MI CHIAMO VLADIMIRO, HO SEDICI ANNI

È la sesta ora e non ne posso più. Lento è ancora lì alla lavagna che fa cerchi e triangoli, ma cosa c’ha nella testa? Se invece di darci le spalle si voltasse e si guardasse intorno si accorgerebbe di come vanno le cose. Stancanelli è al cellulare che gioca, Muraro chatta con la fidanzata, Mattei sta sprofondando nel sonno eterno. Non ce n’è manco uno ad ascoltarlo. A parte Ferraro e Muraca, che si sa, nella vita non hanno un cazzo da fare quindi studiano e sono i cocchi dei professori. In tutte le classi ci sono quelli come Ferraro e Muraca, che poi sono quelli che fanno sentire i professori onnipotenti, giusti insomma.
Le gambe sotto il banco mi tremano, sono già due volte che Vauro mi chiede di smettere. Dice gli sembra ci sia un terremoto e si impressiona.
Vauro è il mio compagno di banco, un tipo mica tanto sveglio. Uno spilungone con gli occhiali e gli occhi chiari che quando parla lo fa senza muovere le mascelle. Sembra sia mosso da un ventriloquo. Credo me l’abbiano messo accanto perché mi considerano uno agitato, così con lui non posso parlare. Cosa gli vuoi dire a uno che si chiama Vauro e sta impalato sei ore su sei?
Una volta gliel’ho anche chiesto da dove venisse quel nome strano, io pensavo di aver capito male, credevo si chiamasse Mauro. Invece no, ha specificato lui con aria da precisino, Vauro. Con la V. Poi ho capito a malapena che era il nome di suo nonno. Bella scoperta! Il novanta per cento della popolazione porta il nome del proprio nonno, è che io Vauro non l’avevo mai sentito prima. Comunque tutto sommato gli è andata bene. Figuriamoci se il nonno si fosse chiamato che so, Evaristo o Ermenegildo.

«Allora, tutto chiaro?»
Lento si è voltato di scatto, nell’aula c’è stato un sussulto simultaneo, come un’onda. Tutti hanno fatto sparire i cellulari sotto il banco, via i giochi, il fantacalcio, le foto porno, le fidanzate in linea. Tutti con gli occhi puntati alla lavagna e i quaderni davanti. Mattei al secondo banco il sussulto non ce l’ha avuto. Si è addormentato proprio. Si è svegliato perché il compagno di banco gli ha dato una gomitata. Ha sollevato la testa e si è guardato intorno. Sembra una bertuccia intorpidita che ha avuto un risveglio brusco. Soltanto Ferraro e Muraca rispondono un sì convinto. Talmente convinto che il professore si va a sedere soddisfatto.

Ma quando finisce? Non ne posso più. Mancano venti minuti e sembrano un’eternità. L’ultima ora non passa mai.
«Allora per la prossima volta fate gli esercizi a pagina 238, dal numero 1 al 10.» Lento neanche alza gli occhi e passa dal libro al registro, dove va a segnare i compiti per venerdì, quando avremo il piacere di rivederlo per due ore di fila. Non si accorge che nessuno ha segnato niente, nemmeno abbiamo tirato fuori i diari, a parte Ferraro e Muraca ovviamente. Alcuni perché gli esercizi li copieranno da Ferraro e Muraca altri perché tanto c’è il gruppo su whatsapp dove se hai voglia puoi sapere anche quanti peli ha Lento sul culo (per la cronaca: non sono io maleducato, è che è proprio questo il linguaggio della chat).

Intanto si sono fatte le due meno dieci, se Dio vuole questa tortura sta per finire. Io sto seduto all’ultimo banco. Mi alzo e vado alla porta. Almeno comincio a sgranchirmi le gambe.
«Martena mancano ancora dieci minuti alla campanella, quindi va’ a sedere al tuo posto. E levati quelle cuffie!»
«Ma prof, mancano pochi minuti!»
«Martena ho detto vai a sedere al tuo posto. Immediatamente! Altrimenti giuro ti tengo qui altri dieci minuti dopo il suono della campanella.»

Eccolo il professor Lento, lento di nome e di fatto, che prova a fare il grosso con me mentre sono qui che fremo aspettando che suoni l’ultima campanella. E sì che lo sa che con le minacce ci vado a nozze.
Ora che ci penso però ho presentato tutti tranne me: mi chiamo Vladimiro Martena, detto Villi, che è il mio soprannome da sempre ma non chiedetemi perché, non lo so. È un po’ come il nome di Vauro. Ho sedici anni, bocciato una volta alle scuole medie, in terza per la precisione, sono il classico disadattato. Quelli come me hanno il marchio di fabbrica, ovunque vadano.
La mia specialità a scuola è collezionare note sul registro, le colleziono come trofei, in quelle non mi batte nessuno. A me della scuola non me frega un cazzo, ci vengo se no mi mandano i carabinieri a casa. Dicono che ho l’”obbligo”. E allora se mi obbligano a starci poi però non mi devono rompere le palle se “disturbo la lezione”, come recitano decine di note a penna rossa in mio onore.
L’ora prima di Lento abbiamo fatto italiano, non ho idea su che cosa fosse la lezione perché come al solito avevo le cuffie. Di nascosto ascolto sempre la musica. A un certo punto la prof mi ha interpellato. Io ovviamente non l’ho sentita. Così sì è avvicinata mentre io guardavo la pioggia cadere fuori dalla finestra.
«Martena.»
Sento una mano che mi scuote.
«Martena, dico a te!»
Io mi sono levato una cuffia e ho alzato la testa. L’ho guardata come si guardano gli extraterrestri credo, lei non si è nemmeno arrabbiata.
«Ma che fai, invece di imparare qualcosa ascolti la musica?»
«Mi scusi prof. È che non mi sento bene.» Ho farfugliato.
«Non è un buon motivo per starsene con le cuffie a dormire sul banco mentre c’è una lezione.»
Non sapevo cosa dire. Non so mai cosa dire quando mi colgono in flagrante. Più che altro credo sia perché non me ne importa niente.
La Bertini mi ha guardato severa poi si è girata ed è andata verso la cattedra. Sulla via del ritorno ha sparato la seguente frase:
«Il fatto è, cari ragazzi, che voi non volete capire che la scuola, lo studio, sono fatica. La scuola è una palestra, vi allena, perché anche fuori da qui domani sarà così. Fatica. E voi è con questa parola che non andate d’accordo. La vita è dura, in nulla si riesce senza soffrire. E badate che è dura per tutti. Solo lo studio potrà darvi delle sicurezze.»
Ecco, quando parlano così, io mi chiedo se recitano, se lo dicono perché lo devono dire o cosa. Insomma non è possibile che credano veramente a queste stronzate.
Fatto sta che mi è venuto da ridere. E ho riso. Sia chiaro, non una risata sguaiata. Una risatina, diciamo così, una cosa innocua. Però la Bertini mi ha sentito. Beccato. E lì si è arrabbiata.
«Martena che fai ridi? Sono cose che ti fanno ridere? Se tu avessi ascoltato la lezione avresti saputo che stavamo parlando di un poeta come Leopardi che è a voi che si rivolge. È a voi adolescenti che dice queste cose. Ma lui che fa? – si rivolge alla classe – lui ride – poi di nuovo a me – ma cosa avrai da ridere?»
«Niente, non ridevo per lei»
«E allora per cosa? Per Leopardi?»
«No. Però… insomma, vengo a scuola per sentirmi dire che la vita è dura? Che tutto è fatica? Ho sedici anni, prof, io mi voglio divertire.»
Ecco, mi ero tolto un bel peso dallo stomaco.
«E allora vai, Martena, vai a divertirti fuori. Così impari a essere insolente come il tuo solito.»
Mi sono alzato mentre lei prendeva la penna e annotava sul registro “Martena viene allontanato dall’aula perché si rivolge all’insegnante in modo insolente:” Le conosco a memoria queste formule. Sono cinque anni che le vedo e sono sempre le stesse anche se scritte da individui diversi.
Me ne esco, tra gli sguardi un po’ invidiosi dei miei compagni che continueranno a sentirsi le prediche della Bertini su quanto abbia sofferto Leopardi per rimanere a futura memoria.
Insomma stamattina mi sono beccato la quinta nota dell’anno, e siamo appena a dicembre.

La campanella ormai sta per suonare e io devo correre. Il suono dell’ultima campanella è l’unica cosa che mi piace della scuola. Sei ore con il culo su una sedia e sentire stronzate di cui non mi frega niente. Oggi piove pure porca vacca e devo andare a casa di mia madre che sta in centro. Devo camminare una mezz’ora buona a passo svelto prima di arrivarci. Quando arrivo là i giorni in cui esco da scuola alle due i miei fratelli sono già a tavola che mangiano, ma non è colpa mia se esco tardi e la scuola è in culo al mondo. A tavola ci sarà il solito piatto di pasta coperto con un piatto fondo, la pasta sarà già fredda e collosa da fare schifo, ma quando hai fame va bene tutto. Butto giù con il fiatone e punto.
Anche mangiare, tocca farlo di corsa. Mia madre se ne sta lì in piedi davanti alla lavatrice in preda all’ansia perché non vede l’ora che finiamo e ci leviamo di torno.
Il pranzo da mia madre è a tempo, come una bomba ad orologeria. Alle tre, massimo tre e mezzo, dobbiamo essere fuori da casa sua.
Dice che deve pulire tutto per bene prima che arrivino le “clienti”. Secondo lei a sedici anni mi bevo la storiella che fa la manicure, cioè che farebbe belle le mani e lisci i piedi delle signore bene di questa città, a casa sua.
Io lo so cosa fa mia madre. Fa la puttana. Ecco perché ha fretta di mandarci via. Riceve i “clienti” di pomeriggio. Come l’ho saputo non importa, non è stata una bella scoperta. Devo ammettere che molte volte ho avuto la tentazione di nascondermi e spiare gli uomini che si scopano mia madre, ma poi non l’ho mai fatto. Alla fine mi sono convinto che è un lavoro come un altro.
In fondo non me ne frega niente da dove vengono quei quaranta, a volte cinquanta, euro che mia madre mi dà ogni settimana, che per quattro fanno circa centosessanta euro, nel senso che io sono il secondo di quattro figli maschi: Mirko ha un anno più di me, poi c’è Alberto che ne ha dodici ed Enzino che ne ha nove e tra noi è quello che ha sofferto di più quando mia madre se n’è andata, più di un anno fa.
A dire il vero anch’io l’ho odiata, anche se poi quando ho cominciato a vedere qualche soldo ho pensato che in fondo era meglio così. La nostra casa, quella in cui siamo rimasti a vivere con mio padre, non è neanche una casa, è una vecchia catapecchia di pietra alla periferia di questa città.
Mio padre è disoccupato da tre anni e come se non bastasse è pure invalido, ha le gambe mosce e per muoversi deve usare le stampelle, non ho mai capito bene perché. È così da quando sono nato.
Comunque mia madre ha fatto bene a lasciarlo, è uno schifo d’uomo, quando non è pieno di vino è pieno di birra. O dorme o beve. O in alternativa si incazza con noi perché sa che mia madre ci dà dei soldi e a lui quelli che prende da non so dove non gli bastano per ubriacarsi tutto il giorno.
All’inizio ho pensato che ci stava che mia madre se ne andasse per via di mio padre, erano sempre urla e botte, ma non capivo perché avesse abbandonato anche noi.
Poi però dopo ho capito. Mia madre s’è sistemata mica male, s’è fatta un appartamento piccolo ma decente, e di sicuro con il lavoro che fa non ci può tenere con lei, almeno questo mi piace credere perché a dirla tutta non so se vorrebbe farlo, visto che a parte darci da mangiare a pranzo e allungarci qualche soldo non si preoccupa un granché di quel che facciamo. Per il resto dobbiamo arrangiarci. Lei non chiede mai niente, né della scuola, né della salute, né dei cazzo dei problemi che hanno gli adolescenti che ormai tutti ne parlano tranne lei. Persino la strizzacervelli della scuola dove mi hanno spedito un paio di volte.
In effetti l’unico motivo per cui vengo a scuola tutte le mattine è che non mi va di stare in quella cazzo di casa che puzza, a scuola mi rompo le palle ma almeno non c’è quella puzza di vino e sudore che c’è a casa mia. Né c’è mio padre, che a vederlo, con quelle stampelle e la pancia che sembra una mongolfiera, non è che faccia una bella impressione.

La campanella ora sta davvero per suonare e io come ho detto se voglio mangiare devo correre.
Prima di congedarmi però voglio farti i miei complimenti.
A chi, mi chiedi? Ma a te, sì, proprio a te. A te, lettore che stai leggendo e sei arrivato fin qui. Complimenti.
Però anche tu non hai capito niente, come tutti del resto. Tu sei convinto che io sia uscito dalla mente di quella che qui sopra ha messo il suo nome, come la chiamate? Autrice? Invece ti sbagli. Lei c’ha messo solo le parole giuste per far tornare i discorsi (non le cose, che quelle comunque non tornano).
Ma io. Io. A te che mi leggi. Te lo devo dire. Sappi che io sono vero.

La campanella è suonata, io devo andare, anzi, devo correre. Nella foga di uscire ho spintonato qualcuno, non so manco chi. Sento il professor Lento alle mie spalle che sta urlando….
«Martena, sempre il solito, sei proprio un animale!»

Fanculo Lento, tu e tutti gli animali come te.

Le cose dell’amore

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Il viaggio e l’utopia, l’avventura e la politica, l’amore e la guerra, l’ironia e il mistero, il vino e le camere d’albergo, l’amicizia e la lealtà, la passione e il rispetto per la natura, sono i temi ricorrenti del mondo narrativo di Luis Sepulveda. Stanno lì a ricordare che per lui esistono ancora valori e sentimenti che possono aiutare ad affrontare le asprezze della vita a procedere, come ha detto una volta, “di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria finale” (B. Arpaia, Prefazione a Tutti i racconti, Guanda Ed.)

