Realtà, cronaca, giallo

Antonio Pagliaro è autore di romanzi prevalentemente gialli. In passato ho seguito la sua produzione letteraria sin dalla lettura de Il sangue degli altri (Sironi) perché ho una predilezione per il genere e perché ne ho sempre apprezzato la scrittura.

Con l’ultimo romanzo Morirono nella notte, Il mistero della White House Farm, Pagliaro conferma la sua vena indagatrice nell’ambito del true crime, storie di intrecci e delitti ispirati a fatti realmente accaduti.

E come nel romanzo precedente, Storia terribile delle bambine di Marsala (qui la mia intervista all’autore https://www.pangea.news/antonio-pagliaro-intervista-grandinetti/ ) che racconta la storia vera del terribile rapimento di tre bambine avvenuto a Marsala nel 1971 in cui l’autore costruisce un’opera a metà tra reportage e narrazione, anche Morirono nella notte si ispira a un fatto vero di cronaca: il 7 agosto 1985 Nevill e June Bamber, la figlia adottiva Sheila e i gemelli di sei anni Nicholas e Daniel, figli di Sheila, vengono trovati morti nella casa di campagna nell’Essex, uccisi a fucilate.

Cinque morti in quella casa di campagna chiusa dall’interno.

In un crescendo di fughe in avanti e flashback, l’autore ricostruisce i personaggi, i fatti, le fasi investigative, il circuito di sospetti sull’unico superstite della famiglia, Jeremy Bamber, anche lui figlio adottivo dei Bamber.

Ci sono storie che avvengono sotto i nostri occhi, terribili e drammatiche, che producono ciò che definiamo “il male”. Questa è una delle cose che apprezzo nei romanzi di Antonio Pagliaro, compreso quest’ultimo: la ricerca dell’assassino, della verità, delle connessioni criminali, è sempre un’indagine sulla natura umana in determinati contesti. Spesso celano misteri, qualcosa che si annida nel “non detto”, che rimane incompreso, che non permette di mettere i pezzi nel modo giusto.

In Morirono nella notte ci sono gli anni Ottanta con i pregiudizi, l’ipocrisia e la grettezza di una certa società inglese (che di recente è tornata di moda e agli onori della cronaca patinata con la morte della Regina e le vicende dei reali di Windsor)

C’è soprattutto il protagonista della vicenda, Jeremy Bamber, che Pagliaro tra realtà e finzione trasforma in un personaggio fragile e forte nello stesso tempo, sottoposto a una vicenda legale estenuante in cui i numeri fanno impressione: centoventidue. Sono le celle in cui ha dormito.

E’ lui il mostro che ha sterminato la sua famiglia? O è stata la sorella Sheila, fragile di nervi, schizofrenica, che molti tuttavia giurano in vita non avesse mai toccato un’arma? O qualcun altro è entrato senza lasciare tracce in quella maledetta casa la sera del 7 agosto?

Cos’è alla fine, quella che chiamiamo giustizia? Qual è la verità che cerchiamo a ogni costo?

Sheila giace nuda, si è sparata?

Ha scritto I hate this place, c’è una Bibbia con lei.

Il male è dunque sconfitto?

Il finale dei gialli non si svela mai, e in questo in particolare, anche perché, in definitiva, non è così importante: la cronaca ricostruita passo dopo passo, anno dopo anno, tesse un intreccio ricerche e indagini in cui compaiono investigatori talvolta superficiali che si susseguono e hanno teorie contrastanti. Una vicenda giudiziaria incredibile, avvincente e nel contempo crudele.

IL ROMANZO

Il 7 agosto 1985 Nevill e June Bamber, la figlia adottiva Sheila e i gemelli di sei anni Nicholas e Daniel, figli di Sheila, vengono trovati morti nella casa di campagna nell’Essex, uccisi a fucilate. Porte e finestre sono chiuse dall’interno; Sheila è morta arma in mano e una Bibbia a fianco. La polizia è stata avvertita da Jeremy, altro figlio adottivo di Nevill e June, svegliato nella notte da una telefonata del padre. Sembra un caso semplice di omicidio-suicidio, ma qualche mese più tardi, Jeremy, dopo indagini private condotte da familiari in lotta per l’eredità, è arrestato e in seguito condannato. Ancora in carcere nel 2023, si è sempre detto innocente, e forse lo è, come d’altra parte Sheila. Ma chi ha ucciso i Bamber? Morirono nella notte è una storia misteriosa di morte e crimini violenti, amore e tradimenti, vendette, fanatismo religioso e malattia mentale. Ci sono la lussuria degli anni Ottanta e l’omosessualità impossibile, la piccolezza della provincia inglese, la corruzione e l’errore giudiziario, molti soldi, armi e centoventidue celle di prigioni britanniche

