui mi piace soffermarmi è il concetto di corpo. Uno degli ultimi libri che ho letto è stato “Tra me e il mondo” di Ta-Nehisi Coates, in questo bel libro l’autore scrive una lettera al figlio ormai adolescente, spiegandogli le difficoltà di essere afroamericano negli Stati Uniti, e si concentra sul concetto di corpo. Qui il corpo è qualcosa che va difeso con tutte le forze, perché è proprio questo che è messo a repentaglio e che sarà messo sempre in pericolo durante la sua vita. Prima che della sua anima il figlio dovrà sempre occuparsi del suo corpo. Il corpo in Daniela Grandinetti viene usato in maniera simile, anche qui è qualcosa da proteggere, ma non da una nazione fondamentalmente razzista, da qualcosa di più sottile, strisciante. Un corpo che si lascia anche guardare, ma non toccare, che non è mai in pericolo, perché diviene barriera invalicabile, una sorta di muro da mettere tra Oriana e il mondo, corpo che si fa statua fissa senza emozioni, che non vuole manifestare umanità, che viene messo in secondo piano dall’ideologia, corpo che rinnega gli istinti, le pulsioni, che in realtà si trasforma in macchina pronta all’azione per uno scopo più grande, almeno nella testa della protagonista. Oriana protegge il suo corpo per proteggere se stessa dalle deviazioni che il desiderio potrebbe comportare. Corpo che invece si trasforma, si libera dai pesi della mente quando la protagonista è sulla scena, infatti Dario è un regista teatrale e lei un’attrice. Qui il corpo libera quelle emozioni che tanto reprime, si fa guardare in modo diverso, trasforma Oriana in qualcosa di altro, lontano, qualcosa che a un certo punto della storia le fa paura e scapperà dal teatro dopo una performance intensa e bellissima. Anche Dario fa i conti con il suo corpo, anche lui reprime in nome di un sentimento assoluto, anche lui è impaurito e soffoca quei sentimenti per rispettare la figura ideale di Oriana. Naturalmente, come scrivevo prima, gli spunti di riflessione sono tanti, ma per affrontarli dovrei per forza rivelarvi troppe cose, e non mi sembra giusto, questo libro va letto. Perché vi dovrei parlare di azioni che vengono giustificate da un fine più grande, di azioni che vengono considerate giuste nonostante tutto, dell’utilità di alcune azioni alla luce del mondo e della società in cui viviamo, del pentimento e della redenzione…

L’odore del sangue

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Angela curava le mani in modo maniacale, era convinta fosse da quelle che si capiscono e si giudicano le persone. Furono proprio le mani l’inizio di tutto.
Le mani di Claudio erano bianche, con le dita lunghe, affusolate, mani che non avevano mai lavorato; lui era un medico cresciuto in un palazzo d’epoca di proprietà della sua famiglia. Angela invece era nata a cresciuta al villaggio rosso, chiamato così per via del colore delle case: una serie di palazzine rosso mattone intorno a uno squallido cortile. Nel mezzo, tre alberi spogli e malati e quattro panchine arrugginite. Vivere lì equivaleva a esibire un marchio. D’estate lo scirocco ci portava una sabbia fine che a volte ricopriva i terrazzi. Angela aveva sempre detestato quel vento, come detestava tutto in quel luogo: l’odore di bollito e di umidità nelle scale che appena entravi ti chiudeva lo stomaco, i panni stesi ovunque, il parlare volgare delle donne e dei bambini. Aveva sempre frequentato poco il cortile, non giocava con gli altri, li guardava dalla finestra e le sembravano bestiole in gabbia. Trascorreva la maggior parte del suo tempo davanti al televisore. Perfino la madre si lamentava, diceva di avere una figlia con la puzza sotto il naso. Angela però non se ne curava, stringeva i pugni e continuava a pensare che lei da lì sarebbe andata via; sprofondata nella poltrona con le gambe penzoloni davanti alla tv, stava alla larga dal mondo intorno. Lei aveva grandi progetti per sé. Prima però, doveva andar via. Fuggire dalle case rosse e  dallo scirocco.
L’occasione arrivò, e si chiamava Claudio, che si innamorò di quella ragazza acerba e testarda, molto diversa dalle donne che c’erano state nella sua vita. Angela era giovane, eppure forte e definita. Usava le mani per accarezzare e graffiare. Graffi che avevano la passione e il calore appiccicoso dello scirocco che arrivava dal mare.

Non avrebbe mai pensato di rovinarsele. Le mani. Le sue. Le piaceva affondare le dita nel vasetto di crema per poi massaggiarle sul dorso, sui polpastrelli, lungo le dita, fino ai polsi. Era una sorta di rito benefico: il profumo,  la morbidezza, il constatare che aveva belle mani, le dava sicurezza, non era come le donne che vivevano alle case rosse. Non avrebbe mai pensato che un luogo dove soffia lo scirocco può confonderti fino a rovinarti le mani. Non lei. Non le sue.