Ciao Luis, per sempre

** LE COSE DELL’AMORE **

Quando ci vedemmo per la prima volta, riflessi negli specchi dell’enorme salone dei banchetti del Centro Catalano di Santiago, avevamo tutti e due quattordici anni. Eravamo alla cerimonia di chiusura del corso di galateo a cui le famiglie cittadine della classe media iscrivevano i figli perché imparassero a star seduti a tavola, a usare in modo appropriato forchette e coltelli, e a non confondere il bicchiere dell’acqua con quello del vino rosso, del vino bianco o dello spumante. Ci insegnavano anche a ballare, valzer, pasodoble, cueca, ma fra tutti io preferivo gli audaci passi del tango perché il tubare dei bandoneón mi faceva sentire più uomo.

Il maestro di cerimonie ci fece sedere di fronte e dentro di me imprecai perché non ci aveva sistemato accanto impedendomi così di sfoggiare i miei modi da cavaliere, ormai perfetti, e cioè di scostare la sedia della dama tenendola per lo schienale e spingerla leggermente in avanti mentre la ragazza si accomodava. Dovetti accontentarmi di farle un lieve inclino, a cui lei rispose con un garbato cenno del capo.
Lei, ah lei!, aveva una lunga chioma castana che le scendeva fino a metà schiena e che sembrava un caldo accessorio del vestito di mussola bianca. Io, con lo smoking, lo sparato rigido e il papillon, avevo come tutti gli altri ragazzi una bell’aria da pinguino artritico.
Quando i suoi occhioni si posarono su di me, sentii che iniziavano a sudarmi le mani, che il papillon mi soffocava e che dovevo subito fare qualcosa. Allora presi il tovagliolo e, fedele alle istruzioni del professore di buone maniere, lo scossi perché si spiegasse e me lo posai sulla gamba destra.
“Che le prende, vuol ballare una cueca, una samba o un chamamé?”* chiese dal capo del tavolo il maestro di cerimonie.
Le ragazze soffocarono le loro risatine e arrossirono, i ragazzi sghignazzarono apertamente, io mi sentii morire, ma lei, senza togliermi gli occhi di dosso, prese il tovagliolo, lo scosse e se lo lasciò scivolare in grembo.
Il maestro di cerimonie ignorò quell’infrazione al protocollo e suonò una campanella dando inizio alle presentazioni. Quando fu il nostro turno, spinsi indietro la sedia con le gambe, mi alzai in piedi, dissi il mio nome e poi aggiunsi che frequentavo il liceo statale e che era un piacere conoscerla. Lei, dopo un leggero cenno del capo, disse che si chiamava Marly, che era allieva del Santiago College e che era molto lieta di fare la mia conoscenza.
La faccenda del Santiago College mi preoccupò. Era una scuola frequentata dalle figlie della borghesia, mentre il liceo statale era noto per il carattere rivoltoso e le tendenze rosse dei suoi studenti.
Quella parodia di cena andò avanti senza grossi incidenti. Nessuno fece rumore mangiando la minestra e nessuno fece stridere la forchetta sul piatto al momento di tagliare a pezzetti gli asparagi. Nessuno sbagliò posate con il pesce o con la carne e nessuno confuse i bicchieri. Lo stesso accadde con la conversazione. Marly disse che gli asparagi le sembravano deliziosi e io risposi che condividevo la sua opinione. Io dissi che gli specchi facevano apparire più grande la sala e Marly rispose che condivideva il mio interessante punto di vista. Ogni coppia si scambiò un migliaio di parole, ma nessuno disse assolutamente nulla di compromettente o di stonato. Con gioia del maestro di cerimonie, ci comportammo come dei gran cinici o come degli impareggiabili idioti.
Dopo il dessert annunciarono che potevamo passare nella sala da ballo. E stavolta ebbi modo di mettere in pratica le regole che mi erano state insegnate: le scostai la sedia, aspettai che posasse il tovagliolo sul tavolo e le offrii il braccio. Con la speranza di restarle al financo per ore, la condussi nel salone accanto.
Naturalmente tutti avremmo preferito ballare musica rock, però erano presenti anche i genitori e volevano vedere i progressi compiuti dai figli, così il maestro dette ordine di mettere un valzer e ballammo coi corpi ben dritti e separati. La mia mano destra le sfiorava appena la vita, ma sentivo l’intenso calore della pelle nascosta sotto la mussola. Finimmo il valzer, continuammo con un pasodoble, ma quando stavano annunciando una cueca, il nostro ballo nazionale, Marly con sorpresa di tutti si avvicinò all’inserviente che metteva i dischi, gli disse qualcosa all’orecchio e subito la sala fu invasa dalle note di una canzone di Leonardo Favio.
Il maestro di cerimonie, furibondo, diede ordine di far tacere quella musica volgare, ma dalla fila dei progenitori si alzò allora il vocione del nonno di Marly.
“Io pago per finanziare questo centro e mia nipote balla quel che vuole!”
Din dan din don, son le cose dell’amor, cantava Leonardo Favio e le coppie si avvicinavano, si toccavano si stringevano con disperazione del maestro di cerimonie che preferiva guardare altrove quando le ragazze si attaccavano al collo del loro compagno e noi ragazzi le abbracciavamo allacciando le mani dietro la schiena.
Din dan din don, son le cose dell’amor, mi cantava Marly all’orecchio, e io sudavo mentre le mie mani palpavano il duro inizio delle sue natiche.
Mentre ballavamo ci dicemmo la nostra età; condividevamo la passione per i Beatles, per Piero, per Leo Dan e naturalmente per Leonardo Favio. Io mentii quando le assicurai che neppure a me interessava il calcio. E non so se lei fu sincera quando dichiarò che le piaceva l’aroma della mia acqua di colonia e i film di Stanlio e Ollio. Ci raccontammo quanto bastava per fissare un appuntamento il giorno dopo, nei giardini della Biblioteca Nazionale, e capii che era valsa la pena di seguire le odiose trenta lezioni del corso accelerato da gentiluomo.
Quando tornai a essere me stesso, con il vestito da pinguino piegato con cura in una valigetta, uscii per strada con un sorriso da orecchio a orecchio e la voglia di saltare, di gridare, di cantare din dan din don, son le cose dell’amor.
L’appuntamento era alle cinque del pomeriggio, un’ora fatidica, come è noto. Marly non venne. Contai le palme, i gigli, i cestini della spazzatura, le panchine di ferro verde, la gente che usciva dalla biblioteca, i carrettini dei venditori di noccioline, i tambores* delle venditrici di cialdoni e le colombe che cacavano sulla statua di Benjamín Vicuña Mackenna. Alle otto di sera non sapevo più cosa contare.
Quel boccone amaro mi colmò d’incertezza e di rancore. La prima cosa che pensai fu: certo, una figlia di papà del Santiago College non si mette con un rosso del liceo statale. Che vada a fare in culo. Ma poi la immaginai in lacrime, chiusa in casa, sorvegliata da una famiglia odiosa e da un militare in pensione a servizio come portiere.
Din dan din don, son le cose dell’amor, di sicuro aveva preso l’influenza, poverina, e doveva essere a letto col naso congestionato e il mal di gola. Il giorno successivo disertai le lezioni e andai al Santiago College all’ora dell’entrata. Ma fu tutto inutile. Marly non si vide.
Dopo una settimana che ripetevo quotidianamente la scena di piazzarmi davanti al portone della scuola, mi resi conto che le allieve e quelli che le aspettavano all’uscita iniziavano a guardarmi con sospetto. Così, per evitare di essere cacciato via con la forza, decisi di compiere un gesto audace ed entrai a chiedere notizie dell’assente.
”E perché vuol vedere questa signorina Marly di cui non sa neppure il cognome?” mi domandò una donna che puzzava terribilmente di autorità.
“È che questa signorina ha smarrito un oggetto di valore e voglio restituirglielo. L’ho conosciuta al corso di galateo del Centro Catalano.”
La donna controllò una lunga lista e concluse che non c’era alcuna allieva di nome Marly.
La dimenticai. No, non la dimenticai, ma non lasciai nemmeno che mi rovinasse la vita. Ogni volta che vedevo mio padre ascoltare il suo programma di tango con occhi sognanti, mi dicevo che l’amore doveva offrire altre possibilità oltre alla sofferenza. Non la dimenticai e il suo nome mi servì a inventare una storia d’amore con una figlia di papà del Santiago College che i miei amici presero per vera.
Passarono i quattordici anni e la mia vita pian piano acquistò i tratti di una straordinaria avventura perché c’era un mondo che implorava dei cambiamenti sociali. Ricordo che la vidi una mattina d’inverno… Avevo diciott’anni ed ero un dirigente del movimento studentesco impegnato a tempo pieno sulle barricate del nostro sessantotto. Invocavamo una riforma che facesse dell’università un vero centro di agitazione sociale, che la aprisse agli operai, che la rendesse insomma il cuore del grande cambiamento e della rivoluzione. Tutto ciò naturalmente non piaceva granché al governo e la polizia si impegnava a fondo per far cadere tutto il peso della legge sulle teste di noi studenti. Gli inverni a Santiago sono orribili e quello del sessantotto lo fu ancora di più perché al solito inquinamento si aggiunsero i gas lacrimogeni e le pallottole.
Stavo intonando a squarciagola l’Internazionale assieme a un gruppo di compagni, quando una voce di donna iniziò a cantare un’altra canzone.
Din dan din don, son le cose dell’amor.
Era lei. Anche se non portava il vestito di mussola bianca, ma dei jeans e un eskimo, e aveva mezzo viso coperto da un fazzoletto per smorzare l’effetto dei lacrimogeni, riconobbi immediatamente i suoi occhi.
Mi abbracciò come se ci fossimo visti appena due giorni prima e io risposi al suo abbraccio. La polizia caricò, finimmo le pietre, corremmo per evitare le manganellate e ci ritrovammo seduti faccia a faccia al tavolino di un caffè.
Din dan din don, son le cose dell’amor, canticchò mentre girava il cucchiaino.
“La ragazza del Santiago College. Scusa, la compagna del Santiago College” dissi.
“Ora milito nei Giovani Comunisti” replicò.
“Ti chiami ancora Marly?”
Per tutta risposta si alzò dalla sedia, si chinò verso di me e mi dette un lungo bacio sulla bocca.
Uscimmo abbracciati. Ogni due o tre passi ci fermavamo e ci baciavamo con ansia. Non fece alcuna obiezione quando le mie mani si infilarono sotto l’eskimo per palpare la durezza dei suoi seni, né quando le scesero sui fianchi ricordando la durezza delle sue natiche. Parlammo della causa, della lotta, dell’assemblea a cui avremmo partecipato al pomeriggio.
“Sei andato all’appuntamento?” chiese all’improvviso.
Le risposi di sì, ma non feci parola della settimana che avevo passato seduto davanti al Santiago College e della delusione che avevo sentito scoprendo che non aveva mai studiato lì.
All’assemblea, che si teneva nella facoltà di pedagogia, ci sedemmo in ultima fila. Là, fra un bacio e l’altro, applaudimmo i delegati del MIR, i comunisti e i socialisti, fischiammo i filocinesi e alzammo la mano quando si votò per continuare lo sciopero e la lotta nelle strade.
Quella sera decidemmo di dormire all’accademia. Come molti altri, anch’io andavo sempre in giro con un sacco a pelo perché noi dirigenti avevamo il dovere di essere da tutte le parti a qualsiasi ora.
Ci sistemammo nella sala prove della scuola d’arte drammatica. Il nero delle quinte dava un certo tocco di romanticismo alla candela che avevamo acceso. Bevemmo qualche sorso di vino, ci accarezzammo, ci baciammo, la spogliai, mi spogliò e continuammo con le carezze, din dan din don, son le cose dell’amor, al calduccio del sacco a pelo.
“Ti chiami Marly, epoi?” chiesi mordicchiandole un orecchio.
La sua lingua si intrecciò alla mia. Erano baci stregati, come dice un tango.
“E poi? Voglio sapere il tuo nome” insistetti, ma proprio in quell’istante entrarono a cercarmi due delegati.
“Mi dispiace, ma ci sono dei problemi più importanti dell’amore “ dichiarò uno di loro.
“Non berti tutto il vino. E non ti addormentare” le dissi mentre mi vestivo.
Din dan din don, son le cose dell’amor, rispose lei.
I problemi sarebbero stati discussi nell’aula di scultura. Mentre vi andavamo, uno dei delegati commentò:
“È proprio un bel bocconcino la compagna. Un vero schianto”.
“Cosa studia?” s’informò l’altro.
Non seppi rispondere. Solo allora mi resi conto di non averle chiesto né cosa faceva, né dove viveva.
La riunione durò varie ore. Allo sciopero studentesco si sarebbero uniti gli operai del cuoio e delle calzature, e gli spazzini municipali si sarebbero fermati ventiquattr’ore in segno di solidarietà con gli studenti. Il grosso problema erano i filocinesi della facoltà di filosofia, che continuavano a condannare lo sciopero come borghese.
Discutemmo e convenimmo di ringraziare chi era solidale con un’assemblea nel conservatorio e di rafforzare il lavoro dei volontari nelle cucine per preparare da mangiare agli operai che si sarebbero uniti a noi. Quanto ai filocinesi, decidemmo di lasciare aperta la possibilità di prenderli a calci in culo o con un piede o con l’altro.
Tornai nella sala prove. La candela era ormai ridotta a metà. Lo stesso era successo alla bottiglia di vino, ma il sacco a pelo era vuoto e i vestiti di Marly erano scomparsi.
L’aspettai, la cercai per tutta l’accademia, ma niente.
Nei giorni che seguirono, per trovarla, tenni un occhio sulla polizia e l’altro dalla mia parte della barricata. Ripetei centinaia di volte la stessa domanda: qualcuno ha visto la compagna che era con me? Ma la risposta fu sempre quella: no, non l’ho vista. Davvero carina la compagna, non l’avevo mai vista prima.
Lo sciopero trionfò. Si fece la riforma. Victor Jara compose un inno che diceva: “Tutti i riformisti sono rivoluzionari”: I giovani furono i protagonisti delle dure giornate che portarono alla grande vittoria elettorale di Salvador Allende, la seconda tappa della nostra rivoluzione, e io dimenticai marly.
No, non la dimenticai. Avevo troppi compiti da svolgere per potermi permettere che una storia confusa e senza epilogo mi distraesse dai miei impegni. Ma ogni volta che mi infilavo nel sacco a pelo, riconoscevo il suo odore e sentivo la sua voce canticchiare: din dan din don, son le cose dell’amor.
I mille giorni del governo di Allende passarono molto in fretta. Poi giunse la lunga notte del terrore e della morte. L’addio definitivo e forzato a tanti compagni di barricata e di sogni.
Compii venticinque anni in un carcere del sud, molto lontano da Santiago. Venivano a trovarmi poche persone e dovevo accontentarmi delle lettere dei miei genitori e dell’esiguo numero di amici che erano sopravvissuti o che si trovavano in esilio, così mi fece piacere quando una mattina di pioggia mi annunciarono che avevo una visita.
Il parlatorio era una baracca e prigionieri e visitatori dovevano sedersi su delle panche di legno, faccia a faccia, con due soldati sempre lì a censurare la conversazione.
Marly era ancora bellissima. Adesso portava i capelli corti e i suoi venticinque anni le avevano modellato definitivamente il corpo.
Din dan din don, son le cose dell’amor, mi salutò tendendomi le braccia.
“Vietato toccarsi!” ringhiò un soldato.
Ci guardammo a lungo. Vidi lacrime nei suoi occhi, ma non di dolore. Erano il suo modo di dire che il tempo ci aveva giocato un brutto tiro e che, anche se non sapevo il suo cognome o il suo vero nome, in un libro al sicuro da qualsiasi rogo erano scritti i nostri nomi e la nostra storia d’amore.
Senza dare importanza ai latrati dei militari, Marly allungò le mani e mi accarezzò il viso. Tolse un pidocchio che mi passeggiava impunemente sulla testa rapata e disse:
“Quando uscirai, sarò ad aspettarti. Non so dove, ma sarò ad aspettarti”.
Due anni dopo uscii dal carcere e un misto di timore e di desiderio mi fece esitare davanti alla soglia della libertà. E se Marly fosse stata la morte? La morte innamorata di me e io innamorato di lei. Non c’era nessuno ad aspettarmi e così, in bilico fra gioia e tristezza, m’incamminai.
La vita ha molti posti, uno si chiama il proprio paese, un altro si chiama esilio. Un altro ancora si chiama dove diavolo sono.
La dimenticai? No. Amai onestamente altre donne che mi amarono allo stesso modo. A volte l’amore si spense e non potei riaccenderlo, altre volte si affievolì e non seppi rinfocolarlo.
Passarono gli anni. Le canzoni di Leo Dan, dei Beatles, di Piero e di Leonardo Favio divennero echi della parte felice della memoria. Il sentiero della solitudine mi si aprì davanti come un invito pieno di bar dove il vino è gratis e le donne fanno da stampella a un’anima zoppicante.
Venticinque anni dopo il mio primo incontro con Marly conservavo ancora le buone maniere apprese al Centro Catalano e forse per questo, nel corso di un viaggio a Santiago, tornai a cercare quel vecchio palazzo per aggiungerlo, in una cerimonia colma d’intima nostalgia, al mio inventario delle perdite.
Nel salone dei banchetti c’era un negozio di elettrodomestici e nella sala da ballo un tetro locale con le ragazze in topless. Entrai, mi avvicinai al bancone e chiesi un whisky con ghiaccio alla barista dai seni cadenti che faceva di tutto per sembrare attraente.
“Mi offri da bere?” mi propose un’altra donna dalle tette enormi.
“Ora no, scusi. Forse più tardi” risposi con le buone maniere di un tempo.
Bevvi lentamente il mio whisky. Una superficie morbida sotto i piedi mi informò che l’impeccabile parquet di una volta era stato sostituito da una moquette. Gli occhi, abituandosi alla penombra, mi rivelarono che i ritratti di illustri musicisti catalani erano stati rimpiazzati da foto di “Playboy”.
Proprio allora mi posarono una mano sulla spalla e quando mi voltai con l’intenzione di dire no, mi dispiace, forse più tardi, sentii l’inconfondibile voce di marly.
Din dan din don, son le cose dell’amor.
Uscimmo da lì di corsa. Fuori la luce del giorno quasi mi accecò, ma ne fui felice perché così ebbi modo di scoprirla lentamente. Man mano che le pupille si abituavano allo splendore del sole, io mi abituavo alla sua presenza.
Gli anni erano passati anche per lei. Ci toccammo qualche ruga, qualche capello bianco, qualche ferita, e prendendoci per mano ci avviammo in quella città che un tempo era stata nostra.
“Ti piace ancora Leo Dan?” mi chiese mentre compravamo cartoline per gli amici.
“Sì e anche Leonardo Favio. Din dan din don, son le cose dell’amor.”
“E i poeti? A me piace Benedetti” spiegò.
“Anche a me. E Gelman. E Atxaga” aggiunsi io.
“Anche a me!” esclamò lei avvicinandosi a un venditore ambulante di garofani.
L’albergo ci aspettava come un tempio da lungo tempo predisposto. Ci spogliammo con calma, e non per sfoggiare muscoli o curve perfette, ma perché entrambi avevano capito che, con tutti i loro segni, questi corpi erano il supporto di una storia che iniziava solo adesso. Ci amammo lentamente, e non per le buone maniere apprese al Centro catalano, ma perché cercavano nel piacere la via per trovare la migliore stanchezza. E dopo parlammo, dimenticando ieri e domani poiché le parole sono come il vino: hanno bisogno di respiro e di tempo perché il velluto della voce riveli il loro sapore definitivo.
Ora, accanto al mare, la guardo: so tutto di lei, ma lo dimentico per il piacere di tornare a conoscerla, verità su verità, dubbio su dubbio, certezza su certezza e timore su timore perché, diavolo!, così din dan din don, son le cose dell’amor.