Antonio Pagliaro

L’AUTORE

Antonio Pagliaro è autore dei romanzi Il sangue degli altri (Sironi, 2007; Laurana, 2022), I cani di via Lincoln (Laurana, 2010), La notte del gatto nero (Guanda, 2012), Il bacio della bielorussa (Guanda, 2015), e dei true crime Il giapponese cannibale (Senzapatria, 2010) e Storia terribile delle bambine di Marsala (Zolfo, 2020)

RECENSIONE su ZoomSud

La recensione di Maria Franco su ZOOMsud

«Cosma Pascale morì di setticemia all’età di diciassette anni, alle sedici e quaranta di un pomeriggio del novembre del 1927.» Una fine ingiusta causata da un aborto imposto dalla piissima “padrona”, sempre presente alle funzioni in chiesa, per “cancellare” la violenza perpetrata dal di lei marito nei confronti di una “serva” bellissima – «aveva un viso da zingara con lunghi riccioli neri, la pelle chiara e gli occhi grandi, morbidi come uva fragola matura» – che aveva sogni semplici e tenere attese per il suo futuro. Lo spirito di Cosma, rimasto in casa a torturare per anni lo stupratore, dopo la morte di lui, s’era messo a correre per le vie di Sovara: e i vecchi del paesino dell’appenino calabro raccontavano che si rivelasse soprattutto quando il vento era più forte e tempestoso.

Anni dopo, Cettina cresce nella costante presenza di Cosma, fantasma inquietante e abbraccio rassicurante: «Quella presenza finì per seguirla e spesso le aggrediva la mente in relazione alle cose più improbabili. E se all’inizio furono i temporali, poi cominciarono ad essere le bambole che questa disperata non doveva aver avuto. O il pane, quando usciva caldo dal forno, o la mela strappata dal ramo e mangiata a morsi.»

È una famiglia, quella di Cettina, in cui ipocrisia, violenza, incapacità di mostrare amore, parole rapprese, sviluppano un malessere che le produce un unico desiderio: scappare, come voglia di fuga le induce il paese, troppo immobile rispetto al suo bisogno di orizzonti larghi. Partendo per Milano, lascia un unico affetto: l’amica Tilde, cui racconta in seguito non poche bugie perché la vita che costruisce nella grande città non è quella di grande artista che aveva sognato di realizzare.

Solo dopo decenni, quando le circostanze la costringono a lasciare Milano, Cettina torna a Sovara – è il 18 giugno del 2012 – e, insieme a Tilde, affronta la verità su se stessa, la sua famiglia, la famiglia dell’amica. E la casa, che le era nemica, e il paese che le era estraneo, diventano i luoghi in cui l’esistenza, nonostante tutto, può rifiorire.

Pietra Luna, edito da A&B di Daniela Grandinetti – nata a Lamezia Terme, dove è tornata a vivere dopo trent’anni passati tra Firenze e la campagna mugellana – è un romanzo dalla storia coinvolgente e dal linguaggio scorrevole, i cui toni delicati danno risalto ad una vicenda che non manca di durezza e anche di asprezza.

