Ohibo’ il Nobel a Dylan mi piace, sono invecchiata!

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Bob Dylan e Allen Ginsberg sulla tomba di Jack Kerouac
Ehi sì, da ieri ho capito che devo essere proprio invecchiata perché ho sperimentato che quella cosa che si chiama gap generazionale esiste davvero.
Dunque: De Andrè, per dire il primo che mi viene in mente, non è un musicista. Le sue cose migliori le ha fatte se affiancato da Mauro Pagani, Ivano Fossati, la PFM. Ma sui testi di De Andrè e su quello che hanno rappresentato molti potranno essere d’accordo: sono bellissimi.
Ho letto tante cose, forse troppe, e vorrei tralasciare per un attimo il fatto che il nobel è stato dato a qualcuno che con la letteratura non c’entra niente.
Molti, sui 35/40 anni, dicono è proprio che Dylan, non mi piace, è noioso e via discorrendo. Insomma, neanche musicalmente o come cantautore varrebbe una cicca.
C’è però un aspetto: se dai un premio così prestigioso, può darsi che ci stia che tu lo stia dando a una forma d’arte che ha espresso qualcosa di davvero significativo, una cosa che ha inciso su generazioni, a un terremoto culturale.
Qualcosa che ha rotto uno schema, che ha innovato, che non è UNA forma espressiva pura (letteratura in questo caso) ma tante insieme.
Io sono figlia di un tempo che aveva ereditato gli anni ’60 e ’70, sono cresciuta nella musica e con la musica, che non era fine a sé stessa.
Dylan proviene da un solco tracciato ad esempio da Woody Guthrie prima di lui, ovvero quei folk singers che per la prima volta affermavano il valore della parola, della musica come veicolo di idee, quelli che ti fermavi ad ascoltare per cose che dicevano, non per la musica che suonavano, o non soltanto. E questo Bob Dylan ha continuato a fare, sempre: ha parlato di diritti civili, di ingiustizie, di solitudini, di storie di neri che finivano in carcere, come Hurricane, condannato perchè era nero, non perchè fosse colpevole, visto che poi l’innocenza è stata provata.
Alla Marcia su Washington con Marrin Luther King, lui c’era. Censurato dalla TV, lasciò uno show perchè voleva cantare una canzone potenzialmente diffamatrice nei confronti di un’associazione anticomunista. Lui c’era.
Non continuo. Non voglio dare lezioni, né fare la maestrina.
Questo forse era ieri e oggi è un’altra storia e io magari sono ieri.
E’ solo che mi pare che la canzone nel vento che si canta agli scout basti per giudicare BOB DYLAN, il che è un po’ pochino.
Ci sono particolari momenti storici in cui il mondo della cultura dà (e deve dare) dei segnali), anche Dario Fo prese il Nobel tra mille contestazioni in pieno governo Berlusconi.
Anche di lui si disse che era un guitto che non c’entrava con la letteratura, mentre magari Mario Luzi sì, quella Alta, quella con la C maiuscola.
Qualche giorno fa un amico americano mi ha detto: Hilary è pericolosa per l’America, Trump per l’intero globo terrestre e universi paralleli.
Dunque forse guardare un pochino più in là del proprio naso, allargare la mente, fare capriole spericolate, è ciò che la Cultura dovrebbe fare, qualsiasi forma abbia. Fuori dal salotto e anche fuori da facebook. Fuori dalle puzze sotto il naso e dai Critici con la C maiuscola dei quali nessuno conosce i nomi al di là di pochi addetti ai lavori.
Non è questione di Roth che meriterebbe il nobel o Murakami o McCarthy.
E’ questione di ciò che incide ee ciò che incide per me, non è ciò che incide per i più.
Non mi si fraintenda, che donna di Lettere sono: ma un libro eccelso di Roth può aver cambiato la prospettiva di molti. Ora moltiplicate questi molti per centinaia, generazioni che erano in strada, non su fb. E avrete il risultato.
Ecco perchè a me il Nobel a Dylan piace. Assai.
“Per essere un poeta non è necessario scrivere. Ci sono poeti che lavorano nelle stazioni di servizio. Non mi definisco un poeta perché non amo quella parola. Sono un artista del trapezio” (B. Dylan, 1965)

Giovanni

Per sentire la compassione basta un cuore umano, ma per sentire pienamente e adeguatamente le gioie di un altro ci vuole il cuore di un angelo.
E ricordatelo sempre, quanto più squisito e delicato è il fiore della gioia, tanto più tenera deve essere la mano che lo coglie. (T. Coleridge)

Prima Teatrale Marradi 02-05-2010 012
L’amore non è per sempre, l’amicizia sì

Ieri è stata una giornata campale. Al mattino presto ho ricevuto un messaggio vocale di Rita, diciassette secondi durante i quali con la voce rotta mi ha detto: Giovanni non c’è più.
Riesco a digitare un misero ok di risposta, sappiamo entrambe che non c’è bisogno di altre parole.
Silenzio. La mia testa tace, la mia bocca tace, così il cuore e gli occhi. Incapace di metabolizzare una notizia che prima o poi sapevo sarebbe arrivata.
Muto dovrebbe starsene il mondo intero oggi. Invece non lo è, la notizia del terremoto invade le nostre giornate con la sua malvagità. Morte, distruzione, angoscia. Mi viene da pensare, a un certo punto, che Giovanni si è addormentato e la terra ha avuto un sussulto di rabbia per un evento così ingiusto. Noi esseri umani nel dolore abbiamo strani pensieri.
Entrambe le notizie mi sovrastano, mi annientano, non riesco neanche a piangere, anche se vorrei. Eppure era scritto.

“Siamo alla fine” mi aveva detto Caterina circa dieci giorni fa. Quella notte avevo sognato Giovanni, ma il Giovanni di prima della malattia: energico, esuberante, non smetteva di parlarmi. Non ricordavo cosa mi avesse detto nel sogno, ma al mattino mi sono svegliata con il bisogno di avere notizie. Vinco la mia reticenza, il pensiero di disturbare in un momento così delicato.
“Siamo alla fine”.