* Tutti questi balli si danzano con una specie di fazzoletto in mano (N.d.T.)
Tambores: tipici contenitori colorati simili a tamburi. (N.d.T.)

Luis Sepúlveda

 

L’odore del sangue

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Angela curava le mani in modo maniacale, era convinta fosse da quelle che si capiscono e si giudicano le persone. Furono proprio le mani l’inizio di tutto.
Le mani di Claudio erano bianche, con le dita lunghe, affusolate, mani che non avevano mai lavorato; lui era un medico cresciuto in un palazzo d’epoca di proprietà della sua famiglia. Angela invece era nata a cresciuta al villaggio rosso, chiamato così per via del colore delle case: una serie di palazzine rosso mattone intorno a uno squallido cortile. Nel mezzo, tre alberi spogli e malati e quattro panchine arrugginite. Vivere lì equivaleva a esibire un marchio. D’estate lo scirocco ci portava una sabbia fine che a volte ricopriva i terrazzi. Angela aveva sempre detestato quel vento, come detestava tutto in quel luogo: l’odore di bollito e di umidità nelle scale che appena entravi ti chiudeva lo stomaco, i panni stesi ovunque, il parlare volgare delle donne e dei bambini. Aveva sempre frequentato poco il cortile, non giocava con gli altri, li guardava dalla finestra e le sembravano bestiole in gabbia. Trascorreva la maggior parte del suo tempo davanti al televisore. Perfino la madre si lamentava, diceva di avere una figlia con la puzza sotto il naso. Angela però non se ne curava, stringeva i pugni e continuava a pensare che lei da lì sarebbe andata via; sprofondata nella poltrona con le gambe penzoloni davanti alla tv, stava alla larga dal mondo intorno. Lei aveva grandi progetti per sé. Prima però, doveva andar via. Fuggire dalle case rosse e  dallo scirocco.
L’occasione arrivò, e si chiamava Claudio, che si innamorò di quella ragazza acerba e testarda, molto diversa dalle donne che c’erano state nella sua vita. Angela era giovane, eppure forte e definita. Usava le mani per accarezzare e graffiare. Graffi che avevano la passione e il calore appiccicoso dello scirocco che arrivava dal mare.

Non avrebbe mai pensato di rovinarsele. Le mani. Le sue. Le piaceva affondare le dita nel vasetto di crema per poi massaggiarle sul dorso, sui polpastrelli, lungo le dita, fino ai polsi. Era una sorta di rito benefico: il profumo,  la morbidezza, il constatare che aveva belle mani, le dava sicurezza, non era come le donne che vivevano alle case rosse. Non avrebbe mai pensato che un luogo dove soffia lo scirocco può confonderti fino a rovinarti le mani. Non lei. Non le sue.

Quando alle otto aveva suonato al campanello della villetta isolata, era buio e intorno non c’era nessuno. Aveva lasciato la macchina sulla strada e aveva proseguito a piedi. Il cuore le bruciava nel petto. Non riusciva a dominare quel pensiero ossessivo: incontrarla. Da quando l’aveva scoperto, qualcosa nella sua testa si era spostato. Lei avrebbe finito l’università, avrebbe sposato Claudio,  invece era comparsa quella donna. La rivale. Aveva sparpagliato tutte le tessere del mosaico. Claudio l’aveva accusata di essere gelosa, paranoica, isterica; l’aveva scacciata come una cagna malata.
“Puttana”: era stata la parola pronunciata da sua madre appena aveva saputo che c’era un’altra nella vita del dottore. Era stata quella parola ad azionare un meccanismo nel cervello di Angela che l’aveva riportata là dov’era nata, alle case rosse.
“Puttana. Non si prendono gli uomini delle altre donne. Bisogna fargliela pagare a sta’ puttana”.
Angela ascoltava la madre e nonostante avesse impiegato tutta la sua esistenza a prendere le distanze da quel mondo, quelle parole le piacevano. Puttana. Cominciò a ripetere. Puttana.
Il pensiero di un’altra donna che le aveva portato via Claudio iniziò a tormentarla come un verme che si mangia tutto. La madre le parlava con l’espressione cattiva e Angela ne studiava il movimento delle labbra, guardava le mascelle dure e sentiva che doveva imparare. Doveva imparare a dire puttana come lo diceva sua madre. Non c’era giorno, in quelle lunghe settimane, in cui non risentisse quella parola nella testa.

Quando quella sera alle otto aveva suonato al campanello della villetta, voleva solo vedere in faccia la donna che si era presa il suo uomo e dirle puttana come lo diceva sua madre. Invece.

La donna che aprì la porta era bella, sicura di sé, vincente. Angela risentì l’eco della voce materna: “Sei una puttana, lo sai? Hai distrutto la mia vita, lo sai? È colpa tua, puttana. Tua”.  La voce però era la sua.  “Puttana” continuava a ripetere. Sì. Le veniva bene, proprio come sua madre. Sentì perfino la mascella indurirsi. In quell’attimo Angela comprese che era l’odore del sangue che l’aveva inseguita dov’era cresciuta. Era da quello che s’era sempre tenuta lontana. La crema, i profumi, servivano per coprire gli odori veri che aveva avuto intorno fin da bambina. Lei sentiva i fratelli tornare in moto e sapeva bene che da qualche parte era successo qualcosa. Una bomba, un morto, due morti ammazzati o nessuno. Magari solo una vetrina sfondata, o una macchina saltata per aria come avvertimento. Lei non aveva voluto vedere ma sapeva. Sapeva. Aveva sempre saputo. Quando suo padre in cucina beveva vino e parlava sommessamente con altri uomini. La testa continuava a girare. L’odore del sangue. Afferrò una bottiglia sul tavolo e la ruppe contro lo spigolo. L’altra, la rivale, cominciò a indietreggiare, cambiò tono ed espressione. Ma Angela non capiva più nulla: gli occhi, le labbra della donna, la sua vestaglia a fiori. Tutto diventò indistinto. Cominciò a colpire ed era solo rabbia per tutto quello che per anni non aveva voluto vedere. Il vetro incise la pelle della donna che cercava di divincolarsi. È così che si fa? Pensava Angela continuando a colpire. Le case rosse. L’odore del sangue. Era dunque quello? Un colpo più deciso e  la gola si aprì, il sangue schizzò, scese in lunghi rivoli lungo la pelle bianca. La donna scivolò a terra come una foglia. Angela la vide accasciarsi: non conosceva neppure il suo nome. Il collo della bottiglia cadde a terra con un tonfo sordo. Si guardò le mani, le sue belle mani che aveva sempre curato, segnate dai tagli e dal sangue. Scappò via. Per strada non c’era nessuno. Si tormentava le mani con le mani, continuando a ripetere “devo andar via, devo andar via”, come una nenia nella testa. Per tutta la vita era questo che aveva voluto: andare via.

Una mattina di settembre uscendo dal portone dell’università, c’era Giada ad aspettarla:
“Allora com’è andata? ”  chiese.
“Trenta” aveva risposto Angela. Era il suo ultimo esame, si sentiva stanca.
Salì in macchina. Giada si mise alla guida. Lungo il tragitto Angela guardò la città dai finestrini, come faceva sempre: i mercati che pullulavano di teste, le vetrine dei negozi belle da guardare, qualche donna anziana che scendeva lentamente gli scalini di una chiesa, gli uomini in abiti scuri e cravatta colorata che si affrettavano davanti alle banche. Chissà se anche per lei prima o poi sarebbe tornato il momento di farsi largo tra la folla. Non riusciva a vedersi. Adesso le dava un senso di pace non esserci nel mezzo.
Quando la macchina si fermò, Angela scese e si avviò da sola. Ormai non c’era più bisogno di Giada alle sue spalle tutte le volte a dire: “Detenuta con permesso speciale”.
Sentì il portone di ferro richiudersi alle sue spalle. Venti passi fino alla vetrata, li conosceva a memoria. Da lì, oltre, stanze e corridoi, corridoi e stanze.
Fece il tragitto fino alla sua cella e si fermò, aspettando che la guardia di turno le aprisse la porta. Poi fu dentro. Il rumore del ferro, della serratura che scatta. Muri protetti. Il suo letto. Un tavolino. Una grata alla finestra dalla quale non si può andare da nessuna parte. E più nessun vento. Scirocco. Umido e appiccicoso.