Cettina e Tilde sono due amiche, il cui affetto non viene meno con la lontananza e neppure nei momenti di “rottura” e che mostrano anche due aspetti del rapporto con la Calabria: la “partenza” e la “restanza”. Cettina, in conflitto con se stessa oltre che con la famiglia, lascia Sovara, senza riuscire a centrare i suoi obiettivi a Milano e, di bugia in bugia, costruisce, di se stessa, un falso personaggio. Tilde, che più facilmente si adegua al ruolo di moglie e madre e si adatta ai limiti economici e sociali (il lavoro da bidella, la vecchia casa riadattata) rimane in Calabria. Entrambe, però, sono misteriosamente legate alla storia delle donne del paese attraverso il riferimento a Cosma, quasi un mito della loro infanzia che continua ad accompagnarle anche dopo che hanno superato la cinquantina. Cosma – personaggio indimenticabile (il racconto delle sue vicende è un piccolo romanzo) – è, per loro, quasi un genus loci, che, nonostante i colpi della vita e la cattiveria delle persone, continua a parlare ai loro cuori attraverso la bellezza della natura. Fiori, piante, boschi e cascate dicono «di infanzia e di meraviglia. Di bellezza e solitudine. Di innocenza e difesa.»: «“Noi non muoviamo un passo senza essere sicuri di quello che facciamo – disse Tilde fissando un punto nel cielo – invece dovremmo muoverci, andare, ma non andare con una valigia in mano e un mezzo di trasporto qualsiasi, per quello sono buoni tutti. Andare, senza timore, usando le gambe e il cuore. Perfino a Sovara, che ormai sembra dimenticato da dio e dagli uomini, guarda che paradiso esiste.” Era vero, pensò Cettina, la meraviglia può non avere a che fare con gli uomini, forse è una faccenda di dio, se ci credi.»

*Daniela Grandinetti, Luna Pietra, A&B editrice, pp.162, euro 18

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http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108688-la-recensione-luna-pietra-daniela-grandinetti-a-b-editrice

Cuori di nebbia

Quand’è che un romanzo “vale”? quando, come in questo caso, ti viene voglia di comunicare che nel mare dei libri per caso, c’è qualcosa di cui valga la pena parlare per fermare le impressioni e provare a restituirle a chi legge, fare da passaparola a chi  non vive nel mondo dei libri. Perché esiste un mondo al di fuori, eccome se esiste.

Io non amo la nebbia, l’ho conosciuta in Mugello dove ho vissuto per anni: quella coltre di umidità che penetra fin dentro le ossa e le rende doloranti, che ammanta le cose e ti fa perdere i contorni,  le definizioni.

Eppure ho amato questo romanzo in cui la nebbia è la protagonista che avvolge  vite piatte, comuni, esangui, nella “bassa” emiliana.

A rendere questo romanzo così autentico e bello sono i personaggi e il modo in cui è costruita la trama, che ho immaginato iscritta in una circonferenza: in quel pezzo di pianura sette personaggi dall’esistenza contigua, inconsapevolmente precipitano verso un centro che, in un modo o nell’altro, li inghiottirà.

Costruito come un noir nel quale ogni capitolo è un personaggio che si svela un pezzetto per volta a un lettore che mette insieme tessere di un mosaico verso lo svelamento finale, solo in apparenza le vicende non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra, al contrario sono intrecciate e anche laddove non lo fossero si sfiorano avvolte nella nebbia senza riconoscersi, senza toccarsi o toccandosi senza che il tatto riveli la sostanza di cui sono fatte.

Ciascuno percorre il proprio raggio, verso il centro, luoghi in comune, vagando a tentoni come in una mosca cieca.

Sette personaggi, sette anime che alla ricerca della felicità attraversano la campagna, la miseria, il lavoro bestiale per i soldi da mettere da parte, la statale dove corrono Tir che trasportano merci, ma merce sono anche i corpi, e noi lì a leggere quel pezzetto per volta e metterlo accanto all’altro, confusi dalla nebbia iniziale cominciamo piano piano a capire,  a vederci meglio. Fino al centro, fino al cuore della storia e della nebbia.

Ognuno in fondo alla ricerca della propria salvezza, ogni pezzetto guadagnato per sé e sé soltanto, i personaggi/paesaggi siamo anche noi: quello che siamo diventati.

Sette inconfondibili voci ve lo racconteranno fino a sbaragliare la nebbia lattea su eventi inattesi che sveleranno nel colpo di scena un’umanità infinitamente ingenua, dolce, egoista che l’autrice ha saputo rendere viva anche grazie a una  lingua parlata attraversi i corpi.

Un romanzo fisico, di parole scritte sulla pelle a sangue saliva e lacrime, tra casolari e fosse colme di letame nella pianura emiliana degli anni ’90. Come dire: oggi.