Io sono certa che come me, tutti coloro che hanno conosciuto Giovanni hanno ostinatamente pensato che quella parola non sarebbe stata scritta. Ai nostri occhi e nel nostro cuore Giovanni fin dai primi accertamenti era rimasto invincibile, non c’era storia, avrebbe vinto lui. Per questo quella parola ci ha fatto sentire sconfitti due volte.
Mentre scrivo (sono le quindici e trenta) Giovanni starà ricevendo nella Chiesa di Borgo San Lorenzo l’ultimo saluto di centinaia di persone, parenti, amici, colleghi, studenti. Io sono qua a pensarli.
Ogniqualvolta una persona cara ci lascia, la nostra memoria è sollecitata a recuperare i ricordi positivi, così da spingerci spesso a idealizzare chi non c’è più.
Non per Giovanni, non si fa sforzo. Ho trascorso ieri un’intera giornata a ripensare a tanti momenti, mai è affiorato un particolare negativo, una nota stonata. Come tutti aveva i suoi difetti, ma negli individui nati per essere grandi (per intelligenza, capacità, sensibilità, ovvero quell’insieme di qualità che fa sì che abbiano una marcia in più) i pregi sono così evidenti da oscurare i difetti, che appaiono ovvi peccati veniali.
Giovanni era così, un grande. Lo era fisicamente, una presenza imponente, ma lo era per il suo viso da ragazzo pulito, per il suo carattere generoso, buono, limpido. Te ne accorgevi dal suo sorriso, che ti parlava ancor prima che ti parlasse.

Negli ultimi anni Giovanni era diventato un dirigente molto stimato, da ieri leggo articoli sulla stampa locale che ne tracciano un profilo alto. Io però non sto scrivendo per ricordare la sua professionalità indiscussa, supportata da una preparazione rara a trovarsi, ma per ricordare l’amico e il collega, visto che per anni le cose sono andate di pari passo.
Io ho conosciuto Giovanni in uno dei periodo più belli della mia vita, personale e professionale. Gli anni trascorsi insieme sono stati per me quelli più formativi in tutta la mia carriera di insegnante.

È stato circa quindici anni fa, quando sono approdata nell’AlterMondo (così l’ho definito in un racconto surreale in cui la scuola è un universo popolati da insetti), ovvero la sezione staccata del Professionale Chino Chini in via Don Minzoni, dov’era  ubicato l’indirizzo dei Servizi Sociali. Poche classi, pochi insegnanti, una custode dal sorriso materno sempre di buon umore, aule dipinte dagli stessi ragazzi. Là siamo stati una grande famiglia. Non avevamo bisogno di logorroiche quanto inutili riunioni, tra noi c’era dialogo e affiatamento, c’era confronto e stima. Ogni problema di ogni singolo allievo/a era un nostro problema e come tale andava risolto con l’aiuto e la collaborazione di tutti. E in questo Giovanni aveva una grande energia, un’energia che trasmetteva agli altri. Non avevamo il problema di gestire i ritardi, la disciplina o il rispetto delle regole, per un motivo molto semplice: tutti andavamo e stavamo volentieri a scuola, insegnanti in primis e di conseguenza anche gli alunni. Tra quelle aule senza troppi preamboli si attuavano progetti di integrazione, laboratori, il teatro, che Giovanni ha cominciato a fare fin da subito nel gruppo della scuola. Non imbrattavamo carte, realizzavamo cose in un dialogo sempre aperto: Giovanni, Rita, Francesco, Alessandra, Alberta, Donatella. Mi sentivo privilegiata per essere entrata a far parte di questo gruppo, fortunata perfino.
Lavoravamo bene insieme soprattutto perché ci divertivamo e questa è una cosa che non dice mai nessuno, il divertimento è una componente essenziale dell’insegnamento. Una cosa che, una volta persa, non ho più ritrovato e ho sempre rimpianto.
Giovanni era l’anima del gruppo, ma anche la vittima prediletta degli scherzi. Siccome prendeva sempre tutto sul serio – ma era a sua volta un buontempone – Mario e Francesco gli destinavano spesso tiri mancini, ad esempio false circolari perfettamente imitate. Ci piaceva ridere, gli piaceva ridere. Era raro non fosse di buon umore, perfino quando era preoccupato. Non c’era niente che non raccontasse. E per ridere, in quegli anni, abbiamo riso parecchio.

Giovanni era la mente, il pianificatore, l’organizzatore. Mentre chiunque stava lì a fare i conti lui aveva già pronta la soluzione. Questo lo rendeva un collega prezioso, uno che ti facilitava la vita, in grado com’era di non perdersi mai d’animo e risolvere qualsiasi problema.
Ha organizzato per la scuola diverse gite (lo so, si chiamano viaggi d’istruzione). Una tra le più belle e divertenti è stata a Parigi. Mi ricordo che una sera, eravamo in una piazza Vendome gremita, era tardi e alla luce dei lampioni, mentre eravamo sparsi per la piazza, all’improvviso sentiamo la voce robusta di Giovanni che si alza imponente declamando la sua parte nello spettacolo del saggio di laboratorio che ci sarebbe dovuto essere di lì a poco. Credo fosse la Scuola del Diavolo, quell’anno. Abbiamo cominciato a ridere a radunarci e lui in mezzo al cerchio recitava, perfino un torpedone di giapponesi si fermò, pensarono che stesse accadendo qualcosa di pittoresco. Oggi ho scoperto di avere un video di quella sera.

O come quando siamo andati alla manifestazione contro la Gelmini, a Roma, tutti sonnolenti nell’autobus (eravamo partiti alle cinque di mattina) e Giovanni non solo era vispo e pimpante, ma aveva preparato e stampato slogan e canzoni per farci arrivare preparati. Solo lui poteva pensarla una cosa così.

Giovanni era uno che amava le cose che faceva, uno che sapeva come riempierti il tempo, uno che non si tirava mai indietro. Uno che sapeva divertirsi e che amava il buon cibo e il buon bere. (Sempre a Parigi, mi viene in mente una torta flambé al Calvados: ce la siamo fatta fuori io e lui pure se eravamo satolli, ma la dovevamo assolutamente assaggiare)

Era ghiotto e lisciotto, ovvero amante dei dolci, da buon siciliano. Una volta ho rispolverato un vecchissimo ricettario ingiallito appartenuto a mia madre per trovarci la ricetta dei panzerotti, un dolce fritto fatto di pasta e farcito con una crema di ricotta, zucchero e vermouth.  Saremo stati una quindicina quella sera nella minuscola cucina a mangiare la quantità industriale di panzerotti che avevo preparato.
Giovanni mi promosse, però mi disse che al posto del vermouth avrei dovuto usare “la” Marsala, come fanno in Sicilia. Era legatissimo alla sua terra di origine, ci tornava ogni estate.

Giovanni, cosa quasi incredibile, aveva scelto la scuola ma era medico, così chiunque di noi avesse un problema o facesse delle analisi, prima di tornare o andare dal proprio medico curante chiamava Giovanni, che era un po’ il medico di tutti, il parere competente e fidato.

