Esistono i personaggi in cerca d’autore?

Negli ultimi mesi tutte le sere, prima di dormire, spengo la luce e accenno un rapido segno della croce, un gesto furtivo, e se per caso lo dimentico ecco che lei arriva a piagnucolare, mi pungola, un monito che mi spinge a compiere un’azione che non mi appartiene, quasi fosse una funzione quotidiana normale. No, non ha niente a che fare con un rito di fede: è a causa di Adania.

Chi è Adania? Una donna di mezza età, albanese di nascita, che lavora come badante presso una casa nobiliare, a servizio di un’anziana taccagna e rompiscatole, vedova di un generale.

Ecco, per me funziona così: Adania è un personaggio, non esiste, per il momento è una minuscola tessera di un mosaico ambizioso, vive su un foglio A4 in uno schema, insieme ad altri personaggi che costruiscono una tessitura pensata la scorsa estate.

Ora perché sia proprio lei tra i tanti a presentarsi ogni sera puntuale e costringermi a ripetere un gesto che appartiene a lei e non certo a me, non so dirlo, non riesco a spigarlo. Arriva nel buio, il volto nell’ombra (ancora non ne conosco la fisionomia precisa, ma conosco già bene la storia) e mi ricorda che lei è lì e starà lì, a ricordarmi di scrivere.

Per me funziona così: non sono io a cercare le storie, sono loro che cercano me. Fintanto che non ho vissuto la scrittura come un elemento vitale indispensabile, non avevo questo genere di ossessioni, magari per mancanza di sufficiente fiducia nelle mie capacità, per i miei dubbi costanti, nella convinzione che “saper scrivere” non equivalga a saper raccontare storie; un talento può esistere, ma tale non è se non è praticato, sofferto, invasivo.

Non ho neanche il trauma della pagina bianca: una volta che lo spazio vuoto mi si apre davanti procedo spedita, loro sono già lì a suggerirmi le traiettorie, i gesti, le azioni, i sentimenti e i conflitti.

Succede che io li tenga sullo sfondo della mia esistenza perché il tempo (almeno il mio) è tiranno, e tanti sono gli impegni, tuttavia non mi mollano.

In questo momento ha le fattezze sfumate di Adania che con quel segno della croce mi pizzica dentro, quasi con cattiveria, come se la sua vita dipendesse da me, come se fosse una sorta di responsabilità che mi sono assunta solo per il fatto di averla immaginata.

A pensarci bene non è un rapporto leale e forse nella mia mente qualcosa non funziona a dovere.

È stato così anche per Anna e quella casa vista in cima alla collina, ma fin lì poteva starci: ne Il mistero della casa del vento Ann è un personaggio sufficientemente autobiografico, la sua esistenza era la mia stessa esistenza, scrivere quel romanzo mi ha dato una forza e una dimensione nuova, diversa, anche se poi ho tirato fuori una bella storia trattata male perché non avevo sufficiente esperienza per distaccarmene e il fascino delle mie donne vento mi ha fatto perdere.

Dopo è stato diverso.

Oriana e Dario, ad esempio: un pavimento di granito, una stanza vuota, una finestra e due sedie (di quelle che si vedono a scuola, di ferro e compensato, una delle quali senza spalliera). Erano seduti lì, io mi trovavo in una località di mare, mi pare fosse Terracina, è stato tanto tempo fa, da dove mi sarei dovuta imbarcare per Ponza, cosa che poi non feci. Mi trovavo a un bar, in vacanza, cosa c’entravano loro? Eppure si presentarono così, senza essere stati invitati. Dopo un po’ di tempo li ho scritti, ho dato loro una collocazione e un tempo: il titolo – Le mani in tasca – era quello giusto, la storia no. Così li ho abbandonati.

Poi è arrivata Cosma, con la musica, su un pezzo dei Dounia questa ragazza di spalle che correva per vicoli. Ho ascoltato la sua storia, me ne sono innamorata e l’ho scritta ed è stata lei a puntare il dito in direzione di Tilde e Cettina le altre protagoniste d La Malasorte.

Uscito il romanzo, Oriana e Dario intanto erano rimasti nello squallore di quella stanza vuota: continuavano di tanto in tanto a presentarsi, a guardarmi di traverso, come se li avessi traditi, fino a che non sono rientrata in quella stramaledetta stanza: Dario era rimasto lo stesso dolce ragazzo, timido, Oriana invece si era alzata imperiosa da quella sedia: voglio fare la terrorista, mi disse. Finalmente erano contenti e la storia sì, era quella giusta, il senso delle mani in tasca che non avevo trovato anni prima.

Adesso so bene che Adania non mi darà tregua, mi vengono in mente altre idee, ma niente: potrò fare tremila altre cose prima di tornare in quella dimora suntuosa, ma lei è lì.

C’è un titolo, altri personaggi e una matassa da dipanare, e fino a che non deciderò di prenderne il filo e tesserlo, tornerà ogni notte perché mi ricordi di lei che è nata nella mia testa a letto, in una stanza fredda, che si segna con la mano. Nel nome del padre, del figlio, dello spirito santo. Amen.

Partitura per cinque minuti

Cinque minuti.

La chiave era in tasca. Apre la porta ed entra. La finestra del soggiorno è aperta, le tende sembrano fantasmi danzanti. Lascia che l’aria entri e le tende volino. C’è un cono di luce tra le imposte e il pavimento: dentro brilla un pulviscolo iridescente.

Sorride.

Quattro minuti.

Attraversa l’appartamento a piedi scalzi. Si guarda intorno alla ricerca del particolare che avrebbe rivelato l’assenza.

Sorride.

È il disordine.

Comincia a vagare tra una poltrona e una sedia e si accorge che la borsa è lì, appesa, proprio dove l’ha lasciata.

Sorride.

Scivola sul pavimento tiepido. La finestra lascia entrare i riverberi di una bella giornata di primavera. Si abbraccia accarezzandosi le spalle mentre i suoi piedi si muovono rapidi.

Quanto le piaceva alzarsi al mattino e spalancare quella finestra nella bella stagione.

Sorride.

Danza.

Tre minuti.

Va in camera da letto. Il letto è sfatto, il cuscino adagiato sul suo lato del letto, senza neanche una piega. È rimasto ad aspettare il sonno di una notte.

Sorride.

Danza.

Uno due tre.

Più lento.

Uno. Due. Tre.

Poi rapidamente, un passo avanti e uno indietro. I fianchi disegnano un movimento rotondo, mentre i piedi segnano il passo. Uno avanti e uno indietro.

Ha mai ballato così? Non lo ricorda. Adesso è tutto più naturale.

Sorride.

Danza.

Due minuti.

La cucina. Vuol vedere la cucina. Danza intorno al tavolo. Una. Due. Tre volte. Sul ripiano è abbandonata una gran quantità di oggetti: bollette tazze vuote di caffè con fondi scuri un cucchiaio abbandonato una rivista aperta un calendario fermo al mese precedente un libro chiuso foto in bianco e nero sparse ovunque fogli bianchi con appunti illeggibili una piuma d’uccello un fiore secco una pigna d’abete avanzi di cibo in un piatto un bicchiere una bottiglia di plastica vuota della sua acqua due cioccolatini una lattina un santino l’agenda aperta due penne una nera e una rossa un pennarello nero gomme da masticare.

Danza intorno al tavolo. Sempre più rapida. E ancora. E ancora. Sempre più leggera. Accarezza gli oggetti.