Ernesto, medico (neolaureato)

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Mi chiamo Ernesto, sono in un bosco e ho davanti un uomo morto.
Ho le gambe paralizzate, i piedi come fossero infilati in un blocco di cemento. La salivazione assente.
Sono in grado di ritenere che in questo preciso istante il mio organismo stia valutando l’entità della minaccia. Per questo motivo tremo anche se sono immobile. Non posso vedermi, ma credo di essere pallido, devo avere un colorito ceruleo.
Non voglio dire pallido come un morto perché sono in piedi, non agisco, ma posso pensare. Morto è quello lì che mi sta davanti.
Sto sperimentando i sudori freddi, perché avverto freddo nonostante stia sudando copiosamente. I brividi sono leggere scosse elettriche a fior di pelle.
In pratica sono sottoposto a una tempesta emotiva.
Lo so come funziona, cazzo! Sono un medico, neolaureato, ma pur sempre medico. Queste sono modificazioni fisiologiche del sistema nervoso autonomo. Quando i meccanismi funzionano a regime, noi siamo una macchina perfetta.
L’ipotalamo in questo momento la fa da padrone, regola le funziona del corpo. Si è azionato l’ormone delle emergenze, la corticotropina, quello che predispone alla lotta, o quanto meno alla fuga.
Siamo forniti di un sistema di neurotrasmettitori che in situazioni simili regola i livelli della paura. Tuttavia negli umani c’è la razionalità, ovvero ciò che ci suggerisce le opzioni di scelta. Questa nel mio caso deve essere andata a farsi fottere.
Dovrei essere in grado di gestire la paura, perché so perfettamente che quello che mi sta accadendo: è un cortocircuito del sistema nervoso riconducibile a ciò che gli esseri viventi provano di fronte a un evento spiacevole imprevisto.
Però diciamolo: questa non è paura. Io mi sto proprio cacando sotto.
Chi mai avrebbe potuto pensarlo: ho affittato una casa vicino al bosco, avevo bisogno di un po’ di vita sana e solitaria. Ero qui per camminare e rimettermi in forma con la necessità di disintossicarmi e guarda tu in che guaio mi sono cacciato.
E quella bella idea di non portare il cellulare, di darsi alla vita primitiva? Ma vaffanculo. Un cellulare in questo momento sarebbe la mia salvezza.
Sul fatto che quello sia morto non c’è alcun dubbio, ma non deve essere un morto qualsiasi. Voglio dire, se fosse un contadino infartuato non me ne starei immobile a cacarmi sotto. Mi sarei già avvicinato, l’avrei spostato, avrei visto la sua faccia.
Ma questo qui ha un abito grigio, i mocassini di pelle nera, i calzini grigi, al polso ha un orologio imponente (da qui non riesco a vedere bene la marca, ma si capisce che è di quelli seri).
È riverso in un fosso, ne vedo la nuca riccioluta, ha una capigliatura nera, folta. Deve essere giovane, e secondo me anche bello. Beh… doveva essere giovane perché morto è morto di sicuro.
E cosa ci fa uno vestito Armani (non so se sia un Armani, ma un vestito pregiato lo è certamente, si vede dalla stoffa, neanche si è spiegazzata) riverso in un fosso di un bosco?
Ve lo dico io, questo non è venuto qui per passeggiare, questo o l’hanno ammazzato qui o l’hanno prima ammazzato e poi hanno abbandonato il cadavere qui. Tempistica perfetta: giusto in tempo per farmi in regalo questa scarica di adrenalina.
A ben vedere però propendo per la seconda ipotesi: lo devono aver fatto fuori altrove, a guardarlo sembra pulito, non c’è sangue né tracce di buchi di fuoriuscita di proiettili.
Come mi diceva mia nonna? Quando hai paura morditi la lingua, così senti male e la paura scompare. Che teoria del cazzo. Mia nonna era una che diceva un sacco di cazzate, altroché. In barba a quella che si dice la saggezza dei vecchi.
E non c’è proprio nessuno, oltre a me e al morto. Si sentono solo versi di uccelli che fino a ieri mi sembravano i canti di un paradiso perduto mentre oggi se avessi una carabina li farei fuori tutti. Tacete che siamo all’inferno cazzo!
Porca miseria. Sono proprio un inetto, stronzo, gelido cacasotto. Mi dovrei muovere, andare a chiedere aiuto, avvertire la polizia. Questo avrà una famiglia che lo starà cercando. Non deve essere tanto che è qui però, ieri non c’era, per cui ce l’hanno portato stanotte. Toccare non lo posso toccare, che con le impronte non si sa mai.
Se vado dai carabinieri potrebbero insospettirsi, cazzo, sono pur sempre un medico, neolaureato, ma pur sempre un medico. Possibile – mi diranno – che non ha avuto l’istinto di intervenire, di voltarlo, di appurarne la morte o di soccorrerlo perfino se fosse stato in tempo? E io che rispondo? Che pur essendo un medico (neolaureato però, non scordiamocelo) sono rimasto paralizzato dalla paura? Rideranno di me, diranno che ho sbagliato professione. E il guaio è che non hanno mica torto.

Da quanto tempo sono qui? Mi sorge un dubbio atroce: ma era poi davvero morto quando sono arrivato? Magari respirava ancora. O mio Dio, che supplizio! Basta: devo fare il mio dovere di cittadino, tornare indietro andare a casa e avvertire.
“Pronto, polizia? Ho trovato un morto nel bosco.”
Già prevedo le conseguenze: generalità, deposizioni, si tenga a disposizione, il mio nome sul giornale. No, non sono disposto a questo. Non adesso.
E se l’avessero appena ammazzato? Se fosse una cosa tipo un regolamento di conti? Magari l’assassino o gli assassini potrebbero pensare che mi trovavo qui, acquattato da qualche parte. Che me ne andavo a funghi per il bosco e ho visto tutto. In tal caso sarei addirittura in pericolo.
No, no, per carità. Io non voglio problemi.
Potrei fare una telefonata anonima dal cellulare:
“C’è un morto nel bosco” Clic.
Facciano loro poi quello che devono fare. Ma forse sarebbe peggio. Oggi coi satelliti sanno tutto, ti rintracciano ovunque e comunque. Potrei destare sospetti.
Cazzo cazzo cazzo, ero in cerca di pace maledizione. Sono un medico, anche se neolaureato. Ho avuto un esaurimento nervoso. Mi sto curando, ancora non ne sono fuori.
Che, forse che un medico non può avere un esaurimento nervoso?
Mia moglie mi ha lasciato tre mesi fa, dopo sei di matrimonio e un anno di fidanzamento. No, dico, sei. Sei, amico. Sei fottuti mesi, e aggiungo che è stata lei a volersi sposare a tutti i costi. Aveva fretta, lei. Chiunque tu sia, sei bell’è e andato, ma io sto qua a tribolare, a chiedermi come ho potuto essere così coglione. È la vita una merda, non la morte, anche se la tua deve essere stata terribile.
Però potresti pure essertela andata a cercare, mica si finisce morti ammazzati con il vestito buono in un fosso, così, come niente. Pure tu qualcosa avrai combinato. Io invece ero un marito innamorato e fedele. Una persona onesta e perbene. E lei mi ha piantato in asso per un altro. Uno con cui aveva avuto una relazione. Mi ha sposato per ripicca, lui l’aveva lasciata. Ti rendi conto dove può arrivare la cattiveria? Io non la meritavo tutta questa sofferenza che mi ha mandato fuori di testa. Mi ha detto che il matrimonio era stato uno sbaglio, dopo sei mesi. Uno sbaglio, capisci? E io che non mi ero reso conto di niente. Mi sembrava che finalmente fosse cominciata la vita vera e invece ero soltanto la pedina di un piano: la laurea, la casa, il matrimonio, le prime guardie mediche. Non che mi piaccia fare il medico. Ho studiato medicina per far contento mio padre.
Ma ora non importa più. È crollato tutto, da un giorno all’altro, dopo che lei se n’è andata. La prima cosa che ho fatto quel giorno è stato scolarmi tutto l’alcool che c’era in casa. Poi dopo c’ho preso gusto a stordirmi. Uscivo di casa solo per comprare alcoolici, poi mi chiudevo in casa e staccavo i telefoni e davo il via alla festa.
Qui ci sono venuto per disintossicarmi, dicono che stia meglio. Camminare mi fa bene. Devo stancarmi per non sentire voglia di bere. Se cammino dimentico che razza di merda è la mia vita. Quindi caro amico, se tu te la passi male, anche per me non brilla di certo.
E sai qual è la differenza? Che tu avrai di sicuro una bella mogliettina che ti piangerà. La mia invece se la sta spassando con lo stronzo che se l’è ripresa.
Dovrei starci io al tuo posto, amico, lì, in quel fosso.

Sì, dovrei starci io in quel fosso. Tanto per non sentire l’istinto della bestia che vorrebbe uccidere e dimenticare il lupo mannaro che sono diventato.
Tanto vale dirtelo amico.
Tu sei il terzo che mi è capitato a tiro mentre avevo fame di sangue di uomo. E tu avevi la faccia da bastardo perfetta.
Hai sbagliato a darmi un passaggio oggi. Sono un medico, anche se neolaureato, io lo so come ammazzare i bastardi come te, basta un niente.
Quello che invece non mi piace è la paura che avverto dopo e il fatto che adesso debba scavare un’altra fossa e seppellirti. Non mi piace l’idea di te che diventerai come gli altri, vermi che mangeranno le radici, le foglie, le gemme degli alberi di questo bosco. Questo è il mio personale paradiso adesso, quando il lupo mannaro se ne va riesco a godere di tutta la sua bellezza.
Questo, amico, mi dispiace per te, è il posto dove sono venuto a cercare pace.

Fotogramma

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Quello che vedete a petto nudo mentre fa volare la sua camicia per aria alle undici di sera, non corrisponde a ciò che pensate. Mi piacerebbe presentarvelo come una star su un palcoscenico: io sto nell’angolo di una quinta con il microfono in mano e lo annuncio a gran voce “Signori e signore, vi presento Bill Red”. E subito dopo su  quel palcoscenico compare l’artista che si esibirà per voi, tra gli applausi.
Invece, mi spiace deludervi, ma questo giovane uomo che si batte il petto dalla pelle liscia e ambrata non è una star e si chiama Vincenzo Papagna. Un cognome, dunque, piuttosto impegnativo.
La donna che vedete seduta nel piccolo soggiorno al primo piano di questa palazzina è Ernestina Gallo, coniugata Papagna, madre di Vincenzo. La poverina se ne sta seduta al buio nella stanza con i gomiti sul tavolo e i palmi della mani ben aperti sulle orecchie. Il tavolo è coperto da una tovaglia di plastica a piccoli quadri bianchi e marrone, unta, tagliuzzata qua e là. La stanza è spoglia, al limite dello squallore, oltre al tavolo di formica ci sono tre sedie di paglia e una di plastica. Nell’angolo di fronte al tavolo ci sta un mobile di truciolato rotto in più punti e sopra c’è un vecchio televisore. A completare l’arredamento c’è un mobile scuro, con i buchi che segnano il posto in cui prima stavano le maniglie delle ante che ora non ci sono più. Quei buchi, nella penombra della stanza,  sembrano occhi svuotati dalle orbite. In questa stanza due metri per tre non c’è nient’altro, eccezion fatta per un filo che pende dal soffitto a cui è attaccato un avanzo di lampadario di ceramica.
Ernestina non ha acceso la luce, sta cercando di tapparsi le orecchie per non sentire suo figlio Vincenzo che sotto la finestra sta dando il suo solito spettacolo. È tardi, i lampioni per strada sono accesi, illuminano la viuzza delle palazzine popolari al cui primo piano abita la famiglia Papagna. La strada è deserta, solo qualche macchina, di tanto in tanto, irrompe come il ronzio di un moscone vagante. È novembre e fa freddo, tutte le finestre sulla strada sono chiuse, le serrande abbassate.
“Puttana, tu non li offendi gli amici miei, hai capito?  Mi senti? Apri, maledetta!”
Ernestina sta sprofondando in quel buco nero che è la sua vergogna. I vicini come sempre staranno sentendo, qualcuno prima o poi chiamerà i carabinieri. Però lei la porta a suo figlio Vincenzo non gliela apre. Così quello se ne sta fuori a imprecare e bestemmiare, sferrando calci alla macchina parcheggiata proprio sotto la finestra. È l’astinenza, se non si fa perché non ha rubato e non ha soldi, allora beve, si ubriaca con gli amici della sua stessa specie e poi torna a casa in quello stato.
“Apri, fammi entrare, puttana la madonna! Nudo resto se non mi apri, mi piglio la polmonite per colpa tua, cretina.” Vincenzo urla e si batte il petto come una scimmia incazzata. Ha i capelli corti secondo la moda del momento,  un viso duro e butterato.
Intanto in camera da letto si sta svegliando Ottavio Papagna, marito di Ernestina e padre di Vincenzo. È stanco e non vorrebbe alzarsi. Ha la sveglia puntata alle quattro e mezza, l’ora in cui va a lavorare al mercato scaricando cassette fino alle otto di mattina in cambio di una quarantina di euro a nero, che più o meno equivale alla sopravvivenza della famiglia Papagna, salvo poi qualche lavoretto che Ottavio riesce a racimolare sporadicamente.
Ottavio Papagna quel figlio lo ammezzerebbe volentieri, se non fosse che per lui in galera non ci vuole proprio andare e questo non tanto per sé stesso – che a volte pensa che in galera almeno avrebbe pasti sicuri e un posto dove dormire in pace – quanto per Antoniuccio, la creatura che gli sta dormendo accanto nella culla, lui ha appena undici mesi e non ha colpa. Antoniuccio peraltro si è appena addormentato con le consuete difficoltà, visto che è un neonato che piange sempre.
Ottavio sente suo figlio per strada, ma tutto quello che può fare è girarsi su un fianco e sperare che Antoniuccio non si svegli.
“Se non mi fate entrare spacco tutto”.  Urla Vincenzo mentre dà calci al portone.
Farlo entrare vuol dire far entrare in casa Papagna la follia bestiale dell’uomo che non ha pensiero ma soltanto azione senza cervello, spinta da un puro istinto animale.
Vuol dire che una volta dentro Vincenzo picchierà sua madre, vorrà soldi, spaccherà quel che resta dei mobili vecchi.
Lui, Ottavio, chiuderà la porta a chiave per proteggere Antoniuccio che intanto però si sarà svegliato e piangerà quei pianti lunghi e spaventati dei bambini che l’uomo nero non lo vogliono manco sentire in lontananza. Lui dovrà prenderlo tra le sue braccia molli e grasse e cullarlo finché la furia di Vincenzo non si sarà placata.
Che andasse pure a farsi fottere quel figlio maledetto, che se lo prendesse il diavolo, la morte, la polizia, un delinquente qualsiasi suo pari. Che l’ammazzassero pure, lui non avrebbe aperto.
“Apritemi pezzi di merda. Quant’è vero Iddio spacco tutto.”