La sua casa era aperta, anche grazie a Caterina,  e quando ti invitava a cena a volte eravamo dieci, venti, o anche più d’estate, in giardino, la sua tavola era ricca. Era generoso. Con tutti. L’ho visto più di una volta accorgersi che qualche ragazzo aveva problemi magari a entrare in un locale o prendere qualcosa per via dei soldi, lui interveniva, rapido. Era paterno con tutti, la generosità era un suo elemento naturale come l’acqua lo è per il nostro organismo.

Quando Giovanni seppe della malattia non si nascose, non ne fece mistero. Ci telefonò, a uno a uno ci comunicò la notizia. Era addolorato ma determinato.
Mi ricordo che in quel momento accolsi sì la notizia con rabbia, ma anche con la certezza che quello sarebbe stato un incidente di percorso, una cosa da affrontare, ma senza conseguenze serie.
“Non esiste – gli dissi – tu sarai più forte della malattia.”

Ed è questo che ho sempre pensato, che abbiamo sempre pensato tutti e non solo perché volessimo crederlo. I titani sono dei, sono invincibili e lui era nostro buon titano, sapeva portare qualsiasi peso e trasformarlo in una biglia, sempre con il sorriso pronto.
Ovunque sia andato e qualsiasi cosa abbia fatto Giovanni era un vincente, grazie alla sua volontà, alla sua determinazione, alla sua intelligenza. Mente aperta, cuore grande. E adesso? Cosa faremo senza?

Si dice sempre delle persone di grande personalità che una volta che se ne sono andate lasciano un segno e non moriranno mai. Forse domani, forse col tempo. Oggi sembra ingiusto che un uomo così, in un mondo così, se ne sia dovuto andare. Se Dio lo ha voluto con sé è solo perché lassù avrà avuto bisogno di qualcuno per fare grandi cose, altrimenti non si capisce. C’era un gran bisogno di lui qua.

Da ieri il mondo è più vuoto, così come grande era la sua presenza, grande è il posto libero che ha lasciato. Uno non basterà.

Io, dall’angolo del mio dolore, non oso pensare come sarà per la sua famiglia, per Caterina, Sara, Gianluca. Sarà durissima fare i conti con l’assenza quotidiana di Giovanni. Andrà fatto.
Come lui ha fatto: ha portato in sé la malattia a testa alta, continuando a lavorare con grinta, con accanimento, fino alla fine.

Una grande lezione di lotta per vivere. Una grande esempio di voglia di vivere. E credo sia quella la strada che ha tracciato: la sua tenacia, il suo amore per la vita, l’onestà dell’azione.
Tu pensavi, lui agiva, sempre un passo davanti agli altri.
Giovanni continuerà a precederci ovunque sarà andato e noi da qui lo ameremo come lo abbiamo amato in vita. Come qualcuno che non si dimentica, qualcuno dal quale abbiamo imparato, come le persone necessarie.

Solo un’ultima cosa: ho fatto i panzerotti una volta sola nella mia vita. Non li farò mai più. Quelli sono stati per Giovanni.

Prima Teatrale Marradi 02-05-2010 112

MIO PADRE

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La direzione in ordine sparso

Mio padre, quando d’estate noi eravamo in vacanza,  partiva tutte le mattine alle sette e tornava tutti i pomeriggi alle tre  con lo stesso autobus. Mia madre lasciava mezza tavola apparecchiata per lui e di solito dopo aver pranzato si cambiava e andava al bar a giocare a tressette, la sua passione.

A volte là dentro perdeva il senso del tempo e allora mia madre mi spediva a chiamarlo. Dietro il bar c’era una stanza piena di fumo e di uomini, alcuni giocavano ai tavoli, altri stavano in piedi o seduti a guardare. Qua e là c’erano bottiglie di birra vuote.

Mio padre non è mai stato né un fumatore né un bevitore, a parte qualche birra e qualche bicchiere di vino a tavola, o un grappino dopo i pasti. Ma era un giocatore accanito, di quelli che litigavano ad alta voce per una carta sbagliata. Per come si può litigare giocando a carte con gli amici perdendo una birra.

Mio padre è sempre stato un uomo morigerato in tutto, serio, severo. Non sapeva neanche ridere. Aveva una risata sgangherata e sofferta e quando rideva forte si grattava la testa. Rideva per cose sciocche, che piacevano solo a lui. Le comiche, Buster Keaton, Stanlio e Onlio. Gli piaceva Jean Gabin – un grande attore, diceva – e i western, mentre non amava affatto le commedie e i film d’amore. Mia madre diceva che gli piacevano le cose con ammazzatine continue.

Mio padre soffriva d’insonnia, tutte le settimane comprava la settimana enigmistica e faceva i cruciverba dal primo all’ultimo, eccetto quelli facilitati, quelli potevamo farli io o mio fratello. Li scriveva a lapis, e quando qualcosa non tornava conservava il numero fino alla prossima uscita. Poi puntualmente controllava e li ripassava a penna.

Mio padre aveva una scrittura illeggibile, anche se non era medico, in compenso a macchina batteva velocissimo. Quando andavo a trovarlo nel suo ufficio mi piacevano soprattutto due cose: girovagare tra i corridoi degli scaffali dell’archivio, dove erano ordinate in faldoni bianchi tutte le pratiche che odoravano di carta vecchia e a me sembravano giganteschi, e battere sui tasti cercando di comporre le parole, lettera dopo lettera. Tic tac tic. Mi piaceva il suono e poi mi sentivo importante, le gambe non arrivavano a terra, la sedia di pelle era troppo grande, ma quella era una cosa meccanica mio padre l’adoperava e io sapevo farla funzionare.

Mio padre non guidava la macchina, non ho mai capito perché, smise di guidare e vendette la macchina prima che io nascessi, per cui mio padre al volante io non l’ho mai visto. In compenso era un maratoneta, andava a piedi ovunque. Aveva gambe magrissime e veloci.

Mio padre lavorava come un matto e credo che in questa vita gli importasse una cosa sola: che i figli studiassero. In tutti gli anni di scuola non ha mai perso un colloquio con un insegnante, poteva non comprare un giocattolo, o un vestito, ma i libri no, quelli dovevamo averli. Avevamo un conto aperto  in una libreria sul corso, c’era un vecchio bancone di legno, la libreria Minerva, l’anziano proprietario sempre con la sigaretta accesa tra le labbra e il commesso, un ragazzo riccioluto con gli occhi piccoli e celesti, magro, sembrava una civetta, aveva un’aria timida e dimessa. Lì potevamo andare a prendere da noi non solo i libri di scuola, ma anche i romanzi da leggere, mio padre poi avrebbe pagato a rate. Una volta di ritorno da un  viaggio a Firenze tutto contento mi portò un tomo: tutti i racconti di Gogol. Per dire.