Quando alle otto aveva suonato al campanello della villetta isolata, era buio e intorno non c’era nessuno. Aveva lasciato la macchina sulla strada e aveva proseguito a piedi. Il cuore le bruciava nel petto. Non riusciva a dominare quel pensiero ossessivo: incontrarla. Da quando l’aveva scoperto, qualcosa nella sua testa si era spostato. Lei avrebbe finito l’università, avrebbe sposato Claudio,  invece era comparsa quella donna. La rivale. Aveva sparpagliato tutte le tessere del mosaico. Claudio l’aveva accusata di essere gelosa, paranoica, isterica; l’aveva scacciata come una cagna malata.
“Puttana”: era stata la parola pronunciata da sua madre appena aveva saputo che c’era un’altra nella vita del dottore. Era stata quella parola ad azionare un meccanismo nel cervello di Angela che l’aveva riportata là dov’era nata, alle case rosse.
“Puttana. Non si prendono gli uomini delle altre donne. Bisogna fargliela pagare a sta’ puttana”.
Angela ascoltava la madre e nonostante avesse impiegato tutta la sua esistenza a prendere le distanze da quel mondo, quelle parole le piacevano. Puttana. Cominciò a ripetere. Puttana.
Il pensiero di un’altra donna che le aveva portato via Claudio iniziò a tormentarla come un verme che si mangia tutto. La madre le parlava con l’espressione cattiva e Angela ne studiava il movimento delle labbra, guardava le mascelle dure e sentiva che doveva imparare. Doveva imparare a dire puttana come lo diceva sua madre. Non c’era giorno, in quelle lunghe settimane, in cui non risentisse quella parola nella testa.

Quando quella sera alle otto aveva suonato al campanello della villetta, voleva solo vedere in faccia la donna che si era presa il suo uomo e dirle puttana come lo diceva sua madre. Invece.

La donna che aprì la porta era bella, sicura di sé, vincente. Angela risentì l’eco della voce materna: “Sei una puttana, lo sai? Hai distrutto la mia vita, lo sai? È colpa tua, puttana. Tua”.  La voce però era la sua.  “Puttana” continuava a ripetere. Sì. Le veniva bene, proprio come sua madre. Sentì perfino la mascella indurirsi. In quell’attimo Angela comprese che era l’odore del sangue che l’aveva inseguita dov’era cresciuta. Era da quello che s’era sempre tenuta lontana. La crema, i profumi, servivano per coprire gli odori veri che aveva avuto intorno fin da bambina. Lei sentiva i fratelli tornare in moto e sapeva bene che da qualche parte era successo qualcosa. Una bomba, un morto, due morti ammazzati o nessuno. Magari solo una vetrina sfondata, o una macchina saltata per aria come avvertimento. Lei non aveva voluto vedere ma sapeva. Sapeva. Aveva sempre saputo. Quando suo padre in cucina beveva vino e parlava sommessamente con altri uomini. La testa continuava a girare. L’odore del sangue. Afferrò una bottiglia sul tavolo e la ruppe contro lo spigolo. L’altra, la rivale, cominciò a indietreggiare, cambiò tono ed espressione. Ma Angela non capiva più nulla: gli occhi, le labbra della donna, la sua vestaglia a fiori. Tutto diventò indistinto. Cominciò a colpire ed era solo rabbia per tutto quello che per anni non aveva voluto vedere. Il vetro incise la pelle della donna che cercava di divincolarsi. È così che si fa? Pensava Angela continuando a colpire. Le case rosse. L’odore del sangue. Era dunque quello? Un colpo più deciso e  la gola si aprì, il sangue schizzò, scese in lunghi rivoli lungo la pelle bianca. La donna scivolò a terra come una foglia. Angela la vide accasciarsi: non conosceva neppure il suo nome. Il collo della bottiglia cadde a terra con un tonfo sordo. Si guardò le mani, le sue belle mani che aveva sempre curato, segnate dai tagli e dal sangue. Scappò via. Per strada non c’era nessuno. Si tormentava le mani con le mani, continuando a ripetere “devo andar via, devo andar via”, come una nenia nella testa. Per tutta la vita era questo che aveva voluto: andare via.

Una mattina di settembre uscendo dal portone dell’università, c’era Giada ad aspettarla:
“Allora com’è andata? ”  chiese.
“Trenta” aveva risposto Angela. Era il suo ultimo esame, si sentiva stanca.
Salì in macchina. Giada si mise alla guida. Lungo il tragitto Angela guardò la città dai finestrini, come faceva sempre: i mercati che pullulavano di teste, le vetrine dei negozi belle da guardare, qualche donna anziana che scendeva lentamente gli scalini di una chiesa, gli uomini in abiti scuri e cravatta colorata che si affrettavano davanti alle banche. Chissà se anche per lei prima o poi sarebbe tornato il momento di farsi largo tra la folla. Non riusciva a vedersi. Adesso le dava un senso di pace non esserci nel mezzo.
Quando la macchina si fermò, Angela scese e si avviò da sola. Ormai non c’era più bisogno di Giada alle sue spalle tutte le volte a dire: “Detenuta con permesso speciale”.
Sentì il portone di ferro richiudersi alle sue spalle. Venti passi fino alla vetrata, li conosceva a memoria. Da lì, oltre, stanze e corridoi, corridoi e stanze.
Fece il tragitto fino alla sua cella e si fermò, aspettando che la guardia di turno le aprisse la porta. Poi fu dentro. Il rumore del ferro, della serratura che scatta. Muri protetti. Il suo letto. Un tavolino. Una grata alla finestra dalla quale non si può andare da nessuna parte. E più nessun vento. Scirocco. Umido e appiccicoso.

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