La vedete quella ragnatela nera sulla finestra della cucina? A prima vista,  sotto il riflesso della luce dei lampioni, fa effetto. Sembra un insetto gigante, una creatura mostruosa dalle lunghe zampe nere abbarbicata sul vetro. Ma non è quello che sembra. Se guardate meglio vedrete che è un vetro spaccato con un buco al centro, è stato rattoppato alla bell’è meglio con del nastro isolante nero perché non c’erano i soldi per cambiarlo, quel vetro. Ebbene, è stato un pugno di Vincenzo, che ne è uscito tra l’altro con la mano incredibilmente intatta, fatta eccezione per qualche graffio.
“Fatemi entrare o vi ammazzo!”
Vincenzo scuote il portone con entrambe le mani, i vetri spessi e smerigliati tremano contro il metallo. A questo punto qualcuno nella palazzina accende la luce nelle scale, è il segno che sta cominciando a perdere la pazienza.
Ernestina in soggiorno si tappa le orecchie, preme ancora più forte le mani sulle tempie. È piena di odio verso Ottavio, suo marito, che i pugni dal figlio li ha sempre presi come e quanto lei, ma mai li ha saputo restituire. Un uomo debole e inutile, Ottavio. Aveva sposato un poveraccio incapace per sfuggire alle botte di suo padre e guarda cosa ne aveva ricavato. Oltretutto dopo che Ottavio aveva perso il lavoro, ormai da un anno e mezzo, se n’era stato per giorni interi a letto a dormire ed era stata lei a campare la famiglia come poteva, lavando scale che puzzano di piscio di cane per due miseri soldi.
E come se non bastasse era arrivato anche Antoniuccio, figlio di Angela,  la più giovane della famiglia Papagna. Era rimasta incinta di chissà quale cane tra quelli che se la scopavano per soldi, che lei questo faceva. Angela si fa vedere di rado a casa, quando lo fa è solo per sputare tutto il veleno che ha in corpo contro la madre. Si accerta ogni volta che le finestre siano ben aperte e che tutti possano sentire perché sia chiaro che razza di vita di merda sia quella della madre, vita che lei, tende a sottolineare con orgoglio, non farà mai. Lei da quel letame ne è fuori perché, al contrario degli altri in quella casa, lei fa soldi. Di cosa pensino gli altri non le importa un fico secco.
Di solito alla fine di quelle visite Angela lascia qualcosa per suo figlio Antoniuccio, che a mala pena prende in braccio, e quando lo fa è come se avesse tra le mani un tizzone ardente. Poi se ne va, non senza prima aver finito di lapidare sua madre con miseri improperi, che la colpa di tutto secondo Angela sarebbe la sua, anche se nessuno ha mai capito perché.
Ernestina lo sa che sua figlia fa la puttana e puttana le urla puntualmente mentre Angela le volta le spalle girando sui suoi tacchi altissimi, che con la sua figura minuta la fanno sembrare un trampoliere ubriaco.
Ebbene è questa la vita di Ernestina. Chissà quale maledizione le aveva riservato quei figli, pensava ogni tanto, stanca di avere sempre peccati da scontare a causa loro.
Vincenzo è ancora là fuori, a petto nudo,  il freddo non lo sente. Lei invece in casa lo sente eccome. Intravede il figlio sotto la finestra che cerca di saltare. Lo sa che sua madre è al di là dei vetri, seduta, nel buio. Lo sa che sta sentendo.
Poi qualcuno nella palazzina decide che è ora di farla finita e apre il portone, che se lo prendessero in casa, quel pazzo drogato, e la facessero finita.
Vincenzo appena sente il rumore metallico della serratura che scatta balza dentro come una lepre. Si attacca al campanello dell’appartamento e suona senza fermarsi. Nessuno in casa si muove, anche questo fa parte del copione, e per fortuna stasera Antoniuccio sembra dormire un sonno clemente.
Vincenzo impreca, poi si lancia per le scale, fa di corsa i due piani della palazzina e subito dopo ridiscende. Quando è in questo stato i vicini lo temono. Mentre scende continua a frantumare tra le gengive sdentate parole incomprensibili. Poi di nuovo si attacca al campanello e tira calci alla porta.
Ernestina in soggiorno si alza e piange.

Ernestina ha quarantadue anni ma sembra molto più vecchia, molte volte pensa che morirà di crepacuore e per quelli come lei non è poi una gran tragedia.
Come sempre ha paura e spera di sentire la sirena della polizia, come talvolta accade, oppure la voce di un santo, perché in cuor suo lo sa che solo un miracolo potrebbe far cambiare le cose. Peccato che ai miracoli ha smesso di crederci da un pezzo.
Questa sera ha nascosto il portafoglio nella spazzatura, avvolto in una busta di plastica. Dentro ci sono venti euro e qualche spicciolo.
Mentre Ottavio la sente alzarsi dalla sedia e muovere i suoi passi strascicati verso la porta, fa scattare la serratura della camera da letto e guarda Antoniuccio che dorme. Sa che a momenti si sveglierà. Poi si siede sul letto e lo sguardo si perde nel vuoto.
Ed è a questo punto che Ernestina, tremando, apre la porta.

 

NON REGALATE ORSACCHIOTTI AGLI SCONOSCIUTI

???????????????????????????????????????«Non posso, davvero non posso accettarlo»
«E’ così che di solito ringrazi per i regali?»
«Ma questo non è un regalo!»
«Per me lo è e tu lo stai rifiutando!»
Ammettiamolo, nella mia testa girava un’espressione che non osavo articolare. “Ma sei scemo?”.  Avrei voluto dirgli. Ma come si fa a ferire un ragazzo così tenero, così dolce…. ragazzo poi! Per quel che ricordo non era più tanto un ragazzo. Aveva 27 anni o giù di lì. Era quasi un uomo, anzi, senza quasi.
Già la settimana precedente ero rimasta perplessa davanti al garzone del fioraio…. no, è brutto garzone del fioraio, però  fa tanto film francese, sì, lo so che garcon è cameriere e non c’entra niente, ma il suono in compenso fa molto Parigi e già li vedi i chioschi sulle piazzette all’uscita del metrò con tutti quei fiori di campo dai bellissimi colori, giallo, viola, arancione, rosa. Ti richiamano subito la fisarmonica e la voce di Juliette Greco che intona Sous le ciel de Paris e ti vedi volteggiare in un vestito leggero a maniche corte a fiori minuscoli che svolazza mentre il tuo compagno ti stringe alla vita con presa sicura e a passo di danza girate tutt’intorno alla piazza che è umida di una pioggerellina che sulla pelle è benefica, ballate in mezzo alla gente, voi non li vedete, ma loro muovono la testa a ritmo  seguendo la musica e i passi e sorridono, sorridono, partecipi, compiaciuti….. no, aspetta, non correre, torna indietro.
Era garzone appunto, non garcon. E garzone se mai ricorda il commesso malpagato, il ragazzo di bottega della salumeria di Sor Mario a Tiburtina che fa le consegne a domicilio e odora di mortadella.
Ecco. Aveva sbagliato tutto. Se m’avesse mandato, che so, un panino con la mortadella, di quella rosa, sottile, profumata, con i pistacchi, a me non sarebbero venuti  in mente tutti quei pensieri scemi su Parigi che avevano fatto sì che guardassi il ragazzo del fioraio (che poi magari era proprio il fioraio in persona, che ne so?) in modo strampalato da fargli dire:
«E’ lei M.N.?  perché se è lei, questi sono suoi.»
“Questi” era un mazzone di rose, rosse,  non me lo ricordo quante fossero, ma erano tante. Un mazzone appunto.
Ora, se mi mandi un mazzone di rose rosse, altro che Juliette Greco e la visione romantica di Parigi, a me vengono in mente le vene gonfie del collo di Massimo Ranieri che con piglio virile va dicendo rose rosse per te ho comprato stasera e il mio cuore lo sa cosa voglio da te.
A parte il fatto che il tuo cuore sappia cosa vuole da me, non significa affatto che il mio  voglia la stessa cosa, anzi non mi pare proprio, ma quella canzone dice anche: d’amore non si muore.
E allora se già dichiari in partenza che il tuo non sarà mai un amore per sempre e nonostante tutto che me le mandi a fare tutte ste’ rose?
«Signorina ha capito o no che queste rose sono per lei?»
Presi il mazzo come se fossero carboni ardenti e richiusi la porta. Magari avrei dovuto dargli una mancia, ma secondo me quello era il fioraio in persona, mica si dà la mancia al padrone che oltretutto co sto’ mazzone di rose oggi s’è fatto la giornata.
C’era una bustina bianca con il mio nome tra le rose, discreta, timida, sembrava avesse timore a farsi notare. La apro e dentro c’era un foglio scritto a mano. Una poesia. Bella, per quanto ricordi. Ma è un ricordo vago. Lui scriveva poesie, me le aveva fatte leggere qualche volta, ma quella era proprio per me, l’aveva scritta per me.
Se uno vi dedica una poesia, cioè la pensa, la sente, la scrive, la corregge, la rende unica e poi l’appiccica a un mazzone di rose e ve la manda, spendendo anche dei soldi, beh… vuol dire che nella testa di quella persona siete importanti. La cosa quanto meno vi lusinga e voi quella poesia la mettete in un luogo sicuro dove rimarrà – comunque vada – per sempre. Anche perché che ne sapete voi che magari quello un giorno diventerà un poeta famoso e voi, zacchete!, la tirerete fuori e diventate all’improvviso la musa che lo ha ispirato, l’artefice della sua arte?
Voi, non io.
Io non lo so dove l’ho messa. L’ho persa.
E comunque per quel che ne so non è diventato un poeta famoso, credo sia diventato qualcosa tipo un chimico di qualche casa farmaceutica. Un avvelenatore a mezzo di farmaci. Quindi avevo visto giusto.
Insomma, già ero perplessa per le rose, figuriamoci quando quella mattina questo delicato ragazzo biondo cenere (biondo cenere è quello che assomiglia al castano? Perché se no non è quello giusto, tanto per intendersi) mi piomba alle spalle mentre ero intenta sulle mie sudate carte di un libro in biblioteca e mi dice:
«Puoi interrompere un attimo?»
Mi mette in mano le chiavi di un cassetto di quelli dove era obbligatorio lasciare le borse quando entravi in biblioteca e mi fa:
«Vai ad aprire il numero 35, c’è una cosa per te.»
A dire il vero il numero l’ho inventato, non posso ricordare il numero di un cassetto di più di vent’anni fa, no anzi, 30 (ma com’è che il tempo passa così in fretta che mi sbaglio sempre?)
Insomma, ci vado. Lui mi segue.
Io sono curiosa. Lui è impaziente.
Quando lo apro vedo un orsacchiotto, chiaro, seduto, composto, come se fosse lì tranquillo e ubbidiente ad aspettare.
«Cos’è?» Chiedo
«Non lo vedi?» Risponde.
Lo vedevo sì, ma non era una cosa nuova, bello era bello, ma era vecchiotto.
«E’ mio, è stato il mio amico d’infanzia.»
Mi aveva parlato della sua infanzia difficile, aveva avuto non ricordo bene che malattia, una per cui non poteva correre o affaticarsi, quindi giocava poco con altri bambini. Una cosa triste insomma. Però dell’orsacchiotto non sapevo niente.
«Non si regalano cose così.» Dissi.
«E perché?» Replicò.
«Perché è una cosa importante, un ricordo, un giorno ci ripenserai e lo rivorrai indietro e magari io chissà dove sarò. Te ne pentiresti.» Questo chiamasi mettere le mani avanti.
«Per me è una cosa importante e se voglio regalartelo vuol dire qualcosa.»
«Appunto.» Replicai.
Mi stava davanti, così tenero, con lo sguardo quasi supplichevole. Sentivo che stava cominciando ad offendersi.  In fondo mi stava facendo dono di un pezzo della sua vita e io cosa stavo facendo?  Lo stavo spingendo a razionalizzare un gesto emotivo del quale avrebbe potuto pentirsi. Avrebbe, ma mica era detto. In fondo che diritto avevo io di azzerare quell’illusione? Se gli piaceva regalarmelo, e sia.
Presi l’orsacchiotto, che era davvero bello. Conservato benissimo, doveva averne avuto molta cura.

Chissà dove sarà finito adesso. Non lo so, davvero, non ne ho la minima idea.