Mio padre faceva politica, era democristiano, ma non gli è mai piaciuto esporsi, era da retroguardia, mentre per l’Azione Cattolica era, diciamo così, operativo, ne è stato presidente credo più di una volta. Ha fatto la campagna contro il divorzio e ci voleva tutti insieme a messa il giorno della sacra famiglia, che non ricordo più quale sia. Io sbruffavo, ero già un’adolescente inquieta, ma non  c’era verso, su certe cose con lui non potevi discutere.

A mio padre non importava un fico secco dei vestiti, era spartano in tutto, ma vestiva bene grazie a  mia madre che gli lasciava i vestiti puliti e i ricambi ben stirati, sistemati e intonati. Diceva sempre che mia madre era capace in tutto, perfino con i soldi era più brava. Infatti li gestiva lei, che da casalinga amministrava la famiglia (e cinque figli non erano uno scherzo)

Quando qualcosa non andava invece mio padre non è che parlasse granché, a lui bastava uno sguardo. Poteva ammazzarti con uno sguardo. E tu capivi al volo.

Mio padre però amava i fiori, quelli veri, tutti. Nella casa dove sono nata avevamo un giardino e lui coltivava le rose, faceva innesti, voleva fare una rosa nera. Detestava invece i fiori finti, diceva di essere allergico, ma nessuno c’ha mai creduto. Una volta alla vigilia di natale trovò la tavola apparecchiata con al centro delle rose finte, rosse. Se ne uscì sbattendo la porta inscenando una specie d’attacco d’asma, imprecando contro mia madre che a suo dire lo faceva apposta. Poi però è tornato, ma dopo averci fatto penare un bel po’.

Mio padre non si ammalava mai, né prendeva facilmente medicine, non si assentava mai e poi mai dal lavoro. Io a  letto mio padre non me lo ricordo proprio, se aveva mal di testa o mal di denti diceva che tanto doveva passare. Solo una volta in cui si trinciò una mano con un vetro rotto, uno squarcio serio, andò in ospedale per i punti, ma il giorno dopo era dove doveva essere. Aveva un senso del dovere inesauribile, mai una deroga.

Mio padre non amava il mare e diventava rosso come un peperone anche se stava tutto vestito sotto l’ombrellone, non l’ho mai visto bagnarsi. Al mare noi andavamo con un autista. Ci veniva a prendere tutte le mattine, ci lasciava davanti allo stabilimento poi ci veniva a riprendere a fine mattina per riportarci a casa.

Amava invece la montagna, il paese dov’era nato. Là trascorrevamo tre mesi circa d’estate, lui in verità meno di uno, quello che aveva di ferie. Il resto del tempo viaggiava con l’autobus.  Quand’era in ferie tutte le mattine usciva con mia madre alle sette, noi ancora dormivamo. Andavano a fare il giro del cappuccio, ovvero una cosa come otto chilometri a piedi. Alle otto erano di nuovo a casa. Lui preparava la colazione (lo faceva sempre, anche d’inverno) di solito zuppa di latte con il pane tagliato piccolissimo (tagliava tutto piccolissimo) o l’uovo sbattuto che lì era sempre fresco.

Mio padre cucinava spesso: al sabato sminuzzava verdure d’ogni sorta e preparava un passato di verdure in un pentolone stile reggimento che  andava per tutta la settimana, alla sera. La sua specialità però erano le tagliatelle. La domeniche si alzava presto e lo sentivi rovistare nel ripostiglio per tirar fuori il timpagno, ovvero la tavola di legno sulla quale impastava e sfilava le tagliatelle. Guai a toglierlo da quella missione. La domenica erano tagliatelle a tutti i costi.

Mio padre era un cercatore di funghi accanito, tanto che quando la stagione era buona noi non ne potevamo più di mangiare ovuli e porcini in tutte le salse (oltre quelli che stazionavano in giro a seccare per finire sotto vetro per l’inverno). Andava al mattino presto, e qualche volta andavo anch’io, mi insegnava dove e come cercarli, saltando da un punto all’altro come un folletto impazzito, facevi  fatica a stargli dietro.

Gli piacevano i gialli, li divorava di notte, io non ho mai capito come facesse a dormire così poco. D’inverno poi s’alzava all’alba per mettersi a lavorare prima di andare in ufficio. Diceva sempre che il giorno in cui avrebbe smesso di lavorare sarebbe morto. E un po’ è stato così.

Mio padre era onesto da fare quasi schifo a me è rimasta sempre la curiosità se quest’uomo così integro qualche volta nella vita abbia sgarrato, si sia sottratto a una regola o abbia derogato a un impegno. Per quel che so e ricordo no, mai.

Gli piaceva Carosone, comprava tutti i suoi dischi, a 75 giri, e poteva ascoltare all’infinito Ridi Pagliaccio, che è poi l’unica cosa che gli ho sentito cantare, e meno male perché intonato non era.

Mio padre, orfano di madre, è stato un figlio abbandonato dal padre all’età di dodici anni.

Magari chissà, se fosse nato oggi, sarebbe diventato un drogato, o uno scapestrato, insomma un caso difficile.

Invece no, è stato un uomo, come si dice, tutto d’un pezzo.

 