Bollette, tazze vuote di caffè con i fondi scuri un cucchiaio abbandonato, una rivista aperta, un calendario fermo al mese precedente, un libro chiuso, foto in bianco e nero sparse ovunque, fogli bianchi con appunti illeggibili, una piuma d’uccello, un fiore secco, una pigna d’abete, avanzi di cibo in un piatto, un bicchiere, una bottiglia di plastica vuota della sua acqua, due cioccolatini, una lattina, un santino, l’agenda aperta, due penne, una nera e una rossa, un pennarello nero, gomme da masticare.

Sorride.

Danza.

Che meraviglia quel disordine! È così che vive adesso?

Un minuto.

Accarezza con i palmi gli scaffali, apre i cassetti, uno dopo l’altro. Apre. Chiude. Apre. Chiude. Cosa manca? Cosa manca? È tutto in ordine? Cosa manca?

Sorride.danza.

Cinquanta secondi.

Torna nel soggiorno, si avvolge nella tenda e ci volteggia dentro facendosene un drappo. Il sole la colpisce in pieno petto. Peccato non poter esplodere.

Trenta secondi.

Posa un bacio sulla foto in cui erano insieme a guardare un orizzonte sparito.

Sorride.

Danza.

Venti secondi.

Danza ancora.

Volteggia nell’ingresso. I piedi scalzi. Non porta scarpe.

Guarda la mensola.

Sorride.

Dieci secondi.

Posa la sua chiave nel piatto d’argento, proprio dove era solita lasciarla sempre.

Sorride.

L’avrebbe notata?

Smise di danzare.

Cinque secondi.

Riapre la porta. Si volta un’ultima volta indietro.

La luce. La luce.

Ricordati la luce.

“Vivi”.  

Chiude la porta.

Sorrise.

Un secondo.

E sparì.

L’ultima (volta)

L’ultima volta, è una donna che corre sotto un temporale che l’ha colta di sorpresa, mentre stava tornando a casa. L’impermeabile bianco si gonfia, i capelli sono gocciolanti sul viso dolente, ed è la scena di un film.

L’ultima volta, domani inizia di nuovo, qualcosa, qualsiasi cosa.

L’ultima volta: finisce è non c’è più il tempo di rimediare, è l’ultima volta definitiva: dormire in una casa, pensare a un altro giorno, voltare pagina, toccare il tasto invia, o quello conferma. Nessuna azione. Fermo immagine e stop così.

L’ultima volta: la donna – mentre tampona i capelli con il maglione fradicio anch’esso – giura che non dimenticherà più l’ombrello. Poi si ferma e alza lo sguardo al cielo, ride, sa che non avrà mai un ombrello con sé, piove senza rimedio, piove incessantemente sulla sua testa leggera, sui suoi occhi illuminati da una luce grigia intensa.

E’ l’ultima volta, vuole ricordarsene, perché non è più come l’ultimo giorno di scuola, o l’ultimo esame, o l’ultimo momento di una vacanza. Domani non inizia niente. Finisce.

L’ultima volta che apre al futuro, l’ultima volta che chiude il passato.

Lacrime e pioggia adesso viaggiano insieme su un volto che il tempo non ha sconfitto, ma il tempo, quel tempo, non ci sarà più. E’ finito.

L’ultima notte, l’ultima volta: soltanto ieri c’era vita che cominciava, là dove adesso finisce. L’ultima pagina.

Chiusa.

L’ho visto volare

Sul balcone, a fumare una sigaretta, cerco qualche stella nel cielo di una città notturna. All’improvviso, non so come, mi viene in mente una canzone …. ho visto Nina volare… la canticchio in testa, credo perchè i balconi dei piani alti mi fanno quest’effetto: guardo di sotto e penso sempre che si potrebbe provare a volare.

Poi ho pensato che io qualcuno l’ho visto volare: Agostino, cioè, quando l’ho visto volare non conoscevo il suo nome. E’ stato qualche anno fa, una mattina, mentre stavo rientrando a casa. Era una giornata di sole di settembre, limpida, camminavo spedita e non so perché a un certo punto ho alzato lo sguardo proprio nell’esatto momento in cui dall’attico del palazzo ho notato venir giù qualcosa. Non ho capito cosa fosse, sembrava un fantoccio avvolto di abiti gonfi di aria e in quei pochi secondi mi sono chiesta: chi getta da lassù un pupazzo di dimensioni umane? poi però ho realizzato che non era un pupazzo, era un essere umano. Così dalla curiosità sono passata al panico perchè nel frattempo ero proprio lì, nel punto esatto del tonfo. Un rumore secco, forte, disperante.

Mi sono infilata nel bar, concitata, sono riuscita a dire: qualcuno dev’essersi buttato, non avevo il coraggio di guardare. Dal bar invece si sono precipitati fuori e il suo nome a quel punto l’ho sentito urlare.

“Agostino, ma è Agostino!”

Ho saputo poi che Agostino era un dolce ragazzo che aveva perso tutti, che viveva da solo, lì, nelle vicinanze, che stava spesso seduto davanti ai negozi del quartiere, che campava con qualche lavoretto e con ciò che buone anime gli regalavano, cibo o vestiti.

Mi sono chiesta perché. Perchè. Per giorni e giorni quell’immagine di Agostino che veniva giù dal cielo mi ha paralizzato il cervello. Davvero l’aveva voluto fare? O voleva soltanto provare a volare? Magari si sarà detto: metto un piede fuori, poi un altro, vediamo cosa succede.

Cosa avrà pensato Agostino in quei pochi secondi di volo? Era felice? Libero? Atterrito? Pentito? Aveva gridato aiuto? O forse soltanto davvero si sentiva un pupazzo con abiti gonfi di vento? Rideva? Piangeva? Chiamava qualcuno? Pregava? Malediceva se stesso e quell’attimo in cui aveva sbilanciato il suo corpo nel vuoto?

Agostino. Io non l’avevo mai visto. Era sull’asfalto quando ho conosciuto il suo nome. Se fosse un pupazzo rotto o intero non so.

Spengo la sigaretta, e mi sovviente un’altra canzone.

Oggi ho imparato a volare, e non me ne voglio più dimenticare.

Ad Agostino, stasera.

L’odore del sangue

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Angela curava le mani in modo maniacale, era convinta fosse da quelle che si capiscono e si giudicano le persone. Furono proprio le mani l’inizio di tutto.
Le mani di Claudio erano bianche, con le dita lunghe, affusolate, mani che non avevano mai lavorato; lui era un medico cresciuto in un palazzo d’epoca di proprietà della sua famiglia. Angela invece era nata a cresciuta al villaggio rosso, chiamato così per via del colore delle case: una serie di palazzine rosso mattone intorno a uno squallido cortile. Nel mezzo, tre alberi spogli e malati e quattro panchine arrugginite. Vivere lì equivaleva a esibire un marchio. D’estate lo scirocco ci portava una sabbia fine che a volte ricopriva i terrazzi. Angela aveva sempre detestato quel vento, come detestava tutto in quel luogo: l’odore di bollito e di umidità nelle scale che appena entravi ti chiudeva lo stomaco, i panni stesi ovunque, il parlare volgare delle donne e dei bambini. Aveva sempre frequentato poco il cortile, non giocava con gli altri, li guardava dalla finestra e le sembravano bestiole in gabbia. Trascorreva la maggior parte del suo tempo davanti al televisore. Perfino la madre si lamentava, diceva di avere una figlia con la puzza sotto il naso. Angela però non se ne curava, stringeva i pugni e continuava a pensare che lei da lì sarebbe andata via; sprofondata nella poltrona con le gambe penzoloni davanti alla tv, stava alla larga dal mondo intorno. Lei aveva grandi progetti per sé. Prima però, doveva andar via. Fuggire dalle case rosse e  dallo scirocco.
L’occasione arrivò, e si chiamava Claudio, che si innamorò di quella ragazza acerba e testarda, molto diversa dalle donne che c’erano state nella sua vita. Angela era giovane, eppure forte e definita. Usava le mani per accarezzare e graffiare. Graffi che avevano la passione e il calore appiccicoso dello scirocco che arrivava dal mare.