M’AMA – Il Signor G.

thumb_big_normal_bc7ea0ecfbdd4643d8ef02c402d862e4«A noi due adesso».
A colpi di mouse Nina aveva dato via alla ricerca. Andava a caso, un link dopo l’altro, cercando di ironizzare su stessa. Immagine dopo immagine le reazioni andavano dalla sorpresa, allo stupore, allo sgomento. C’era un mondo là dentro. Dopo qualche minuto decise che ne aveva abbastanza.
«Per oggi può bastare. Intanto mi sono fatta un’idea.»
Si sentiva sollevata per aver rotto il ghiaccio, dopo l’iniziale diffidenza, poco per volta ci sarebbe arrivata, intanto poteva ritenersi soddisfatta. Chiuse le pagine una dopo l’altra, uscì dal programma e spense il computer. Il monitor nero le restituì la sua faccia, ma in quel momento le parve che là dentro ci fosse riflessa la sua anima nera. E in quel nero, di nuovo, fece capolino la perplessità.
«No Giacomo, non ci siamo. Proprio no, è inutile. Non ce la farò mai. Davvero, non insistere. Poi come faccio scusa? Questa idea di internet, la spedizione. E se poi il pacco arriva e lo prende Caterina? Sopra c’è il mio nome, mica il tuo, quella curiosa com’è magari lo apre. Come glielo spiego a una ragazzina di 12 anni? Sì…. C’ho pensato. Anche al piano B. Ma che cambia farlo recapitare a Sandra? E poi che le dico scusa? No Giacomo. Siamo seri, meglio lasciar perdere. Meglio accettare il fatto che non sono capace. Fammi andare via, che tra un po’ torna la tribù affamata e ancora neanche so che gli darò da mangiare. È tardi. E poi sono queste le cose di cui devo preoccuparmi, caro mio! Tre figli non sono mica uno scherzo. Bruno più si avvicina la maturità più diventa insopportabile. Lo sai com’è, no? Carletto è stato mollato dalla ragazzina per la seconda volta in sei mesi e neanche vuol mangiare più. Insomma Giacomo, ho il mio da fare. Chiuso.»
Nina girò le spalle e andò in cucina a preparare la cena. Voleva fare la crema bianca per Carletto, tante volte almeno quella l‘avesse mangiata. E come tutte le sere avrebbe riunito intorno a quel tavolo la famiglia a raccontarsi i fatti della giornata. Di questo Nina era fiera: erano riusciti a rimanere affiatati e complici, perfino più di prima, grazie a lei.
Poi, sul tardi, prima di decidersi ad andare a letto, Nina fece  il giro dell’appartamento, ormai da due anni era un’abitudine della quale non riusciva a fare a meno: spegneva le luci, controllava che il gas fosse chiuso, aspettava che i ragazzi si fossero addormentati; quando era sicura di avere tutto sotto controllo, si infilava nel letto, esausta. E lì, come tutte le sere, ricominciava.
Una volta era lei sempre la prima ad andare a letto. Sprofondava sotto le coperte e finalmente poteva tirare un sospiro di sollievo. Da lì le piaceva ascoltare i rumori della sua casa, della TV accesa, dei ragazzi che a volte litigavano, della voce di Giacomo che interveniva a calmarli. Del silenzio in cui con il passare delle ore lentamente scivolavano le loro esistenze traghettate verso il sonno notturno. Quasi mai si addormentava. Leggeva, o semplicemente ascoltava a occhi chiusi finché Giacomo non le si fosse steso accanto. Prima era lui ad  avere tutto sotto controllo. Era così che funzionava la vita.
«Dormi? » A volte le chiedeva.
Quando il tono interrogativo giungeva a lambire il suo torpore, Nina sapeva era una richiesta. Così si girava sorniona nel letto e facevano l’amore. Non avevano mai smesso lei e Giacomo, perfino quando i bambini erano piccoli, erano sempre riusciti e ritagliarsi un momento per loro. Doveva essere questo il segreto della loro unione, solida dopo vent’anni tre figli e due carriere. Non avevano mai smesso di piacersi, di toccarsi, di comunicare con il corpo, di appartenersi.
«Adesso è dura Giacomo».
A dirla tutta i primi tempi non c’era stato né tempo né modo di pensarci. Da un giorno all’altro era stata sbattuta in mare aperto come un naufrago. E aveva faticato come un animale per riportare tutti in salvo a riva. Poi però, passata la tempesta, aveva dovuto dare un ordine alla vita, tre figli gliel’avevano imposto. La notte era stata la parte più dura da affrontare. Il vuoto nel letto. Chiudeva gli occhi e risentiva la voce di Giacomo.
«Dormi?»
Sera dopo sera in quei due anni aveva cominciato a sentire nel silenzio le sue mani addosso, le percepiva mentre le dita scorrevano lente sulla sua pelle. Con tutta se stessa avrebbe voluto rivivere un amplesso, uno solo, uno che le servisse  a sentire che a 46 anni non era sola e aveva ancora un corpo che poteva godere. Ma non c’era mai riuscita. Arrivava sempre un punto in cui il vuoto e il silenzio spodestavano l’immaginazione e vincevano sull’eccitazione e sul sogno.
«Non dovevi farmi questo Giacomo. Non si può morire di punto in bianco nel mezzo della vita».
Il guaio è che non riusciva nemmeno a scacciarlo. Se ci fosse riuscita, la notte avrebbe potuto dormire. Dio solo sa quanto ne aveva bisogno, un sonno vero, un’assenza dal mondo di una notte, almeno una notte tutta intera. Invece continuava a sentire l’alito di Giacomo soffiarle sul viso. Era lì, era con lei, e la guardava con il desiderio che aveva sempre negli occhi mentre stava per baciarla. Ne vedeva ogni tratto, ogni particolare. E tutte le sante volte tremava, tremava e desiderava quel bacio come mai niente aveva desiderato nella vita. Nemmeno lui.
Era riuscita a salvare i naufraghi dalla tempesta, ma quella solitudine notturna, affamata e raminga, no, non riusciva a scacciarla. Tutte le sere tornava come un esattore implacabile a riscuotere la sua imposta, una fetta di dolore che non se ne voleva andare.
«Lo sai no? Io non ci riesco, mi sentirei peggio dopo. Voglio te Giacomo. Te maledizione, riesci a capirlo questo? Io tutta la vita ho fatto l’amore solo con te. Quindi per favore vattene. Vattene.».
Com’è che a un certo punto fosse spuntato il Signor G., Nina non lo sapeva bene.
«Giacomo, ma per favore, mi ci vedi me con il Signor G.? non so neanche da dove cominciare…. »
Era stato Giacomo a suggerirglielo. Una notte che non riusciva a dormire. Aveva sentito un fruscio dietro la tenda, come un colpo di vento sopraggiunto a gonfiarle. Si era alzata di scatto nel mezzo del letto, ma la tenda era chiusa, ferma. Giacomo dalla foto sul comodino sorrideva, come sempre.
«Certo, sorridi. Sorridi tu. Ormai sorridi per l’eternità».
Era soprattutto durante la notte che Nina provava una rabbia sorda che la faceva tremare, un sentimento molto simile all’odio. Più fissava quella maledetta foto che non rispondeva, quel viso amato che le sorrideva, più avrebbe voluto fracassarla contro il muro. Non riusciva a dominare la paura. Tutto quello che alla luce del giorno sembrava poter controllare, di notte si trasformava in disperazione e terrore. Avrebbe voluto qualcosa da prendere a pugni,  altro che cercare il Signor G.! Un sacco a un gancio, un cuscino, qualsiasi contro cui sfogare la rabbia.
Ma quasi sempre Giacomo arrivava nel mezzo di quegli attacchi. Lì, a guardarla, immobile ai piedi del letto con lo sguardo che le diceva…. Tranquilla piccola, stenditi, rilassati, spogliati… lo so di cosa hai bisogno Nina…
Tranquilla piccola. Stenditi. Rilassati. Spogliati…
Nell’assenza di suoni, solo lo sguardo di Giacomo fisso nel suo. Le parole le aveva dentro, e le ripeteva, le ripeteva, le ripeteva…
Tranquilla piccola. Stenditi. Rilassati. Spogliati…
Per quanto avrebbe voluto combattere contrastando quell’onda di paura mista a furore, solitudine e voglia, erano quelle quattro parole ripetute come una nenia le sole che riuscivano a calmarla.
Notte dopo notte, alla fine aveva compreso che il corpo ha le sue leggi di natura e maledice l’assenza d’amore più di quanto la ragione possa controllare. Aveva dovuto imparare la forza: era stata una lezione che come uno scolaro diligente aveva ripassato ogni sacrosanta mattina dal momento in cui metteva i piedi a terra. Rimaneva seduta per qualche istante sul letto e sentiva il vuoto alle sue spalle, pesante come un macigno addosso. Avrebbe voluto stendersi di nuovo e rannicchiarsi. Rimanere per sempre sulla zattera del suo letto ad aspettare l’onda che l’avrebbe travolta definitivamente. Poi guardava la porta chiusa, oltre la quale c’era il fragore della vita che doveva andare avanti e aspettava lei per dare il via a un altro giorno. Sapeva di non potersi sottrarre. Quella porta la doveva aprire.
«Sveglia ragazzi, è tardi.»
E finalmente i rumori del giorno rompevano il silenzio della notte e mettevano a tacere i lamenti del corpo.
Alla fine però si era convinta e c’aveva provato. Aveva superato scogli ben più duri di quello. Aveva dato prova a se stessa e agli altri di risorse che nemmeno sospettava di possedere. Aveva dovuto cambiare pelle e testa, riorganizzare e orchestrare. In fondo quella era una specie di bazzecola che le sarebbe stata d’aiuto. Nina sapeva bene che Giacomo non se ne sarebbe andato, sarebbe tornato testardamente a trovarla tutte le notti.
Tranquilla piccola. Stenditi. Rilassati. Spogliati…
Aveva cominciato a cercarlo su internet e l’aveva trovato. Era stata la cosa più facile del mondo. E lì, dio solo sa (anzi, meglio non lo sappia se è come dicono) aveva visto di tutto. Il signor G. non era uno, ma tanti, bastava scegliere: classico, realistico, stimolatori, maxi, neutri, doppi, neri, colorati perfino di vetro plastificato.
«Ma secondo te io mi infilo quel coso tra le gambe?»
Silenzio.
Giacomo non rispondeva.
Durante il giorno non c’era mai, quando lo cercava e ne aveva più bisogno ecco che lui spariva.
«Certo è facile per te…. Arrivi quando ti pare, mi tormenti, e poi quando ti chiamo…. Niente».
«Maaaamma… dov’è la felpa rossa? » Urlò all’improvviso Caterina dalla sua stanza.
Nina presa di soprassalto, confusa davanti a un vibratore color carne striato da venature da sembrare vero,  chiuse di colpo la pagina con il cuore che le andava a mille, come se fosse stata sorpresa a uccidere qualcuno.
«Cosa??… »
«La felpa rossa mamma, dai, dov’è? Non la trovo, l’avevo lasciata sulla sedia.. »
«E sarà in lavatrice. Non ci puoi mica vivere addosso a quella felpa… »
«Ma lo sai che ci tengo… »
«Sì, ma ogni tanto ha bisogno d’essere lavata. Tutto qui. Mettitene un’altra. »
Di nuovo silenzio.
«Lo vedi Giacomo? Lo capisci anche tu che te ne devi andare».
Stavolta la foto era quella sulla scrivania. Lì erano insieme, al mare. Giacomo continuava a fissarla anche da lì. E fu in quell’attimo, all’improvviso, che Nina comprese. Per la prima volta non ebbe l’impulso rabbioso di fare a pezzi quella, come tutte le altre foto. Anzi. Sorrise.
Il signor G. stava nella promessa che si erano scambiati un giorno che sembrava per sempre: insieme nella buona e nella cattiva sorte. Era questo. Insieme comunque.
Giacomo, lo sapeva bene, non se ne sarebbe andato mai. Il loro era stato un amore testardo fin dall’inizio.
«Hai vinto Giacomo. Va bene. Scelgo quello che sembra più naturale. Vada per quello».
Riattivò la pagina e stavolta senza pensarci troppo andò fino in fondo. Pagamento. Destinatario. Conferma dati. Invia. Click.  Da lì non si torna indietro.
Per sempre, Signor G.