L’etica è un orso duro

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Vietato ruttare

E sì, perché non appena ti provi a “pensare” cosa è giusto e cosa non lo è, è come trovarsi davanti a un orso incazzato da soli in un bosco. Qualsiasi mossa può essere fatale. Qualsiasi cosa si dica può far presupporre che anche il contrario sia possibile. Sono sempre temi importanti, delicati.
Non trovo fuori luogo che ognuno dica la propria: è in atto un cambiamento così evidente e macroscopico che nessuno si sente immune. Ciascuno ha la propria opinione da esprimere.
Quello che trovo inaccettabile sono i toni, il solito insopportabile bar sport, i soliti politici che di morale non hanno nemmeno l’elastico delle mutande eppure sono là, sempre in agguato con le loro frasi volgari, scomposte. E quel che è peggio noi diamo voce a questi coglioni senza memoria. Condividiamo i loro post, li facciamo circolare. Sogno un mondo in cui i cretini possano essere sconfitti dal silenzio, dall’indifferenza, ma questo in epoca di social network è evidentemente impossibile. Sgarbi è un comunicatore, sa bene che se dice che i bambini si attaccano alle mammelle e non ai coglioni farà presa. E infatti così è.
Circolano cifre, quanto ha pagato Vendola, quanto costa un utero. Preti che parlano di anticapitalismo, fascisti che invocano le femministe, vignette con i comunisti che non mangiano più i bambini ma se li comprano.
Se il prologo all’intervista di un sacerdote, del quale non discuto l’opinione, sacrosanta come le altre, è “Durissimo attacco di Padre Maurizio Patriciello, il celebre prete che difende le vittime “della terra dei fuochi”, nei confronti di Nichi Vendola, il fondatore di SEL (Sinistra Ecologia e Libertà) che in Canada, insieme al compagno, ha comprato, per 135mila euro, il figlio di una povera donna di origine indonesiana, autodichiarandolo “suo figlio”.
Uso il verbo “comprato”, metto una cifra (ma ci sono prove? e allora le cito) e uso un aggettivo “povera”, in più metto “di origine indonesiana” e magari è nata in Canada, ma intanto ce la siamo immaginata incinta in una capanna a piangere in mezzo al fango per essere stata costretta a quel gesto dalla necessità, ecco che il gioco è fatto. L’opinione del sacerdote già è messa sotto una luce tale da essere conseguenza di quella premessa.
Io non so cosa pensare dell’utero in affitto, quello che penso del desiderio legittimo di paternità o maternità l’ho già scritto sulla mia pelle. Io non sento sempre il bisogno di giudicare.
Ma so una cosa: dove sono tutti quelli che inveiscono e urlano e giudicano quando i bambini affogano nel canale di Sicilia? Dove sono quando i bambini che non hanno chiesto di venire al mondo in India e altrove vengono rapiti per farne carne da macello per il trapianto di organi? Dove sono quando ogni giorno nei paesi in guerra ne muoiono a centinaia e migliaia? Hanno forse chiesto di nascere in un tal mondo? Durano giusto il tempo della commozione di una foto su fb. Un tempo tutto emotivo. Ma le coscienze? Le coscienze dormono, anche quando andiamo a comprare un paio di scarpe ben sapendo che dietro ci sono le mani sfruttate di minori.
L’etica è materia delicata, richiede conoscenza, riflessione, non è pancia, è testa. Dunque mangiate felici e risparmiateci i vostri rutti.

Chi sei tu per dire chi deve o non deve avere figli?

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(Vaffanculo) Ecco. L’ho detto

Scrivo questa nota sotto l’effetto della rabbia (quindi perdonatemi l’enfasi) per alcuni articoli che esprimono giudizi giudizi e ancora giudizi. Come se fossero Dio nel giorno del giudizio universale in nome di una morale sulla quale molto ci sarebbe da dire, riversano le loro parole come se fossero sassi pronti a colpire.
Nichy Vendola ha avuto un bambino, ha realizzato il suo sogno di essere padre con il suo compagno. Lo ha fatto con l’utero in affitto. Nichy Vendola ha avuto la fortuna di avere abbastanza soldi per realizzare il suo sogno ed è andato negli Stati Uniti. Tornerà in un paese dove non potrà essere legalmente il padre di quel bambino ma intanto lo stringerà tra le braccia.
Nichy Vendola (che qui non cito in quanto politico, sia ben chiaro) tempo fa aveva dichiarato: tutte le volte che sento di un neonato abbandonato in un cassonetto vorrei correre lì a proteggerlo.
Ebbene, provo sempre la stessa identica cosa. Nessuno meglio di me può comprendere.
Chi mi conosce sa che non ne parlo volentieri, ma nemmeno ne faccio mistero, due giorni fa Natalia Aspesi ha scritto che finalmente le donne possono realizzarsi senza figli, che la maternità non è un obbligo. E concordo in pieno. Nel mio caso però una serie di circostanze mi hanno condannato a vivere con questo rimpianto per sempre. E ho usato quella parola non a caso: condannata. CONDANNATA.
Chi siete dunque voi, che avete abbracciato i vostri figli mentre crescevano, che vi siete sentiti chiamare “mamma” o “papà” a decidere chi ha e chi non ha lo stesso vostro diritto? Quale Dio in terra credete di rappresentare negando ad altri il diritto di amare una creatura?
La famiglia è un totem intoccabile, strano, eppure ci sono migliaia di famiglie “tradizionali” all’interno delle quali si consumano le peggiori frustrazioni e tragedie. Ma fa parte del gioco, quei tabù che si difendono a spada tratta perchè così dev’essere. Come può crescere un bambino con due padri o due madri? Benissimo, se è amato. Siamo noi che imponiamo le nostre regole ai bambini. Siamo noi che creiamo la diversità. Sta forse meglio quel bambino che vede picchiare la propria madre? Sta forse meglio quel bambino la cui madre non lo ama ma si trova accanto a lui perché in qualche modo costretta e tutti preferiscono fare finta di niente? Stanno forse meglio quei bambini che crescono con genitori distratti e attenti ai loro bisogni e che nessuno tanto mette sotto esame?
Tempo fa non ricordo in quale trasmissione ho seguito un racconto di due omosessuali che allo stesso modo di Vendola sono andati in America. Una storia molto bella, la donna che si è prestata era già madre di due figli. Due coppie che hanno vissuto insieme quella scelta e ne sono nati due gemelli. La donna ha raccontato come è arrivata a concepire un figlio da “donare” a due persone che giudicava all’altezza di amare quel bambino. Quale atto d’amore più bello, ditemi, può esserci? Hanno intervistato perfino i nonni che fanno il loro mestiere di nonni con due nipotini. Cosa c’è di aberrante?
Aberrante è la storia che racconterò domani, anzi, l’ha raccontata Ludovica Candiani nel suo libro Nonostante. Domani uscirà l’intervista per Un libro in 3D. Consiglio vivamente la lettura di questo libro, Ludovica è stata coraggiosissima a raccontare la sua storia, la sua crescita in una famiglia “normale” e non dico altro.
E mi viene in mente, molti anni fa, una mia amica che ora non c’è più, che voleva un figlio. Quando con il marito tentarono l’adozione andò all’estero tramite un’associazione. Mi raccontò al ritorno che non ce l’aveva fatta, che l’avevano portata in un istituto e le avevano fatto vedere tanti bambini, lei avrebbe dovuto scegliere quale portarsi a casa. Ebbene, fu schiacciata dal peso della scelta. Mi disse che le sembrò di comprarselo quel bambino e che si sarebbe portata dietro lo sguardo delle altre decine di bambini che stavano lì a fissarla.
Io stessa molti anni fa avevo preso in considerazione l’idea dell’adozione, ma ci volevano soldi. Li avrei trovati, ma avrei potuto adottare un adolescente perché la differenza di età tra me e mio marito era tale per cui il parametro diventava lui. Questa è, o per lo meno era, la burocrazia delle adozioni.
Di cosa parlate dunque?
La regola è una sola: l’amore. Non ne esistono altre.
Quindi, chiunque si scagli con i suoi giudizi arrogandosi il diritto di scegliere per gli altri e di decretare ciò che è giusto e ciò che non lo è, alla sera, quando mette a letto suo figlio/a, per piacere, pensi almeno una volta che quello è un diritto ad amare che abbiamo tutti.
Solo chi non ce l’ha e ha perso questa  opportunità come io stessa l’ho persa, può comprendere. Le altre sono parole inutili e cattive. Come è cattiva una società che non sta dalla parte dei bambini, ma dalla parte ancora dei tabù che pretendono di decretare la felicità e l’infelicità altrui.