Non avrebbe mai pensato di rovinarsele. Le mani. Le sue. Le piaceva affondare le dita nel vasetto di crema per poi massaggiarle sul dorso, sui polpastrelli, lungo le dita, fino ai polsi. Era una sorta di rito benefico: il profumo,  la morbidezza, il constatare che aveva belle mani, le dava sicurezza, non era come le donne che vivevano alle case rosse. Non avrebbe mai pensato che un luogo dove soffia lo scirocco può confonderti fino a rovinarti le mani. Non lei. Non le sue.

Quando alle otto aveva suonato al campanello della villetta isolata, era buio e intorno non c’era nessuno. Aveva lasciato la macchina sulla strada e aveva proseguito a piedi. Il cuore le bruciava nel petto. Non riusciva a dominare quel pensiero ossessivo: incontrarla. Da quando l’aveva scoperto, qualcosa nella sua testa si era spostato. Lei avrebbe finito l’università, avrebbe sposato Claudio,  invece era comparsa quella donna. La rivale. Aveva sparpagliato tutte le tessere del mosaico. Claudio l’aveva accusata di essere gelosa, paranoica, isterica; l’aveva scacciata come una cagna malata.
“Puttana”: era stata la parola pronunciata da sua madre appena aveva saputo che c’era un’altra nella vita del dottore. Era stata quella parola ad azionare un meccanismo nel cervello di Angela che l’aveva riportata là dov’era nata, alle case rosse.
“Puttana. Non si prendono gli uomini delle altre donne. Bisogna fargliela pagare a sta’ puttana”.
Angela ascoltava la madre e nonostante avesse impiegato tutta la sua esistenza a prendere le distanze da quel mondo, quelle parole le piacevano. Puttana. Cominciò a ripetere. Puttana.
Il pensiero di un’altra donna che le aveva portato via Claudio iniziò a tormentarla come un verme che si mangia tutto. La madre le parlava con l’espressione cattiva e Angela ne studiava il movimento delle labbra, guardava le mascelle dure e sentiva che doveva imparare. Doveva imparare a dire puttana come lo diceva sua madre. Non c’era giorno, in quelle lunghe settimane, in cui non risentisse quella parola nella testa.

Quando quella sera alle otto aveva suonato al campanello della villetta, voleva solo vedere in faccia la donna che si era presa il suo uomo e dirle puttana come lo diceva sua madre. Invece.

La donna che aprì la porta era bella, sicura di sé, vincente. Angela risentì l’eco della voce materna: “Sei una puttana, lo sai? Hai distrutto la mia vita, lo sai? È colpa tua, puttana. Tua”.  La voce però era la sua.  “Puttana” continuava a ripetere. Sì. Le veniva bene, proprio come sua madre. Sentì perfino la mascella indurirsi. In quell’attimo Angela comprese che era l’odore del sangue che l’aveva inseguita dov’era cresciuta. Era da quello che s’era sempre tenuta lontana. La crema, i profumi, servivano per coprire gli odori veri che aveva avuto intorno fin da bambina. Lei sentiva i fratelli tornare in moto e sapeva bene che da qualche parte era successo qualcosa. Una bomba, un morto, due morti ammazzati o nessuno. Magari solo una vetrina sfondata, o una macchina saltata per aria come avvertimento. Lei non aveva voluto vedere ma sapeva. Sapeva. Aveva sempre saputo. Quando suo padre in cucina beveva vino e parlava sommessamente con altri uomini. La testa continuava a girare. L’odore del sangue. Afferrò una bottiglia sul tavolo e la ruppe contro lo spigolo. L’altra, la rivale, cominciò a indietreggiare, cambiò tono ed espressione. Ma Angela non capiva più nulla: gli occhi, le labbra della donna, la sua vestaglia a fiori. Tutto diventò indistinto. Cominciò a colpire ed era solo rabbia per tutto quello che per anni non aveva voluto vedere. Il vetro incise la pelle della donna che cercava di divincolarsi. È così che si fa? Pensava Angela continuando a colpire. Le case rosse. L’odore del sangue. Era dunque quello? Un colpo più deciso e  la gola si aprì, il sangue schizzò, scese in lunghi rivoli lungo la pelle bianca. La donna scivolò a terra come una foglia. Angela la vide accasciarsi: non conosceva neppure il suo nome. Il collo della bottiglia cadde a terra con un tonfo sordo. Si guardò le mani, le sue belle mani che aveva sempre curato, segnate dai tagli e dal sangue. Scappò via. Per strada non c’era nessuno. Si tormentava le mani con le mani, continuando a ripetere “devo andar via, devo andar via”, come una nenia nella testa. Per tutta la vita era questo che aveva voluto: andare via.

Una mattina di settembre uscendo dal portone dell’università, c’era Giada ad aspettarla:
“Allora com’è andata? ”  chiese.
“Trenta” aveva risposto Angela. Era il suo ultimo esame, si sentiva stanca.
Salì in macchina. Giada si mise alla guida. Lungo il tragitto Angela guardò la città dai finestrini, come faceva sempre: i mercati che pullulavano di teste, le vetrine dei negozi belle da guardare, qualche donna anziana che scendeva lentamente gli scalini di una chiesa, gli uomini in abiti scuri e cravatta colorata che si affrettavano davanti alle banche. Chissà se anche per lei prima o poi sarebbe tornato il momento di farsi largo tra la folla. Non riusciva a vedersi. Adesso le dava un senso di pace non esserci nel mezzo.
Quando la macchina si fermò, Angela scese e si avviò da sola. Ormai non c’era più bisogno di Giada alle sue spalle tutte le volte a dire: “Detenuta con permesso speciale”.
Sentì il portone di ferro richiudersi alle sue spalle. Venti passi fino alla vetrata, li conosceva a memoria. Da lì, oltre, stanze e corridoi, corridoi e stanze.
Fece il tragitto fino alla sua cella e si fermò, aspettando che la guardia di turno le aprisse la porta. Poi fu dentro. Il rumore del ferro, della serratura che scatta. Muri protetti. Il suo letto. Un tavolino. Una grata alla finestra dalla quale non si può andare da nessuna parte. E più nessun vento. Scirocco. Umido e appiccicoso.