 

NONM’AMA – Enea

paint-it-black-3«Si può rivestire adesso.» Come tutti i dottori, anche il giovane dottore del Pronto Soccorso che stava di fronte ad Enea aveva l’aria del professionista che non si sbottona e ti fa penare prima di dirti cosa ti sia successo ed Enea in pena lo era e parecchio, ma cominciò a vestirsi, aveva il fiato pesante e faceva fatica a coordinare i movimenti.
«Dottore, può dirmi cosa è stato?»
«Diciamo che non è stato un infarto, così si tranquillizza. Anche perché se lo fosse stato non staremmo qui a parlare. È stato un malore, che le ha dato sintomi molto simili all’infarto, ha fatto bene a chiamare il 118. Il cuore comunque è affaticato e non sottovaluterei questo allarme. Aveva fatto degli esami in precedenza?»
«No, è diverso tempo che non prendo in considerazione la mia salute»
«Al contrario dovrebbe, è ancora giovane, il suo peso, ad esempio, è decisamente troppo. Le consiglio di andare al più presto dal suo medico curante e farsi prescrivere gli accertamenti e i controlli che le segnerò. Poi non le resta che mettersi a dieta e fare del moto, magari si rivolga a uno specialista. Vedrà, in poco tempo tornerà come nuovo. La saluto adesso. L’infermiera l’accompagnerà per le dimissioni, là potrà anche ritirare il referto e le indicazioni per il suo medico curante.»
Enea era confuso, il dottore aveva parlato ostentando una sicurezza fredda, lui invece avrebbe voluto fare domande e chiedergli  di restare, non voleva tornarsene a casa da solo e rimanere da solo e rimuginare da solo e spaventarsi da solo. Si sentiva cacciato via.
L’infermiera solerte lo prese per una braccio, facendogli cenno di alzarsi. Attraversarono un corridoio,c’erano pazienti ovunque, in piedi, seduti, in barelle. La maggior parte di loro – notò Enea – aveva qualcuno accanto. Poi entrarono in una piccola sala, l’infermiera gli disse di aspettare il suo turno e, una volta ritirata la busta, sarebbe potuto andare.
«Va via?» Chiese Enea senza quasi volerlo a quell’infermiera giovane e sbrigativa.
«Lei non ha più bisogno, stia tranquillo, può tornare a casa.»
Enea si lasciò andare sulla sedia. Quanto ci sarebbe stato da aspettare? In cuor suo sperava fosse un’eternità, là dentro si sentiva al sicuro.
«Può tornare a casa» Aveva detto l’infermiera. Anche lei voleva sbarazzarsi di lui al più presto, questa era la verità, tutti sembravano volersi sbarazzare di lui.
Già! posso tornare a casa, ma il fatto è che io non ci voglio tornare a casa. Lo so come a va a finire. Va a finire che mi sembra di impazzire in quella casa fottuta. Se solo me ne potessi star qui, in un letto d’ospedale, dove qualche estraneo che non hai vergogna di chiamare ti soccorre se hai bisogno di una fottutissima pillola, o di un maledetto schifosissimo pasto, che è sempre meglio delle porcherie che ingurgito in quantità industriali. Forse dovrei farmi ricoverare, una di quelle belle cliniche dove ti disintossicano. Ma  quelle non le passa  la ASL, quelle te le devi pagare. E con che cosa la pago io? Puttana maledetta, tutto mi hai portato via, anche la dignità, anzi, soprattutto la dignità, ad essere precisi. Io non voglio altro che fartela pagare, al diavolo le stronzate che mi dicono tutti. L’unico istinto vitale che mi morde dentro è la voglia di fartela pagare, stronza….»
«Enea Longo?» La voce dallo sportello lo colse di soprassalto mentre si leccava i pensieri.
«Sono io.»
«Il suo referto… venga, deve firmare. Metta una firma qui.»
Enea si avviò, prese la penna che gli stava allungando l’impiegato, una bic nera, e firmò il foglio bianco: e-n-e-a-l-o-n-g-o- , gli sembrò di firmare la sua condanna con tanto di nome e cognome.
«Arrivederci.» L’impiegato riprese la penna senza neanche alzare la testa, ritirò il foglio e lo mise in una scatola, prendendo subito un’altra pratica, come un robot. Enea lo guardò e si chiese di che colore avesse gli occhi, quale espressione contenessero, se a casa avesse dei figli e una moglie, se quella notte aveva scopato. Per un attimo ebbe l’impulso di strozzarlo, ma fu solo un attimo. Non era lui che voleva strozzare in realtà. Prese la sua busta e si incamminò all’uscita.
L’aria fuori gli sembrò insopportabilmente calda, camminò lentamente, era uscito di casa la sera prima in ambulanza pensando di avere un infarto, non aveva con sé né soldi né documenti, avrebbe potuto fermarsi in un angolo sotto il colonnato e sembrare un senzatetto, un barbone  qualsiasi.
«Sparire per sempre… Ma se sparisco le faccio un favore, non deve affrontare neanche i sensi di colpa la stronza. Io invece voglio che mi veda, tutti i giorni, non m’importa mi veda in questo stato, basta che mi veda, perché quello che sono è il risultato di quello che mi ha fatto. Hanno un bel dire tutti che devo pensare a me, che devo rifarmi una vita, che la devo lasciar perdere. Ma quando una donna ti succhia il sangue e poi ti lascia senza una parola a marcire nel poco che non si è portata via della tua vita e delle tue cose non merita di essere lasciata in pace. Merita di avere la vita rovinata così come lei ha rovinato la mia»
«Enea… Enea….»
Dall’altra parte del marciapiede un uomo lo stava chiamando, Enea si voltò ma non riconobbe quel  volto che gli stava andando incontro.
«Enea Longo…. Ma sei proprio tu?»
Enea continuava a guardarlo inespressivo cercando un particolare in quell’uomo che gli ricordasse chi cazzo fosse.
Giorgio, Giorgio Martini, sono passati un po’ di anni, ma hai sempre la stessa faccia…»
Ecco chi era Giorgio, Giorgio Martini, lo sgobbone della VC, quello che gli passava sempre gli esercizi di latino. Ma come avrebbe potuto riconoscerlo, non c’era niente del ragazzo di trent’anni prima in quell’uomo in giacca e cravatta.
«Ti ricordi di me? Dire che viviamo nella stessa città ma non ci siamo più visti…»
«Davvero…. Sì adesso mi ricordo, davvero strano, non ci siamo più visti…»
«Bisognerebbe organizzarla prima o poi una bella rimpatriata della gloriosa VC, io qualcuno l’ho ritrovato su face book sai…. Il Bellini, il Grossi.. te li ricordi? Siamo usciti insieme qualche volta, ora che ti ho ritrovato si organizza… come ti butta? Sei sposato? Hai figli? Io lavoro in una finanziaria proprio qui all’angolo, ma guarda te che coincidenza. Sono sposato e ho due figli, maschi… e tu, dimmi un po’ di te..»
Ma era sempre stato così loquace sto cazzo di Martini? Non lo ricordava così, era un ragazzo timido e foruncoloso, ma forse è che quando rivedi i compagni di scuola tutti ti sembra fossero timidi e foruncolosi, Enea a malapena ricordava com’era lui ai tempi del liceo, figurarsi se poteva ricordarsi del Martini del Grossi e del Bellini, l’unico Bellini di cui al momento avesse memoria era il cocktail. Lui si era sempre tenuto alla larga dai ricordi, dal passato e dai rimpianti. Lui si era laureato ed era diventato uno psicologo e aveva incontrato una donna bella da levare il fiato, più giovane di dodici anni. Se l’era sposata con un impeto pari a quello dell’attaccante che fa il gol più spettacolare della sua carriera. Cazzo quant’era bella Liliana, con quei tratti orientali presi dalla madre e un corpo avvenente, i capelli lunghi e lucidi come seta, le labbra rosse e corpose che ti facevano venire voglia di mangiarle, i seni  piccoli e pieni con due capezzoli che diventano piccole cupole tra le dita… e ora tu Martini del cazzo ti presenti qui e mi chiedi come sto? Dieci anni fa dovevi chiedermelo… mi faccio le seghe pensando a quella puttana che mi ha lasciato con l’inganno Martini. Eh già… tu magari tua moglie manco te la scopi più, vi sedete alla tv la sera e vi bevete le stronzate delle fiction, lei è sfatta e tu ti sei fatto l’amante. Io no Martini, io avevo un lavoro una casa e una famiglia, avevo due figli, due maschi anch’io. Avevamo comprato una casa che per averla ci siamo indebitati fino al midollo, perché Liliana amava le belle cose, la bella vita, la bella gente. E dopo la casa la villa in campagna, perché Liliana amava i cavalli e voleva che anche i suoi figli amassero i cavalli e il proprietario di quella tenuta aveva i cavalli Martini, pensa che stupido. Un uomo brutto come pochi, un coglione con i soldi e i cavalli. E li ho trovati io a letto insieme e quella notte me la sono scopata perché si ricordasse come si scopa, e lei godeva Martini, sapessi come godeva…. Se non fosse stato per quel corpo che mi faceva impazzire avrei dimenticato che era la madre dei miei figli e l’avrei ammazzata quella cagna ambiziosa. Adesso si prende anche la casa, io non riesco a pagare gli alimenti, Martini, peso centoventi chili e bevo, pensi potrei fare lo psicologo in queste condizioni? Ai miei figli faccio schifo, loro vanno a cavallo nella tenuta del loro nuovo padre e lei è diventata la padrona là dentro Martini e dice che non ho mai avuto spina dorsale, che non sono un buon padre, che non valgo niente….. e tu ti presenti adesso e mi chiedi come sto? Sto che sto tornando in uno schifo di appartamento in affitto dove devo raccogliere il vomito che ho lasciato ieri sera, birra e cioccolata,  e che  ho avuto quasi un infarto stanotte… vaffanculo Martini… vaffanculo…
«Enea… Enea.. ma ti senti bene….?…»
«Cosa?…. io? Sì, sto bene… scusa… scusa Martini, oggi è una giornata un po’ storta, magari ci sentiamo e ci vediamo un’altra volta»
Certo, certo… ma sei sicuro di star bene?»
«No, non sto bene affatto, ma ho un appuntamento con un paziente tra poco, sai, faccio lo psicologo, devo andare, scusa Martini, devo andare»
«Ti lascio il mio biglietto da visita, ci sono i miei numeri, chiamami mi raccomando, tu sei su face book? Davvero, organizziamo una sera anche con gli altri.»
«No, non ci sono su face book , ti chiamo magari, adesso devo andare, sono in ritardo. Mi ha fatto piacere Martini.»
«Anche a me Enea….. fatti sentire mi raccomando.»
Enea si incamminò e sentì che Martini alle sue spalle era rimasto immobile a guardarlo, perplesso. Faceva di sicuro pena anche a lui.
«La stessa faccia, ha detto che ho la stessa faccia, ma vaffanculo…. »
Diede un’occhiata al biglietto: Lucio Martini, Sales Account Executive. BMP.
«Che cazzo fa un sales account executive? Sei ancora lì che guardi Martini? E allora guarda, guarda che ci faccio con il tuo biglietto da visita del cazzo.»
Enea strappò il biglietto in due, quattro, sei pezzi pensando ai bigliettini con le versioni di latino che gli passava Martini. Poi se li buttò alle spalle.

 

M’AMA – Dialogo con occhi liquidi

occhi_manga2«Ti prego Sauro, apri la bocca, non serrare i denti, sono due cucchiai di minestra, non mi fare diventare matta per due cucchiai di minestra che oggi non è giornata. Ecco, sì, così, lo vedi che se vuoi sei bravo? Apri, così, che è quasi finita.»
«Allora, come va oggi il nostro giovanotto?»
«Va che per mangiare è sempre un problema, sembra essere tornato indietro,  fa i capricci come i bambini.»
«Ma lo sai che ho l’impressione che lo fa più con te? Vero signorino? Facciamo le bizze con la mogliettina qui!»
«Ah ma se è così io il posto lo lascio volentieri a qualcun altro! Aspetta..  puliamo un po’ la bocca. Ora indovina un po’, c’è il frullato, l’ho fatto prima di venire Sauro, fresco e dolce come piace a te, c’ho messo anche la banana.»
«Vi lascio Nina, la flebo è a posto, se hai bisogno suona.»
«Grazie Angela…. Attento Sauro che t’ho visto sai, con quegli occhi.. quando vuoi li giri eh! Lo so, Angela è carina e a te le donne sono sempre piaciute. Dai che finiamo il frullato così ci rilassiamo un po’… bravo ecco, così, questo ti piace. Servito e riverito, e chi sta meglio di te? Adesso ti alzo il letto, appena mangiato è meglio se stai su… ecco fatto, va bene? Vado in bagno a lavare lo posate…. Lo sai? Mi senti da qui? Mauro ha preso cinque a matematica e sei al compito di italiano. Secondo me questa professoressa di italiano lo sta aiutando, voti così a italiano non li ha mai presi. Per via della dislessia sai…. Te lo ricordi? Lui però continua a rifiutare una certificazione, io l’avrei fatta, ma lui dice che vuol farcela da solo, che non gli va d’essere considerato una specie di handicappato. Io gliel’ho detto che non c’entra niente, ho cercato di spiegarglielo, ma è testardo quel ragazzo. Chissà da chi avrà preso. Comunque questa insegnante dice che è ammirevole lo sforzo che fa per scrivere, anche se studiare dice studia poco. E lo vedo anch’io che fa poco o niente. Dicono tutti che è sveglio, ma non si impegna. Però Sauro, non so cosa ne pensi tu, ma io non me la sento di forzarlo. Povero ragazzo, con te chiuso qua dentro e una nonna a casa che vegeta nel letto è un miracolo che non sia per strada a drogarsi. Se va così così a scuola chi se ne importa, no?
Ma sì…. che ne sai tu… che scema, ancora mi illudo tu possa rispondermi. Non mi guardare con quegli occhi Sauro, ti prego. È il medico che dice ti devo parlare e ti devo raccontare tutto, dice che questo fa bene a te e secondo lui farebbe bene anche a me. Che ti devo dire? Non lo so, ma lo faccio. Metto a posto le posate e mi siedo anch’io. Ah! Devo ricordarmi di portare via il sacchetto con la biancheria sporca che ieri l’ho lasciato nell’armadio.
No, stai tranquillo, non sto andando via. C’è Mauro che è rimasto a casa con mamma. Solo metto il sacchetto fuori così me ne ricordo… ecco fatto.
Cosa credi?   Se mi siedo qui mi riposo un po’ anch’io. Sono così stanca Sauro, non riesco nemmeno a dirlo, ma almeno a te posso dirlo no? Non è facile per niente. Ah… quasi dimenticavo, Gimmi  per qualche giorno non viene, sta studiando come un matto, ha un esame grosso la prossima settimana. Mi ha anche detto il nome… il nome, insomma, sì, la materia… la testa non mi regge più… non me lo ricordo. Non ti senti un po’ orgoglioso? Gimmi sta andando bene all’università, gli piace proprio e riesce anche bene. Tu ne saresti contento, cioè… ne sei contento, vero Sauro? Ti prego, prova ogni tanto a fare uno sforzo, un cenno, dimmi in qualche modo che capisci quello che ti sto dicendo… mi guardi mi guardi….
Dammi la mano Sauro, prova a stringerla un po’. Mi senti? La senti la mia mano? Lo so Sauro, ho il viso invecchiato, perfino troppo per la mia età. Non sono più la ragazza di una volta, ma quella non posso farla tornare. Credimi, se potessi lo farei Sauro.  Ma sono sempre io. Te le ricordi come mi chiamavi quando eri in vena di tenerezze? Malandrina. La mia malandrina dicevi. Lo sai? Certe sere resto seduta al buio in cucina, magari i ragazzi sono fuori e c’è un bel silenzio. Allora cerco di sentire la tua voce… quando i bambini dormivano e tu spuntavi alle mie spalle e mi dicevi “che dici malandrina, ci mettiamo a letto?” Io lo sapevo cosa significava.
Adesso mi sembra sia successo secoli fa, in un’altra vita, come se fossimo stati costretti a lasciare la nostra casa per traslocare in un’altra, da una casa che ci piaceva e che avevamo scelto a una che non ci piace per niente. Ma sai qual è la cosa che più mi dà fastidio Sauro? Che mi sono rassegnata, non sono più nemmeno arrabbiata  come prima. La casa non mi piace ma è quella e ci devo stare, non ho scelta.
È dura Sauro. È dura. Ma già, tu che ne sai? Tu te ne stai qui, circondato da medici e infermieri che ti curano e ti lisciano il pelo, che ti tengono in vita…. Se almeno mi dicessero tu potessi tornare come prima. Che ne sai di quant’è faticoso là fuori da soli? Mamma sta anche peggiorando. Mi dicono tutti che dovrei prendere una badante. Facile a dirsi, come la pago una badante? Già riuscire a mantenerti qui è un miracolo, e meno male che i ragazzi si danno da fare. Mauro sta lavorando i fine settimana in una pizzeria, ma forse te l’avevo già detto questo. Insomma, loro s’arrangiano, poveri ragazzi. Avevo immaginato una vita diversa per loro.
È brutto quando vedi che la vita non è clemente e non puoi chiedere che lo sia solo per te, cioè io va bene, ma loro no… perché devono pagare un prezzo così alto?
Scusa Sauro, forse ti sto rattristando, ma se non parlo con te con chi parlo? Non so quello che provi, non capisco se hai emozioni, i medici mi dicono di sì, ma…
Ma, ma, ma… la verità è che ho dovuto accettare la malattia, per forza, siamo condannati tutti e due, tu ed io. Non ho nemmeno cinquant’anni e guardami come sono ridotta. Casa ospedale ospedale casa… chi se l’immaginava che sarebbe andata così Sauro? Sembravi così forte.
Va beh, facciamoci coraggio, io adesso devo andare, devo passare dal supermercato a fare la spesa e a ritirare le ricette dal dottore per mamma, anzi, dovrei anche passare in farmacia a prenderle le medicine.
Ci vediamo domani Sauro, te lo ricordi no che è giovedì e ho il turno lungo in ufficio, arrivo più tardi.
Dammi un bacio amore mio.»
Chiara posò le labbra su quelle di Sauro e per un secondo le sembrò che quelle tremavano al contatto con le sue. Ma fu solo un attimo. Sauro la guardò con i suoi occhi liquidi mentre si incamminava verso la porta. Chiara, come sempre, si voltò e gli fece cenno con la mano.