E vaffanculo.

 

Don Rodrigo esiste e vive in mezzo a noi

Copia di donrodrigo.jpg
Don Rodrigo

La porta si spalanca  e si materializza una figura in controluce. Tutto si ferma, si trattengono i respiri. Tremano perfino i giusti, gli onesti, i puri: potrebbero essere incorsi in qualche ingenuo errore ed essere puniti.

Don Rodrigo è ovunque e questo lo rende insidioso e difficile da contrastare. Non è più il signore che vive nel suo palazzotto in cima alla collina circondato da brutta gente. Don Rodrigo si è disciolto in mille rivoli, insinuato nei gangli di qualsiasi piccolo e grande potere. Ci tiene in smacco. I suoi bravi non hanno più bisogno di un Griso che li comandi, hanno imparato come difendere il potere del loro signore e padrone. Non hanno bisogno di armi e spesso ne usano una dall’apparenza innocua ma in realtà micidiale: una penna, un pc, o uno smartphone. Sono i bravi più pericolosi, gli imprendibili.

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Don Abbondio

Ma Don Rodrigo esiste perché esiste Don Abbondio. E anche Don Abbondio si è moltiplicato, migliaia di cloni, un esercito sistemato con cura nei punti strategici. Stanno in giacca e cravatta nei consigli di amministrazione delle banche, a dirigere aziende pubbliche e private, enti e partecipate, ma anche in uffici pubblici e scuole, rappresentano il cordone protettivo tra i grandi e piccoli poteri e noi.

Non si deve avere curriculum per diventare Don Abbondio, anzi. Lo scelgono nelle amministrazioni comunali, regionali, nazionali soltanto se ha fame di prestigio e buona dose di ambizione. Non sono cuor di leoni, ma vasi di terracotta costretti a viaggiare con molti vasi di ferro.

Forse noi che stiamo dall’altra parte del potere pensiamo di essere liberi, scriviamo il nostro post o il nostro tweet e sono ben 140 caratteri di libertà.

Don Rodrigo alle nostre spalle se la ride, una risata grassa. Sa di essere intoccabile. La spada che potrebbe ucciderlo è neutralizzata. Per questo è tanto più arrogante e pericoloso. A ogni risata di Don Rodrigo corrisponde uguale e simmetrica il sorriso di approvazione dell’esercito dei Don Abbondio.

Italiani brava gente, si dice. Infatti Don Abbondio a noi è simpatico.

E Don Rodrigo questo lo sa.

 

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Io e Pino: a me me piace ‘o blues

 

20150105_37968.jpgSu facebook è impossibile dimenticare una scadenza, è come un esattore. Così sono molti i post che ricordano che un anno fa è morto Pino Daniele. Già un anno? Ti chiedi. Sì. Il tempo corre molto più velocemente di te, che non ce la fai a stare al passo.
Mentre scrivo non c’è una canzone di Pino a tenermi compagnia, ma il vento. Un vento che si insinua nei buchi, negli spiragli, che si abbatte sugli alberi e sulla casa. E per una che molto tempo fa sul vento c’ha imbastito un romanzo potrebbe sembrare una iattura. Invece è una bella sensazione lasciarmi accompagnare da una danza impetuosa che là fuori sta sovvertendo qualsiasi ordine naturale.
Quel romanzo era la storia di un nome palindromo, Anna. Quando è stato pubblicato non ho potuto pensare ad altro che ad Anna verrà, di Pino Daniele (non a caso dedicata ad Anna Magnani) e l’ho voluta nella pagina iniziale. Un piccolo, umile tributo.

Oggi è stata anche la giornata dei post dedicati alle analisi del successo strepitoso di Checco Zalone al cinema, a cominciare dal post del Ministro della Cultura Franceschini che dice fa bene al cinema. Non è che potesse essere diversamente visto che era praticamente programmato in un terzo (o più, non sono brava con i numeri) delle sale del regno. Comunque non ce l’ho con Checco Zalone. Se mai con quelli che appena l’Italia ride dicono sia di destra e se ne appropriano. Oppure quelli che dicono evviva la gente esce di casa e va al cinema, è merito della sinistra. Puah! Direbbe Paperoga appena un poco sveglio. Puah! Dico pure io. Sos alla nazione, fatte na’ pizza co’ a pummarola in coppa. Direbbe Pino.

Un anno fa, quando Pino Daniele è morto, ho pianto. Come se fosse morto un fratello, o un amico, qualcuno che senti ti era vicino insomma. Prima di lui mi era successo soltanto con Troisi e Marcello Mastroianni. Quando senti che una parte di te se ne va e non sarà più come prima.
A Pino – come lo chiama un mio amico che l’ha conosciuto bene – mi legano ricordi lontani: il primo è la “mia” notte prima degli esami, il secondo nella mia testa è una foto in technicolor nella quale su un lungomare è immortalata una cinquecento con un altoparlante e l’ultimo ha un inconfondibile odore di mortadella.
L’altoparlante va per le strade pubblicizzando un concerto di Pino Daniele al campo sportivo. Io stavo in quella macchina, insieme ad altri. Puzzavamo di vita, di sole, di mare, d’estate.
Il giorno del concerto, al mattino, casa mia – complice l’assenza dei miei genitori – si trasformò in una sorta di paninoteca (che allora non esistevano) sacchi di panini e chili di mortadella e altre amenità per farcirli. L’odore mi è rimasto addosso per settimane. La sera avremmo venduto quei panini al concerto.  Il ricavato serviva al circolo. Si faceva politica anche così allora.
La notte prima degli esami fu l’anno seguente, l’anno della mia maturità, quando quel concerto fu replicato, ma a me non fu permesso di andarci perché il giorno dopo avevo la prova orale. Era il 23 luglio. Del mio esame ricordo poco, ma ricordo bene che accusai il colpo per aver perso quel concerto.