Salvini, Saviano e Il mulino bianco

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Per fortuna in questo periodo sono impegnata al massimo con il lavoro e non seguo molto né facebook né le notizie, ma vivendo in questo mondo anche quando non le cerchi sono le notizie che tuo malgrado ti invadono la vita. Mi sono ripromessa di non parlare troppo di politica sui social (spesso mi gira la ciribiricoccola e vorrei dire la mia, ma a dirla si rischia di sbraitare o sbranare, quindi anche no, grazie)
Oggi però mi sono decisa a scrivere una breve nota provando a riflettere – sia pur sommariamente – su ciò che sta accadendo, che è cosa grave.
Cominciamo dal titolo: vi sarete chiesti, se siete su questa pagina, cosa c’azzecchino Salvini e Saviano con il Mulino bianco.
Presto detto: il marketing e la pubblicità hanno ormai strategie molto sofisticate per indurci a comprare al supermercato un prodotto piuttosto che un altro e in tutti questi anni Il mulino bianco è diventato un marchio simbolico, sinonimo di prodotti che fanno famiglia, con tutto ciò che nell’immaginario collettivo questa parola porta con sé: i biscotti della nonna, le merendine della mamma, la farina sullo spianatoio, la colazione tutti insieme.
Nella vita reale quelle famiglie ormai non esistono più, le famiglie sono disgregate, ma la pubblicità ottiene comunque i suoi effetti, perché è sempre bello sognare.
Ebbene esiste anche il marketing politico, ed esiste ormai da tempo. Non sono più i contenuti, le visioni di insieme, la vita dei cittadini e i loro problemi a essere “politici”: ci sono i team che sanno da che parte bisogna rivolgersi, che studiano e mettono a punto strategie di comunicazione.
Basta spararla grossa, basta scegliersi il bersaglio giusto, basta parlare alla pancia più che alla testa e il gioco è fatto. Questo Salvini, abilissimo, lo ha capito benissimo e noi tutti siamo complici di questo gioco al massacro inaugurato da quando è al governo, lo siamo ogniqualvolta condividiamo un suo post o una notizia che lo riguarda dandogli voce, risonanza.
Salvini è il lupo che mangerà tutti gli agnelli, avremmo dovuto fare di tutto per impedirgli di essere là dove sta, a qualsiasi costo, ma sappiamo che così non è stato. E qui non mi imbriglio in polemiche che dal mio punto di vista vorrebbero essere analisi ma so già che di là dilaga la presunzione del “vai avanti cretino”, ovvero la convinzione che se ti lascio fare il cretino io nel frattempo mi riorganizzo e quando avrai fatto la tua figura di cacca completa io sarò lì pronto a braccarti. Quante volte abbiamo pagato cara questa “strategia” che torna comoda non al paese ma ai politici che ormai di “politico” nel senso nobile del termine non hanno più niente?
Peccato si facciano sempre i conti senza l’oste, perché l’oste, dicono i numeri, sta ogni giorno di più con Salvini. Bel capolavoro davvero.

Salvini ha sparato contro Saviano; devo ammettere che in tutti questi anni di Saviano ho apprezzato fino in fondo soltanto il video con cui si è difeso, il tono con cui ha dato a Salvini del “BUFFONE”, e non importa se in passato io abbia avuto come tanti mille riserve su Saviano.
L’attacco a Saviano è strumentale, voleva ottenere un fine in virtù della popolarità di Saviano e quel fine è stato raggiunto: l’invasione sui mezzi di comunicazione tutti è assicurata. Più la cazzata è alta, più la diffusione aumenta. Il giorno dopo è toccato ai vaccini, il giorno prima era la chiusura dei porti. Non c’è una visione politica, c’è solo la strumentalizzazione del problema per la propria onnipresenza.

Salvini dice abbiamo un problema di sicurezza: e la stragrande maggioranza degli italiani voilà, si sentono minacciati. Un paese è debole quando si sente minacciato, è fragile, incapace di distinguere il vero dal falso, lo slogan dal problema.
Eppure a pensarci bene Salvini ha ragione: è vero che abbiamo un problema di sicurezza, ma non quella che racconta lui. Le case crollano in un’Italia sempre più tremante, il cemento mafioso depotenziato ha invaso il belpaese. I paesi sotto gli acquazzoni diventano alluvionati in mezza giornata, le strade e i ponti non tengono. Stiamo franando, in tutti i sensi.
È di quella messa in sicurezza che avremmo davvero bisogno, non di essere protetti dalle presunte invasioni barbariche dei migranti, noi, popolo di migranti.
Quali sono i nostri veri problemi? Qualcuno, quando pubblica o condivide un post per dar fiato alle polemiche effetto mulino bianco, se lo chiede? Sono davvero queste le emergenze?
E ancora: c’è qualcuno che dice a Salvini con quali voti è stato eletto al sud, visto che di questo va tanto fiero? Qualcuno – dai 5 stelle all’opposizione – sa dare nomi e cognomi e appartenenze a questa vittoria di Pirro? Se lo dico io qua potrei essere denunciata, ma chi ha il ruolo politico di vigilare mi aspetto la faccia. Perché li conosciamo, almeno qui.

Dunque di cosa si parla? Del nuovo che avanza? Dei neri che invadono clandestinamente le nostre città? Le nostre periferie? Ma quanto hanno fatto comodo all’operoso nord e all’agricolo sud quella manovalanza a basso costo? Sono loro a rubare il lavoro? O non è forse chi il lavoro lo dà che sfrutta per i propri lauti guadagni?
Siate meno ipocriti, andate a guardare nel vostro sacchetto della spazzatura, guardateci dentro: quanto avete buttato, sprecato oggi, ieri, domani? Se conosceste un po’ storia, ma appena un poco, sapreste che ciò che voi oggi buttate allegramente è ciò che abbiamo sottratto negli ultimi secoli a intere popolazioni. Altro che aiutiamoli a casa loro. Ogni due giorni appare un nuovo miliardario e l’1% della popolazione più ricca si è intascato l’82% della ricchezza prodotta in un anno. Mentre 789 milioni di persone sono in “povertà estrema”, cioè la fame assoluta (dati Osservatorio dei diritti, andateveli a cercare)
La coperta non è corta, è distribuita male: aumentano i miliardari e aumenta la povertà. Fatevi due conti e due domande. Se andate a magiare al ristorante, di solito alla fine non è che mangiate gratis, vi portano il conto.

Uomini, donne, bambini che scappano da guerre per le quali noi li abbiamo armati. E adesso? Vorreste forse starvene tranquilli dietro la vostra tastiera e sbraitare e sbranare in santa pace? Avete la soluzione in tasca?
A ciascuno le proprie responsabilità. Io non sto né con Salvini né con Saviano. Io dico soltanto che forse dovremmo smetterla di dar voce agli slogan che tornano utili a chi comanda impunito. Diamo voce ai problemi veri di questo paese, non andate in chiesa a battervi il petto dopo aver scritto un post razzista o dare fiato al vostro odio per una sinistra che ahimè non esiste più (e questo è il dramma), perché si rischia di essere patetici, oltre che – perdonatemi – un tantino ignoranti.

Stiamo camminando indietro come i gamberi, ed è ormai troppo tempo, è ora di svegliarsi.
Le famiglie del mulino bianco sono un’invenzione e noi siamo irretiti dalle invenzioni, ci piacciono, ci sono sempre piaciute, dormiamo un sonno drogato.

Adesso fatelo, andate a guardare nel vostro sacchetto, osservateli un attimo i vostri rifiuti. Ci troverete tante risposte a domande che non siete abituati a farvi, ma che sono necessarie come i dubbi che non arrivano mai. E i dubbi, guai a non averli.

Dove vanno le nuvole?