 

La missione (Un ragazzo e un partigiano)

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Nella penombra della stanza echeggiavano rumori di spari, lamenti di uomini morenti. Nino incuriosito entrò e vide un ragazzo con lo sguardo incollato a un monitor. Il ragazzo non si accorse della sua presenza, così Nino prese una sedia e gli si sedette accanto. Non doveva avere più di sedici anni, era intento a muovere una scatola grigia sulla superficie del tavolo. La mano non mollava la presa, sembrava incollata.
«E vai, beccati questa, t’ho preso!» Urlò il ragazzo. Nino nel monitor notò un uomo con una divisa tedesca che giaceva accanto a un cumulo di terra in una pozza di sangue.
«L’hai ammazzato tu?» Domandò timidamente al ragazzo, ma quello sembrò non sentire e continuò a picchiare sui tasti.
«Quel tedesco lì… l’hai ammazzato tu?» Riprovò con cautela.
«Shsh, zitto, sono vicino all’obiettivo, devo finire questa missione.»
«Una missione? Che missione?»
«Il cuore del Reich». Rispose il ragazzo senza staccare gli occhi dal video.
Nino a quella parola trasalì, il tedesco era una lingua che lo inquietava:
«Il cuore del reich? E cos’è?»
«È la missione 11, sono alla fine, non mi distrarre. Vai.. così, attento alle spalle!»
Il ragazzo aveva urlato di nuovo, tanto che Nino si voltò di scatto per vedere chi avesse lui alle spalle: ma nella stanza non c’era nessun altro. Allora comprese che a doversi guardare alle spalle era l’uomo nel monitor.
«Chi è quell’uomo?» Sussurrò Nino.
«Sono io, cioè lui è Miller, ma sono io…»
Nino era confuso, gli uomini nello schermo in bianco e nero erano veri, sembrava una ripresa di qualcosa che stava accadendo, la registrazione di un’azione di guerra. Inchiodò lo sguardo al monitor e la paura ricominciò a farsi sentire. Era la stessa paura che aveva dovuto combattere a lungo i primi tempi, dopo essersi arruolato. Era stupito che al contrario il ragazzo fosse così tranquillo. Quell’uomo, Miller, non aveva la stessa divisa degli altri e il nome non era tedesco, forse era americano, o forse il suo era un nome in codice.
«Qual è la tua missione, o quella di Miller, non ho capito bene.»
«Devo neutralizzare le postazioni tedesche all’interno del Reichstag».
Nino non conosceva il tedesco, ma di tedeschi però ne aveva sentiti parlare, quanto bastava per sapere che la pronuncia del ragazzo non era un granché. E comunque lui il tedesco non lo sopportava, quindi cosa diavolo fosse il reichstag proprio non lo voleva sapere. La prima volta che li aveva sentiti, i tedeschi, era acquattato nel fondo di una grotta, su nel bosco sopra Farneta. Lui e Mariano erano rimasti là dentro una notte intera senza nemmeno respirare per il terrore che i cani li scoprissero, immobili, al freddo, con le mani e i piedi che non li sentivano più e davvero quella notte aveva pensato di morire, con l’unica consolazione che era sempre meglio morire di freddo piuttosto che nelle mani dei tedeschi. Quando avevano sentito le voci allontanarsi ormai era giorno fatto, ma avevano atteso ancora prima di uscire e rimettersi in cammino. Il pomeriggio di quello stesso giorno avevano saputo che nell’imboscata i tedeschi avevano preso Ivo e Tonio. Li avevano portati giù al paese e li avevano trascinati per i vicoli a spintoni, nella neve, nudi e scalzi. Si erano fermati alla fontana, nella piazzetta, e un ufficiale aveva sparato un colpo in aria: le finestre erano rimaste tutte chiuse, nel silenzio spettrale di un paese che sembrava abbandonato. L’ufficiale urlava minacce contro quelle finestre in un italiano stentato, mentre i suoi uomini avevano le armi puntate contro Ivo e Tonio, in ginocchio davanti a loro. Poi l’ufficiale aveva riso a quelle finestre mute, una risata sguaiata che aveva fatto tremare l’aria fredda della valle, si era rivolto ai suoi uomini e aveva dato l’ordine di sparare. Ivo e Tonio erano rimasti a sanguinare sulla neve bianca, proprio lì, sotto gli occhi di tutti.
“Fai come ti dico e vendicheremo questo massacro, ho la mano ferita e non posso sparare, lo farai tu per me”. A parlare era stato l’uomo nel monitor e Nino gli fu grato perché lo aveva distolto dai brutti ricordi; ora che era riuscito ad allontanarli quando tornavano erano ancora più terribili. Non ebbe il coraggio di fare domande al ragazzo, vide che l’uomo si era alzato in piedi, aveva un fucile in una mano ferita e una bomba nell’altra. Il ragazzo sembrava essere al culmine della tensione, ma Nino non avvertiva il sudore dell’eccitazione bastarda che si prova un attimo prima di sparare. Per lui quello era uno strano modo di compiere missioni.
“Prendi il mio fucile e guarda la strada, il figlio di puttana è il generale Heinrich Amsel, responsabile dell’assassinio a sangue freddo di donne, uomini e bambini.”
Sullo schermo era comparso in primo piano un mirino puntato dritto sulla testa del generale. Nino, incredulo, stava col fiato sospeso: dunque era possibile uccidere un generale tedesco stando seduti al caldo? Come mai nessuno aveva mai parlato di quel marchingegno?
“Cecchino e cacciatore hanno lo stesso problema: spara al momento sbagliato e avrai perso per sempre la tua occasione. Ora concentrati, carica il fucile.”
Pochi secondi e il ragazzo spinse un tasto: partì uno sparo, giù un soldato, riprese la mira, un altro sparo e giù il secondo soldato e così anche il terzo.
“Ottima mira, sei un cacciatore nato.” Il soldato saltò da un muretto seguito dal mirino del fucile, Nino cominciò a capire che era il ragazzo ad avere il controllo di quell’arma.
“Fermo, la pattuglia armata. Dobbiamo trovare un altro modo per raggiungere Amsel, resta basso e seguimi. Presto, da questa parte – una breve corsa e furono all’interno di una casa in fiamme – per giorni ho strisciato come un ratto. In questo posto risuonavano le voci di amici e amanti. Quel tempo è passato. Ascoltami bene: un giorno le cose cambieranno, porteremo la guerra sulla loro terra, tra la loro gente”.
Uscirono dalla casa in fiamme e furono di nuovo all’aperto, in un’aria grigia di fumo e nuvole nere. All’improvviso si udirono voci e latrati di cani, i tedeschi dovevano essere vicinissimi. Nino cominciò a sudare e tremare. Il ragazzo invece sembrava impassibile.
“Ci hanno trovati, i tedeschi, andiamo – le fiamme intorno a loro erano sempre più alte – stanno cercando di bruciarci, stai giù, cerca di non respirare.” Avanzavano strisciando su un viottolo di pietre dure e aguzze. Nino poteva sentirle nella carne, il ragazzo invece sembrava non provare nulla. Erano circondati da spari e macerie.
“Stanno circondando l’edificio, dobbiamo fare presto, o ci ammazzeranno come cani. Corri.”

“BANG”. Un colpo, freddo, secco e il fucile sparì dal monitor.

«No cazzo, fottuto di un tedesco, mi ha preso!»
«Ti ha preso?»
«Mi ha ammazzato. Morto»
«Morto?»
«Morto morto, missione fallita!»
Il ragazzo aveva un’aria delusa, i suoi occhi azzurri sembravano un lago in una giornata di pioggia. Premeva sulla scatola grigia e le immagini apparivano e scomparivano dal video.
«Posso chiederti cos’è questa macchina?» Chiese Nino.
«Quale macchina?»
«Questa che stai usando, non l’ho mai vista.»
«È un Mac…»
«Mac? Non l’ho mai sentito. Ma tu fai parte di qualche brigata?»
«Brigata? Che brigata?»
«Io per esempio ero nella Brigata Garibaldi.»
«No, non l’ho mai sentita, è un video gioco nuovo?»
«Video gioco? Che cos’è?»
«Questo è per Mac e Playstation…»
«Non capisco ….»
«Ma da dove vieni? L’avrai visto un computer?»
«Sai, una volta, tanto tempo fa, io sono stato in questa casa, ma era tutto diverso. Sono rimasto tre settimane nascosto in un fienile, l’ho cercato, ma sembra non ci sia più. Tu sai ne sai qualcosa? »
«Un fienile? Qui? Mai visto.» Il ragazzo non si era mai voltato a guardare Nino in faccia, intento com’era a fissare il monitor.
«Peccato, ero curioso di sapere se c’era ancora la stessa famiglia, alcuni sono morti con me. Ci hanno preso per una soffiata.»
«Ma di che razza di video gioco stai parlando? Io me ne intendo, ma questo non l’ho mai sentito!» Intanto il ragazzo stava sfilando un disco argentato da una fessura.
«Gioco? Gioco dici? No, non era un gioco… ma tu… quello che hai fatto tu finora, cos’era? Non era una missione?»
«Era la missione di un gioco!»
Nino abbassò la testa confuso, un’altra volta sconfitto; era passato del tempo, avrebbe dovuto immaginare che le cose erano cambiate. Poi guardò il ragazzo, sperando che almeno una volta lui si voltasse e lo guardasse in faccia. Non si conoscevano, eppure avrebbe voluto la sua attenzione. Lo sguardo rimase appeso a un futuro a lui ignoto. La cosa lo rattristò. Poi disse mestamente:
«Però… chi ci pensava? Sai quante vite salvate se solo avessimo avuto un marchingegno come questo? Ivo, Tonio, io, Mario.. sai quanto sangue e dolore avremmo risparmiato?»
«Sono i tuoi compagni di gioco?» Chiese distrattamente il ragazzo.
«Sì…. – rispose Nino sorridendo – erano i miei compagni di gioco.»
Il monitor adesso era nero. Clic. Spento.
Finalmente il ragazzo si voltò di scatto, quasi avesse avuto un’improvvisa illuminazione:
«Ora che ci penso, ma tu chi sei, come hai fatto a entrare?»
Nella stanza regnava la penombra e il silenzio, tutto era come sempre e non c’era nessuno.

Un unico, diverso particolare, accanto a lui una sedia vuota che prima non c’era.

Nella foto:
Antonio Boschieri nato a Biadene nel 1921, partigiano sul Monte Grappa col nome di battaglia “D’Artagnan”. Combattè nella Brigata G. Matteotti come comandante del battaglione Zecchinel. Combattente amato e stimato dai compagni di lotta, partecipò a moltissime e pericolose missioni e azioni culminate nei tragici combattimenti del settembre 1944 durante il rastrellamento del Grappa da parte dei nazi-fascisti. Catturato, fu a lungo torturato ma non rinnegò le sue idee nè tradì i suoi compagni. Fu impiccato ad Arten di Feltre il 27 settembre del 1944. Aveva 23 anni…

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