Pino Daniele l’ho rivisto a Firenze, al Palasport: era una kermesse alla quale partecipavano alcuni tra i migliori chitarristi del mondo. L’unico italiano era lui.L’unico autodidatta, probabilmente, com’era Pino Daniele. Il grande talento è una brutta bestia, non si vende e non si compra. Si possiede come un demone, nel sangue, non si scappa.

Alla fine del concerto nel campo sportivo della mia gioventù Pino Daniele mangiò praticamente da solo un vassoio di arancini, mentre qualcuno raccontava che Toni Esposito quel pomeriggio aveva suonato con i veli delle cipolle. Toni sorrideva e Pino mangiava.

Da allora è passato molto tempo e molta strada. Quel ragazzone napoletano un po’ buzzurro è esploso nel mondo e noi tutti gli abbiamo voluto sempre un gran bene, come se ne vuole a una persona, non a un cantante che ascolti di tanto in tanto. Abbiamo ascoltato la sua musica e le sue canzoni, abbiamo consumato musicassette ed LP. L’abbiamo sentito spaziare nei generi musicali e infine l’abbiamo visto ammalarsi.

Non sono in grado di sapere se tra venti o trenta o quaranta anni qualcuno si ricorderà di aver riso a crepapelle con Checco Zalone in una stagione della sua vita.
So che sono qui ad ascoltare il vento e a pensare che nemmeno questo vento può rovesciare un vuoto e trasformarlo in qualcosa di diverso.

A me me piace ‘o blues, e tutt’e juorne aggia a cantà pecchè so stato zitto e mo è ‘o mumento ‘e me sfuga’. Sono volgare e so che nella vita suonerò pe chi tene ‘e complessi e nun’ ‘e vò…
Pecchè so’ blues e nun voglio cagnà’

A Pino, alla sua fame di arancini e a noi che l’abbiamo visto mangiare.

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Partitura a parole

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Le parole sono come le note: da sole non hanno alcun senso, ne dobbiamo possedere un certo numero per scrivere una partitura.

Noi dipendiamo dall’aria che respiriamo e dalle parole che pronunciamo, fin dalle prime che emettiamo ancora neonati, piccoli suoni che rotolano tra le labbra. La nostra esistenza dipende dall’ossigeno dell’aria e la nostra vita dipende dalle parole che impariamo. Nel primo caso è una necessità, nel secondo caso un’emergenza che ci fa uscire dal caos e definisce il nostro senso.

Penso stasera a quel piccolo angelo: se avesse avuto le parole giuste per farsi ascoltare, se la follia di chi l’ha ucciso le avesse avute per farsi curare. Se un padre assente le avesse avute per non nascondersi come su tutto dovesse essere fatale.

E ancora.

Pensate se solo si potesse inventare una sorta di microchip che cancelli dalla mente degli uomini la parola “odio”. E poi in un cammino a ritroso la parola “armi”, e ancora indietro le parole “lobby”, “mercato”, “profitto”. Proprio cancellate dal patrimonio lessicale con un tasto nella testa di chi le produce. Bel sogno, avremmo debellato la guerra, almeno come la conosciamo oggi.

E ancora.

Se l’uomo che picchia la “sua” donna avesse le parole, non userebbe le mani. E se quella donna che le prende conoscesse le proprie saprebbe difendersi, o quanto meno chiedere aiuto finché è in tempo.

E ancora.

A volte guardo certi visi smarriti di ragazzini che arrivano sui banchi in una prima, ogni anno ce ne sono diversi. Li riconosci al volo: non alzano continuamente la mano, non ciarlano, non sbeffeggiano, non imprecano. Aleggiano con gli occhi in un loro mondo liquido. Tu sai che nella migliore delle ipotesi hanno già la strada segnata e sai anche che quello che devi fare in fondo è semplice: devi restituirgli le parole, solo quelle. Loro parlano solo se interpellati, per lo più balbettano, dietro quei suoni disarticolati quasi certamente c’è una sciagura, perché questa “è” la scuola dei sciagurati, quelli a cui è stato detto che non sono fatti per i libri ma per il lavoro.

In ogni caso, sia come sia, le parole servono, comunque. Serviranno a quel ragazzino per imparare a difendersi, per orientare la rabbia, per strapparsi da dosso il marchio maleodorante dell’inadeguatezza, per esprimere i sentimenti, per imparare ad amare.

Le parole sono ciò che ci fa conoscere la bellezza, le parole per dirlo. Tutto, niente, qualsiasi cosa.

E ancora

Le parole, quando mancano, definiscono le storie finite, quando è il vuoto che ti assale e quelle non ci sono più. Se ne sono andate, forse saggiamente.

Se capita di attraversare un tunnel buio a piedi scalzi siamo portati a concentrarci sui nostri passi, che il nostro piede si posi per provare meno dolore possibile. Siamo così concentrati in quella operazione che non cerchiamo “altro” o “altri”. Non parliamo e quasi sempre quel tunnel sarà più lungo quanto più lungo durerà quel silenzio.

Sono le parole che ci svelano, dentro agli sguardi che raccontano, e ancora, sono le parole che ci liberano, un concerto di suoni possibile solo se abbiamo imparato a suonare quello strumento, quello che abbiamo scelto, che ci piace, ci dà consapevolezza della nostra espressione.

E ancora

È nella parola detta che incontriamo la parola dell’altro, in una cosa che si chiama, semplicemente: dialogo.

INVETTIVA ovvero La caccia non è una forma naturale della lotta per l’esistenza, ma un ritorno volontario allo stato selvaggio. (Lev Tolstoj)

topicIl tuo cane di solito è rinchiuso in casa o nella cuccia, spesso si sente piangere, perché sta da solo la maggior parte del tempo. Poi però una bella mattina quel cane conosce la libertà, può uscire e correre. Ma non è una vera libertà, è quella che tu gli concedi in cambio della sua fedeltà al compito che gli hai assegnato e per il quale lo hai addestrato. Dovrà dimostrare di essere riconoscente portandoti in pegno la tua preda.

cane caccia

Ti vedo uscire al mattino presto quando tutto intorno ancora è immobile, con il tuo cane e il tuo fucile in spalle. E mi sembri un coglione con quell’abbigliamento da negozio sportivo apposito. Perché mai devi vestirti in questo modo ridicolo? Non stai mica andando in trincea a fare la guerra. Cos’è, se il nemico ti riconosce, ti avvista,  è armato e può forse colpirti?