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Un paio di volte all’anno con un gruppo di amici con i quali trascorrevo l’estate da ragazza ci incontriamo, pur vivendo sparsi per l’Europa. Ieri – giornata del meeting, come lo chiamiamo – grazie a uno di noi siamo andati a Riace.
E’ una bella giornata di sole, a Riace si arriva salendo per una strada stretta che si inerpica sulla collina, in questa stagione i prati sono verdi e pieni di fiori. Noi in macchina parliamo e ridiamo, come accade sempre quando ci ritroviamo.
A Riace ci aspetta Mimmo Lucano, il sindaco, un uomo che ormai da più di quindici anni si è dedicato anima corpo sangue e sudore al suo progetto di far rivivere il suo paese natale ormai per lo più abbandonato. Con questo progetto, riuscito, è diventato suo malgrado famoso, suo malgrado nel senso che se lo senti parlare ti accorgi che la notorietà e l’interesse di personaggi famosi come, per citarne uno, Wim Wenders, non l’hanno minimamente scalfito. Parla come un fiume in piena.
Tuttavia non è lo stesso Mimmo Lucano che andai a sentire due anni fa all’Abbazia di Corazzo, in occasione della manifestazione “Una montagna di pace”. Ci porta al piccolo bar e ci offre il caffè. Fuori sul porticato ci sono seduti anziani che parlottano al sole.
La prima cosa che dice è che è stanco, che la sua famiglia si è disgregata, se ne sono andati tutti. Non sa che fare, sua figlia non sta bene, avrebbe bisogno di lui. La tentazione di mollare tutto è forte.
Poi però ci dice “andiamo a vedere” e non appena si muove realizzi che quell’uomo “é” il suo sogno e per quanto provato cammina con passo spedito verso il suo villaggio, ansioso di mostrarci cosa accade a Riace.
Entriamo così nel villaggio globale, dove parte delle vecchie case di emigranti che non sono più tornati e ridotte a catapecchie sono state restaurate e dove sono stati creati laboratori e botteghe.
20180330_120224Entriamo nella prima: il laboratorio di tessitura con i vecchi telai, ci sono due donne giovani e un bimbo bellissimo in una carrozzina. Una parla solo francese, l’altra nel suo italiano stentato ci dice che è scappata dal Camerun, marito morto, un figlio del quale non ha più notizie perché preso dalla famiglia di lui. Mimmo ci dice che Becky Moses, la ragazza di 26 anni morta tra le fiamme nell’incendio di Rosarno stava qui, lavorava qui. A dicembre aveva ricevuto un diniego alla richiesta d’asilo e aveva dovuto lasciare Riace, nonostante lui si fosse battuto e opposto. Era finita nel ghetto di Rosarno e lì è morta.
Cos’ha fatto Mimmo Lucano a Riace? Si è inventato una moneta di carta, i migranti che arrivano possono spenderla nei negozi, i quali poi verranno saldati con i soldi dei finanziamenti.
Cos’ha di particolare il sistema Riace? In primo luogo ha ridato vita a un paese ormai morto: i bambini sono tornati a scuola, un medico in pensione fa volontariato e hanno aperto un ambulatorio medico, sono stati creati laboratori per aprire le botteghe e creare economia. In poche parole non assistenza, ma accoglienza. Il primo passo verso un’integrazione reale. A Riace i migranti lavorano insieme ai volontari e alle persone del posto, non sono relegati in strutture ghetto, fuori dai centri abitati perché nessuno li veda e nessuno possa sapere come vivono con quei famosi 35 euro che lo stato paga provvisoriamente per loro. Qui insomma con il loro carico di storie pesanti hanno ripreso a vivere, ad abitare case, a mandare i figli a scuola. ad avere una possibilità.
Mentre visitiamo le botteghe Mimmo parla, parla. Non si dà pace, ci mostra quello che fanno e ci chiede: perché a me hanno mandato un’ispezione? Perché devo subire un procedimento penale sostanzialmente sulla base di un sospetto, ovvero come fa Mimmo Lucano a mandare avanti progetti su progetti e fare quello che sta facendo con quei famosi 35 euro? Perché è da qui che parte tutto. Come fanno a bastargli? Lo hanno accusato di parentopoli: sua moglie è andata a vivere altrove e ora fa le pulizie in una scuola, i due figli se ne sono andati. La sua vita personale è il prezzo che ha pagato.
Entriamo verso l’ora di pranzo nella casa di Donna Rosa e diciamo che però il pranzo lo vogliamo pagare. Già prima in una bottega abbiamo preso delle cose che non ha voluto che pagassimo: “soldi, soldi, siete abituati a comprare tutto”, ci ammonisce. Ovviamente non paghiamo.
Dopo ci porta vedere il progetto per la raccolta rifiuti porta a porta, un terrazzamento dove sono state costruite casette nelle quali stanno gli asini che portano in giro per la raccolta, stanno terminando una parte che servirà per il riciclo. Da qui ci mostra la casa dove è stato Wim Wenders. In fondo si vede il mare, tra le gole delle montagne.
Andiamo poi alla sede dell’associazione, guardiamo il film, Il volo, io non l’avevo mai visto, lui si va a sedere in un angolo e da una scatola prende delle banconote e le divide, fa dei mucchietti per noi.
Poi ci sediamo intorno al tavolo, le tessere del mosaico del suo sfogo cominciano a comporre l’immagine chiara: ci legge la relazione degli ispettori che gli hanno mandato a trovare l’inghippo per metterlo in un angolo, ma la relazione ha parole di elogio di ciò che a Riace è stato realizzato. Ma la cosa strana è che questa relazione, che gli era dovuta, a lui non l’hanno mandata, ha dovuto richiederla alla procura per averla. Non solo, i finanziamenti sono bloccati, a tutti hanno liquidato il 2016 e stanno liquidando il 2017, a tutti tranne che a Riace. Finanziamenti bloccati senza uno straccio di motivazione, senza una carta che dica perché. Loro continuano a telefonare e nessuno risponde.
Tutti siamo basiti, ma tutti ci diamo la stessa spiegazione: prima la domanda, a chi dà fastidio Riace, poi la risposta. Qui è stato dimostrato che con i pochi finanziamenti (perchè stiamo parlando di decine di migliaia di euro, non centinaia) si possono fare un sacco di cose partendo dall’idea che i migranti non sono affari o merce di scambio, ma esseri umani (cosa che lui ripete ossessivamente, non si dà pace) non è che ne spendi 15 per mantenerli fino a che qualcuno non gli dà un calcio in culo e ti trattieni il resto con sistemi facili da intuire (fatturazioni false, false consulenze e così via)
E’ provato: si vede e si sente.
Da ultimo andiamo a visitare il frantoio: dovrebbe partire a settembre, un macchinario imponente. L’idea è di ridare vita agli uliveti abbandonati e cominciare a produrre anche l’olio.
Si sono fatte le sei e mezza, ci avviamo. Mentre usciamo dal villaggio globale c’è la chiesa, gli altoparlanti diffondono la funzione del venerdì santo. Neanche la chiesa, diciamo la verità, vuole bene a quest’uomo che il mondo ci invidia, il perché è fin troppo facile da intuire. Mentre penso che in fondo è un Cristo di oggi, lui sta raddrizzando un dipinto sul muro di una bottega “Gli aquiloni di Islamabad”, lo guarda e mi dice: bello vero? Annuisco, sì, è bello.
Lo salutiamo abbracciandolo, lo ringraziamo per la giornata e più o meno tutti gli diciamo che quello che ha fatto a Riace non può morire, che uno che è ha riscosso la sua fama troverà voce e voci a sostenerlo.
Mentre raggiungiamo la macchina notiamo un gruppo di adolescenti che ridono e scherzano, non hanno la pelle di un solo colore.

Intanto la Rai ha prodotto una fiction con Beppe Fiorello che da quando questa storia è iniziata è rimasta bloccata, non è andata in onda, chissà perché. In compenso tra qualche settimana a Riace ci sarà Roberto Iacona che ne farà il suo racconto.
Io, nel mio piccolo, se siete arrivati a leggere fin qua vi chiedo di condividere questo racconto, di fare uso buono dei social per fare passaparola, perchè una voce si perde, tante voci gridano e arrivano lontano. Grazie fin d’ora a chi lo farà.

Un amico ha detto a Mimmo: tu incarni il nostro sogno degli anni ’70. Noi abbiamo solo sognato, tu l’hai realizzato.

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Un articolo che spiega abbastanza bene
http://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2017/09/26/news/sindaco_riace-176573285/

Voto, non voto. Voto.

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E’ da qualche giorno che medito di scrivere ciò che penso alla vigilia del prossimo voto del 4 Marzo. Lo faccio qui e lo archivio tra i passi liberi del mio blog personale perché su fb, dove mi pure mi piace ogni tanto dire la mia, mi rendo conto che è sempre più difficile farlo senza essere attaccati o fraintesi.
Mai come in quest’ultimo periodo sento parlare di “politica”: quando entri nel bar a prendere un caffè, quando cammini per strada e ci sono persone lì ferme a chiacchierare e capti frammenti di discorsi, al supermercato, nelle case, nei luoghi di lavoro, ovunque.
Questo tuttavia non accade perché cresce la partecipazione. Mi sono fatta l’idea che accade perché tutti in casa abbiamo una tv dove oramai i politici sono guest star a qualsiasi ora del giorno e della notte. Non siamo noi che andiamo verso la politica perché ci teniamo, ci interessa o ci crediamo. E’ la politica che invade i nostri spazi, i nostri tempi, le nostre case e in definitiva le nostre menti.
Avverto nei discorsi molta disillusione, talvolta amarezza, delusione e una tale stanchezza che le posizioni in prevalenza sono in sostanza tre: o la rassegnazione del non voto (tanto sono tutti uguali) o l’idea che o la va o la spacca (voto i 5Stelle perché se dobbiamo affondare tanto vale azzerare tutto e poi vedremo, tanto peggio di così non può andare) o l’idea che la propria appartenenza politica consapevole sia in assoluto la migliore, quindi cosa vuoi capire tu?
Devo dire che tra le tre trovo fastidiosa proprio quest’ultima: sono lontani i tempi dei confronti, della dialettica, della discussione e quindi dell’approfondimento, tutto si riduce a uno scontro presuntuoso in cui o stai con me o sei contro di me e se sei contro non capisci niente. I toni sono il segno dei tempi della politica mediatica, fatta con i tweet e i post su fb.
Molti intorno a me dicono che non andranno a votare, cosa che ritengo in ogni caso decisamente sbagliata.

Io vorrei raccontare quello che negli ultimi tempi è successo a me.
La politica è sempre stata tra le mie passioni, non l’ho mai fatta attivamente, tranne in gioventù, ma di certo mi accendo ancora adesso per le cose in cui credo.
Da quando sono tornata a vivere in Calabria mi sono avvicinata a Sinistra Italiana con la voglia di “fare qualcosa” perché non appartengo in ogni caso alla categoria di quelli che stanno sul divano a dire che non si può più credere a niente e nessuno.
Mi capita di essere attaccata perché a volte (forse molte volte) sono un’antirenziana della prima ora che non perde occasione per criticare il capetto PD. Di solito l’accusa è del tipo: non attacchi la destra e attacchi la sinistra, la veemenza con cui attacchi Renzi dovresti usarla per altri e peggiori bersagli.
A volte la saccenteria che ritrovo in amici e conoscenti del PD, devo dire che non ha pari: la colpa dello sfascio sarà la vostra, se vincerà Salvini ce l’avrete sulla coscienza, se i 5 stelle che non sapranno governare andranno in Parlamento ne pagheremo le conseguenze e tu che punti il dito sarai colpevole. Tutto sempre basato sulla contrapposizione, sull’idea di voto utile, di governabilità, del meno peggio e via discorrendo
Non sto qui fare la storia di Renzi, della sua ascesa politica, del suo porsi come accentratore, del rottamatore che ha portato un partito che già il ruolo della sinistra lo aveva perso verso una deriva ancor più liberista della destra (perché votare le copie se puoi votare l’originale?)
Da insegnante posso fare un esempio: se nella scuola scioperano il 95% dei docenti contro una legge che la credibilità della scuola ha finito per sfasciarla, tu che sei promotore di quella legge (e Walter Tocci, DEL PD lo ha detto, ripetuto e scritto – riportando l’iter di quella “riforma” nel suo La scuola le api e le formiche, Donzelli Editore) qualche autocritica la fai o no? NO, la legge è stata approvata, così com’era, con il risultato che ha perso anche il referendum sulla Costituzione che voleva cambiare. Dunque? Evviva la democrazia? Ma cos’è la destra cos’è la sinistra, cantava Gaber.
Come potrete votare, per dire, Casini – uno che è andato a destra e sinistra andata e ritorno – a Bologna?

È poi successo che in vista delle elezioni SI si è unita a LeU e la cosa sulle prime mi è parsa perfino buona e giusta (con le dovute riserve, ad esempio D’Alema… beh, anche no)
Con la formazione delle liste però, anche il meccanismo di LeU non è stato quello che, almeno io, mi sarei aspettata: dal basso, espressione dei territori. Le candidature sono state decise dall’alto e blindate.
Nello stesso periodo mi è capitato di partecipare ad un incontro pubblico di Potere al popolo, sono curiosa di natura, sono andata lì per ascoltare, a cercare di capire cosa stesse succedendo.
Ebbene, mi sono trovata in mezzo a giovani (ma non dicono che non hanno più interesse per la politica?), ragazzi, ragazze, e la prima a prendere la parola è stata una diciottenne e udite udite parlava di politica, come riportarla tra i suoi coetanei disinteressati, cosa fare, come attrezzarsi.
Molti di quei “giovani” per la verità sono persone che la politica la fanno da anni, ma in altro modo: nelle associazioni, nell’impegno in difesa dell’ambiente, nel tornare alla terra in questa terra dove se vuoi lavorare te ne devi andare, nelle carceri, negli sportelli di assistenza medica gratuita. Tante realtà che esistono perché ancora qualcuno crede in qualcosa che si chiama solidarietà, in un mondo in cui ormai tutti ci facciamo gli affaracci propri e dove le differenze sono sempre più grandi: poveri e ricchi, bianchi e neri, meritevoli e raccomandati figli di papà.

Un paio di settimane dopo sono tornata nello stesso posto in occasione della presentazione delle liste e sapete come ha esordito colui che coordinava l’incontro? Noi siamo quelli a cui è stato derubato il futuro.
Io, lì nel mezzo, mi sono all’improvviso sentita vecchia e responsabile, e tutto quello che ho sentito quella sera (giovani ricercatori universitari, precari di ogni genere, tutti) era vero. Vero e sacrosanto.
Ed ho avvertito anche una sorta di scossa elettrica che attraversava la sala, era da tempo che non la sentivo: una voglia, un impeto, un entusiasmo che ho vissuto come un dono.
Sarò un’idealista, ma quello che ho pensato tornando a casa è stato che non se ne può più della disillusione, del catastrofismo, della politica pensata come “ciò che è utile” anziché come risposta ai bisogni reali delle persone: uomini, donne, bambini, tutti.
C’è un progetto che inizia e non finirà certo il 4 marzo, perché si sa che i risultati non pagheranno, ma è un progetto che andrà avanti.