Molti tuoi compari sostengono sia una sport, uno svago contro il logorio della vita moderna.  Ma se è così allora alzati presto, fai sport pulendo la casa e la cucina, fa’ il caffè a tua moglie, portarglielo a letto, sveglia i tuoi figli, andate a fare una bella passeggiata all’aria aperta. Al limite andate alla messa.

Ma no. A te piacciono le cose che si fanno tra uomini , ti piace stare con gli altri uomini cacciatori come te. Ritrovarvi nella piazzola tutti insieme, bardati di cartucce nei gilet e con gli stivaloni…  viene da chiedersi: ma non potevate drogarvi come tutti quegli altri?

Certo, l’uomo è cacciatore, è una questione di natura, di istinto.

Sicuro, ma il fatto è che quando siamo apparsi sulla terra lo siamo stati per necessità. Invece tu, pensaci un attimo, vai a caccia con la macchina, il gps, il cellulare, il tablet. Tu fai la spesa al supermercato e hai l’abbonamento satellitare a sky per il calcio la domenica.

Non ti dice niente?

Evoluzione-umanaTe lo spiego meglio: nel frattempo quello di Neanderthal è arrivato sulla luna, ha inventato la lavatrice, le mutande, la bomba atomica, la sega a tazza, le macchine digitali e gli aeroplani.

E se ancora non ti è chiaro aggiungo: una parte considerevole di quelli di Neanderthal  (diciamo una parte, perché mi sa che tu sei rimasto in quella rimanente) ha sviluppato una parte del cranio a svantaggio della mandibola (che è il motivo per cui tu vai a caccia, la sede vera della tua ginnastica)

In quella parte c’è una sostanza molliccia a te ignota che si chiama cervello e con quello abbiamo fatto un sacco di cose, non tutte belle per carità.

È vero che c’abbiamo inventato pure le armi che non è stata un’idea geniale, ma è anche vero che tu – vigliacco tra i vigliacchi – quelle armi le usi contro chi armi non ha. Non sei quello con l’uccello al vento che rischia d’essere attaccato da un animale feroce ed è questione di te o lui.

caccia mufloneTu sei quello con le mutande che pensi di aver dominato la natura, salvo poi lamentarti del troppo sole del troppo freddo della troppa pioggia delle troppe inondazioni delle troppe macerie.

Tu credi d’averla vinta la natura con la sacca piena di cardellini e lo spiedo pronto, o il daino da fare a pezzi o il fagiano impalato. Torni a casa con il petto gonfio come un tacchino (e in questo caso meno male che hai i vestiti mimetici!) caccia1capriolo-caccia-2

 

 

Sta’ attento piuttosto: pare che sia uno sport rischioso, solo quest’anno sono già morti 23 cacciatori come te, la maggior parte sparati dal compagno per colpo partito accidentalmente.

Se, invece, ancora pensi che  il rischio è il tuo mestiere, allora – perdona – non ti auguro buona fortuna.

( e comunque potresti sempre piantarti davanti alla tv con tutta la serie di dvd  di James Bond).

 

Oppure, quanto meno ricordarti che

89749_425039_caccia15_5_7855961_medium“Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo, il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale”. Michael Vronsky (Robert De Niro), in Il cacciatore, 1978

 

 

O come dice più saggiamente il proverbio:

Chi va dietro a lische o penne perde più di quel che prende.

Vagabondando

542012172857aCerte volte i pensieri girano in testa, vanno e vengono, e come certi denti doloranti vanno estratti con la radice, poi, si ricomincia a ragionare sul da farsi.
Qualche mese fa ho partecipato ad un concorso letterario indetto da una buona casa editrice. Non avevo in realtà un’opera pronta da presentare, ma – poiché non disdegno di essere giudicata perché chi scrive alla fine ha bisogno di chi legge – avevo in testa un progetto e dei racconti già scritti, così li ho messi insieme e li ho inviati. Ero del tutto consapevole che non fosse un’opera compiuta, mi interessava più che altro ricevere la scheda di lettura che prometteva quel concorso che, puntualmente, è arrivata.
E – per la seconda volta (la prima risale a qualche mese prima) in pochi mesi – sono rimasta perplessa. Mi piacerebbe molto interloquire con chi scrive queste schede, mi piacerebbe molto capire, so bene che spesso è una faccenda di gusto personale, ma i giudizi sono generalmente al contrario strutturati da sembrare tecnici, scritti da “esperti”.
Interloquire è impossibile perché il limite di queste faccende è che è grasso che cola se ti scrivono due righe avendo tu pagato una quota non irrisoria.
Così è davvero difficile capire se quello che hai scritto (pur conoscendone tutti i limiti, infatti non sei tra i vincitori e questo va bene) è buono o non lo è.
Nella fattispecie era un progetto in cui volevo raccontare l’amore in modo trasversale: l’amore che c’è, quello che manca, quello che trasforma, quello che distrugge.
Una donna ai primi del Novecento che fugge da un matrimonio combinato e un suocero potente che vuole lei per raggiungere l’uomo che ama, emigrato a New York.
Un uomo deforme che ama la grammatica.
Una donna che ritrova la vita in fuga dall’esistente.
Un anziano che uccide la moglie che l’ha oppresso tutta la vita.
Un bambino a letto prima di dormire che aspetta inutilmente sua madre per la buonanotte.
Un uomo abbandonato e distrutto da una bellissima moglie ambiziosa.
Una donna ancora giovane con un marito che vive in una struttura ridotto a un vegetale.
Ognuno un proprio stile e una propria voce narrante.
Mi dicono che l’idea è buona (e questo me lo sento dire spesso), ma non il linguaggio, che presenta troppe differenze di stile (ma era proprio quello che cercavo!); mi si rimprovera l’uso di dialettismi (cacchio, ho lavorato un sacco sulla lingua di quel racconto, intrecciando il dialetto e italiano) e mi si dice che il racconto del bambino è un flusso di coscienza senza segni di interpunzione (appunto, chiamasi flusso di coscienza) a parte un punto e tre puntini sospensivi che, “si sa, appartengono a Céline, e non c’è ancora al mondo scrittore che se ne possa impadronire
Mi chiedo: e se avessi voluto invece ispirarmi a Joyce? Non vale?
Le domande comunque, questa come altre, sono senza risposta e dunque io… monologando vo’…
Con buona pace di Céline che, spero, non me ne vorrà.

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