Io confesso di essere un po’ stanca per mettermi in gioco attivamente, questo riguarda la mia vita personale, ma sono fermamente convinta che abbiamo un debito da saldare con il futuro: la speranza di riprendere un cammino che ridimensioni gli squilibri sociali ed economici, che ci rifaccia fare un passo indietro perché stiamo distruggendo il mondo, la fede, la natura, noi stessi.
C’è bisogno di dignità, di rispetto e lavoro (come diceva Pertini, senza giustizia sociale non ci può essere libertà e questo è e dovrebbe essere l’unico valore della sinistra), di farla finita con le crisi che pagano soltanto i deboli, i lavoratori, un ceto medio ormai impoverito e i precari ai quali si dice meglio precari che niente.

Ci sono dei punti del programma che non mi convincono, ma questo non è importante. Credo sia importante riprendere a respirare e intravedere un futuro diverso da quello che si prospetta per milioni di giovani che ci stanno alle spalle.
Io ho deciso di voltarmi indietro e riprendere a camminare, convinta come sono che la speranza è, prima di tutto, un dovere morale.

Per questo voterò Potere al Popolo.

 

1943 – Diario di un padre ragazzo

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13 gennaio 2013 alle ore 21:43

 Non ricordo bene che giorno fosse, uno della fine dell’anno 2009. Natale era passato e Capodanno era alle porte.

Mi aggiravo nella casa semibuia come un’ombra muta. Poi ho cominciato ad accendere tutte le luci, ad una a una ho illuminato tutte le stanze, nel vano tentativo di affogarci dentro, tutte o una sola non avrei saputo; forse avrei scelto quella nella quale ero cresciuta. Lì dentro c’erano tutti i miei vent’anni. Il vecchio armadio di legno scuro.
“Questo lo mettiamo in camera tua”, aveva decretato mia madre.
“Come in camera mia? Sto’ catrabbio??”
Ero arrabbiata, non mi andava, proprio non mi andava che l’armadio della vecchia camera da letto dei miei finisse nella mia. E siccome non mi piaceva, la prima cosa che ho fatto è stata prendere dei colori, per giunta inadatti, ad olio, e su un’anta ho dipinto un enorme fiore giallo e rosso, con le foglie verdi. Una cosa orribile. Come rovinare un vecchio armadio e poi darti della cretina. Ma tant’è, il danno era fatto.

Guardo il fiore, poi lo specchio, dentro c’è il riflesso del mio letto.
Questa è l’ultima notte che passo qua dentro. I miei bagagli sono pronti. Domani riprendo il treno e vado via. Come decine di volte negli anni. Ma questa volta è diverso.
Percorrendo il corridoio ce l’ho con mio padre. Avrebbe potuto comprarla questa casa, ma lui era così. Un uomo d’altri tempi, tutto d’un pezzo. La casa che avevamo abitato da sempre apparteneva al Ministero di Grazia e Giustizia. Per mio padre, Cavaliere dello stato, era una specie di chiesa. Non si chiede, si è grati, si sta in silenzio, non si imbroglia e soprattutto non si mischiano le carte. Non si approfitta mai, perfino quando avrebbe potuto. Mai.
Ora che è morta mia madre la casa se la riprendono.

Vago per il corridoio ed entro nello studio: la libreria e la scrivania  le prenderà mio fratello, sul divano qualcuno ha già sparso dei libri. Mi metto a rovistare: ci sono libri di scuola, una grammatica greca, una vecchissima versione dell’Iliade, nera con le scritte gialle e rosse. Sfoglio qualche libro. Li rimetto a posto. Io ho deciso che l’unica cosa che porterò via sarà il battipanni di mia madre, quello di legno. Non voglio altro. Solo perchè mi piace e non se ne trovano più così.

A un tratto, mentre scorro i libri, nell’ultimo ripiano in fondo a destra, tra un libro e l’altro, non so come, la vedo. E’ un’agendina piccola, vecchia, nera. La prendo, pagine piene di una  scrittura minuscola e fitta. Riconosco la scrittura illeggibile di mio padre sulle pagine ingiallite.

1943

Sono emozionata, me la rigiro tra le mani. Quanto tempo è che questa cosa ha girato per casa? Quante case ha cambiato? Quante ere ha visto? Come mai è finita qui? Io la conosco mia madre, fissata com’era coi cimeli, se questa l’avesse vista sarebbe stata nel suo comodino, in una busta con il rosario e le immaginette della Madonna e di Santa Rita, la santa dell’impossibile, diceva sempre, quella a cui puoi chiedere qualsiasi grazia.

Leggo: “primo giorno dell’anno… trascorso sotto la vita militare, mentre il santo natale l’ho trascorso a casa, il Capodanno sotto le armi, nella Caserma “A. Guidoni” in Benevento

Sorrido: eri così preciso.
Continuo a leggere, qualche pagina dopo: “mentre tutti i giovani fanno una vita spensierata per me non è la stessa cosa. Vado a casa e subito ritorna il buon umore.. Perché? Eppure a casa la mia vita non è facile, non riesco a capire perché qui debba avere questa malinconia. Questo è il mio carattere. Pazienza. Per non prendersela bisognerebbe essere filosofi. Purtroppo la pazienza non è il mio forte.”

1943: mio padre aveva 22 anni, stava finendo la guerra, lui l’aveva vista poco, si vantava sempre di non aver mai sparato un colpo. Era distaccato in Puglia in qualche ufficio, non so bene.
Mi sembra incredibile. Chiamo mia sorella, le dico: lo sai cosa ho trovato?

Il giorno dopo, in treno, quel diario l’ho letto tutto. In alcuni punti la scrittura è a lapis, quasi andata, comprerò poi una lente di ingrandimento per poterla decifrare.
Dentro c’è la storia di mio padre: l’ansia che lo divorava per la lontananza dalla sua famiglia. Sua madre era morta che aveva appena 11 anni quando lui era il più grande di 6 figli. Poco dopo mio nonno li aveva abbandonati e se n’era fatta un’altra di famiglia. Da quel momento mio padre aveva sempre lavorato  e fatto di tutto, ma la cosa strana è che non smise mai, mai, di inseguire suo padre, di volere a tutti i costi che fosse un padre per i suoi fratelli. E lo comprendo leggendo queste pagine. Il suo pensiero fisso era obbligare suo padre a fare il padre.
Forse per questo per tutta la vita quest’uomo ha fatto da padre a tutti: ai suoi fratelli, ai fratelli di secondo letto, a noi. E persino a suo padre. Prima che morisse lo costrinse a riconoscere un figlio illegittimo, me lo ricordo quel giorno, al funerale, questo nuovo zio venuto da Roma.

Finalmente ho ricevuto due lettere da casa. Una di Ezio e l’altra dei fratellini. Non hanno ricevuto tutte quelle che ho loro inviato. Mi dispiace molto che mio padre non si interessi dei fratellini. Ezio lavora molto. Povero ragazzo! Si è dovuto caricare quasi tutto il peso della famiglia. Fatta solita passeggiata.”
Dentro c’è la storia di un uomo che mai è stato ragazzo.
Ho ricevuto una cartolina illustrata da zia Adelina. Riscosso il vaglia. Tutta la giornata in ufficio. Il tempo piove. Il mare è in burrasca. Io dalla finestra l’ho osservato per  più di dieci minuti. Le onde si accavallano l’una sull’altra e vanno a infrangersi sugli scogli mandando su della schiuma bianca. Sembra sapone che si scioglie.”

Oggi ho avuto una bella sorpresa. Un mio amico mi ha detto che oggi è l’ultimo giorno di Carnevale. Dove sono arrivato! Non so più neanche i giorni festivi. E quali giorni! Chi dimentica mai il carnevale, giorni di allegria e di tripudio?”
Leggeva, leggeva molto, mio padre, appunta meticolosamente tutti i libri, titolo, autore, commento.
Oggi ho ricevuto una lettera di Rossetti una di Lilia ed una cartolina postale di Moreno. Non ho risposto a nessuno. Forse domani andrò in missione a Vibo Valentia. In questo caso risponderò a tutti al ritorno. In serata, mentre guardavo la luna brillare nel firmamento, avuto una voglia matta di andare a passeggio, sono rimasto a leggere.
Studiava: voleva prendere il diploma che non aveva potuto prendere (e che prenderà). Segna  tutte le spese per i testi che acquista.
Oggi sono uscito ed ho comprato “Morfologia latina” del Ferrone

Camminava, amava camminare: ci sono riportate le impressioni delle sue passeggiate, che sembrano davvero l’unica cosa che riusciva a dargli pace.
Andava molto al cinema e qualche volta a teatro: riporta i titoli dei film  e degli spettacoli, e i commenti
La cosa che mi colpisce è che a quel tempo, nonostante la guerra, le poste funzionavano: scrive una notevole quantità di lettere e cartoline e altrettante ne riceve, giorno per giorno appunto a chi e cosa scrive e cosa riceve e da chi.
Poi, nell’ultima pagina, il ragazzo triste, il 31 di quell’anno, alla fine di un anno “denso di avvenimenti dolorosi” scrive:
mezzanotte mi ha sorpreso dalla famiglia Renda“….
Beh, lì c’era mia madre, era a casa di mia madre. Chissà se è iniziata quella sera.
Mia sorella la sera in cui ho trovato questo diario mi disse nella sua ingenuità che forse avrei dovuto darlo a mio fratello, il maggiore di noi.
“Perché mai?” . Ho risposto.
Forse esistono le coincidenze, non saprei dirlo: ma quella sera, la mia ultima sera in quella casa che amavo e che dovevo lasciare, io trovo qualcosa che mio padre voleva trovassi, e non altri ma io. Per anni era stata sepolta da qualche parte e quella sera era rispuntata fuori, tra le mie mani.
Solo io e lui sappiamo il perché.

Di sicuro quella era la mia “eredità”. Ne sono convinta.
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Tutte siamo state molestate

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Anna Magnani in Bellissima, di Luchino Visconti, 1951

Alzi la mano a chi non è mai successo.

La prima volta che sono stata molestata avevo undici anni. Erano molestie verbali di un adulto che mi diceva cose irripetibili. I miei genitori mi spedivano in sicurezza a prendere parte alle prove dello spettacolo che si teneva ogni anno nella mia città per carnevale. Cantavo benino e lui era un musicista del complesso che ci accompagnava. Mi ha inseguito per anni dicendomi porcherie delle quali ho imparato il significato mio malgrado.

La seconda volta che sono stata molestata fu da parte del ragazzino che non accettava che l’avessi lasciato. Mi portò con una scusa credibile in vespa in mezzo a un bosco e mi salvò il fatto che avevo un paio di jeans con la cerniera difettosa e per tenerla su l’avevo chiusa con una spilla da balia. Quell’espediente mi permise di darmela a gambe. Per fortuna non eravamo troppo lontani dal bar dove adolescenti come noi trascorrevano il loro tempo di ozio in vacanza in un luogo di villeggiatura.

La terza volta che sono stata molestata era uno fuori di testa che mi seguiva spesso, avevo si e no quindici anni. Una sera rientrando a casa si infilò nel portone dietro di me e mi mise le mani addosso, dappertutto. La porta di casa mia al secondo piano era aperta e l’unica cosa che mi venne in mente fu che non poteva farmi niente di brutto, dovevo difendermi da sola, se avessi urlato i miei genitori col cavolo che mi avrebbero fatto uscire da lì in poi o tornare la sera (io potevo rientrare massimo alle otto) da sola. Lui era invasato, alla fine gli ho dato uno spintone e mi sono precipitata su per le scale. Mi ha inseguita perfino lì, con mio padre sulla porta insospettito dal tempo che stavo impiegando a salire. Non ce l’ho fatta a nasconderlo, lui vide l’ombra precipitarsi giù per le scale ed io ero troppo spaventata. Cercai perfino di minimizzare.

La quarta volta che sono stata molestata è stato da parte di un conoscente. Avevo circa ventitré anni e vivevo a Firenze, in quel periodo a casa ero da sola. Mi sentii male e chiamai mia sorella, non c’erano i cellulari. Lei non rispondeva, chiamai un suo amico medico che avrebbe dovuto essere con lei. Non era così ma lui si precipitò a casa mia. Fu una cosa che sgradevole è dire poco, forse rivoltante sarebbe più corretto. Non so nemmeno come abbia fatto a metterlo alla porta. Era l’appendice, tra l’altro, ma non fu lui a diagnosticarlo.

Poi infiniti altri episodi, compreso il direttore della filiale dove avevo il conto della mia agenzia, una vita fa, che un giorno piombò senza appuntamento in ufficio, cosa che a suo dire faceva “per conoscere meglio i clienti”, così mi disse. Non ci provò, c’erano altri uffici e c’era gente, ma mi fece capire chiaramente che avrebbe potuto essermi d’aiuto. Sono stracerta che se fossi stata da sola l’avrebbe fatto con i fatti, queste cose le capisci al volo.

Diciamo la verità, noi impariamo a difenderci perché è così che funziona. E non c’è verso: è una stramaledetta questione culturale che inizia da troppo lontano ed è dura a morire.

E proprio perché è una questione culturale andrebbe trattata con toni più consoni. Dopo lo scandalo di Asia Argento, cosa ben diversa, ecco che comincia l’eco delle notizie italiane. Io non riesco a essere del tutto solidale con la velina che ora denuncia quanto accaduto trenta anni fa. Perché da donna che ha sempre cercato perfino di scrivere di queste cose, indagando l’impossibile e il possibile, quella per me rappresenta la sconfitta di tutte le donne. Come sono una sconfitta le madri e le figlie che si scannano ai concorsi di bellezza. Sono i simboli stessi di quella cultura che ora vorrebbero denunciare, ci stanno dentro fino al collo. Non ce la faccio, perdonate, a considerarle eroine.

Noi che facciamo i falsi moralisti dando credito a una stampa che su queste notizie ci va a nozze non per difendere la vittima, o presunta tale, ma per creare lo scandalo anche dove non c’è.

Noi che abbiamo perfino eletto il re dei porci, colui che aveva l’harem delle fanciulle che volevano fare facile carriera e rischiamo di rieleggerlo come se niente fosse, senza ritegno.

Il mondo dei ragazzini, a ben guardare, è pieno di modelli come questi, le loro chat strabordano di foto di ragazzine nude o mezze nude che mandano una foto a uno e si ritrovano condivise con centinaia, che usano il corpo e lo fanno parlare male, malissimo, senza il rispetto necessario per sé stesse.

È una stramaledetta questione culturale.

Quando non dovremo più difenderci, allora sì sarà veramente cambiato qualcosa. Ma a quel momento le veline svestite, provocanti, coi culi per aria (qui soltanto assunte a simbolo) saranno sparite?

 

 

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