La rassegna stampa su TerraRossa Edizioni

https://www.terrarossaedizioni.it/negozio/cuori-di-nebbia/

Il romanzo

La pianura emiliana nei tardi anni ’90, avvolta dalla nebbia e dallo squallore: è qui che per un beffardo scherzo del destino si incrociano le esistenze dei protagonisti di questo noir senza redenzione. Filippo che va a puttane, sua moglie Mirella che se ne rallegra, Nicola che spia le coppiette, Natascia che ha fatto della menzogna e del suo corpo armi letali, Francesco e Patrizia che corteggiano la morte, Mirco che attraversa la notte con colpevole candore: ciascuno di loro ha un vizio o un’ossessione che lo condurrà senza rimorsi a confrontarsi con il lato oscuro del proprio cuore.

L’autrice

Licia Giaquinto

Licia Giaquinto è nata in Irpinia, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ora vive a Bologna. Ha esordito nella narrativa con Fa così anche il lupo (Feltrinelli 1993), a cui sono seguiti È successo così (Theoria 2000), Cuori di nebbia (Dario Flaccovio 2007, ora riproposto da TerraRossa Edizioni), La ianara (Adelphi 2010), La briganta e lo sparviero (Marsilio 2014). Ha scritto anche testi teatrali, l’ultimo è Carmine Crocco e le sue cento spose. È ideatrice e anima dell’associazione Aterrana – Ater Ianua che vuole contrastare il degrado e lo stato di abbandono del borgo storico di Aterrana (Av).

UN ROMANZO DI LUOGHI E PERSONE

Recensione

Questo romanzo, fatto di luoghi e di persone, racconta la nostra Calabria incastonata in una storia che evolve con essa nella trasformazione del territorio, nell’inevitabile fluire del tempo fatto di un “prima” (passato), di un “adesso” (presente) e di un “poi” (futuro). I luoghi della Calabria, dunque, fanno da cornice ai fatti raccontati e al tempo entro al quale si svolgono.

Il tempo del “prima”, risalente agli inizi del Novecento, porta con sé un racconto soffiato dal vento impetuoso di Sovara e srotolato, tra le generazioni, per dare testimonianza dei luoghi che, pur abbandonati, possiedono una storia che li preservano dalla morte.

Storie amare quelle di un tempo. Il tempo dei nostri contadini e pastori che, sotto il peso delle fatiche, vivevano di stenti e privazioni resi ancora più duri da una sorta di individualismo rafforzato nella nostra Calabria dalla montuosità del territorio e dalle sue terre non sempre generose.

Dal tempo del “prima” si appropria quello dell’“adesso”. Il tempo nostro dei luoghi, dei paesi che subiscono l’abbandono, come quello di Sovara, protagonista di uno spopolamento sempre più incalzante dei comuni montani del nostro Paese, diventati nel tempo dei veri e propri ghost town. Oltre questo tempo, si desume che all’autrice piaccia pensare a quello di un “poi”, speranza auspicabile di un ripopolamento dei paesi che, fra le altre cose, attraverso varie strategie politiche, sembra stia già avvenendo in borghi abbandonati, Pentedattilo o Laino Castello sono tra questi.

Un’impresa difficile ma non impossibile perché i luoghi vivono fino a quando le persone sono legate ad essi. E il ritorno è sempre cambiamento, una sfida verso il luogo natio che non è più lo stesso; lo sa bene Cettina, una delle protagoniste del racconto così come tutte quelle persone che guardano alle proprie radici indossando quegli occhiali che solo una vita trascorsa lontano dalle proprie origini ti può donare.

Le migrazioni di “prima” e quelle di “adesso” entrambe legate dalle medesime motivazioni di chi è costretto ad abbandonare luoghi “vivi” per un “altrove” che, pur benevolo, è privo di memoria, di legame fisico e affettivo; di chi ha voglia, dopo essere partito, di tornare, consapevole che pur nella rovina delle cose, a causa dell’abbandono, ha la possibilità di riconnettersi con un passato che dura attraverso le cose nel presente. Filo sottile teso dal ricordo dei padri.

Da questi luoghi carichi di senso, sgusciando, prendono forma le persone e tra queste due donne sono le protagoniste: Cosma e Cettina; vittime della povertà e di una cultura patriarcale che condanna il genere femminile, a ruolo di sottomissione, mediante la violenza fisica o psicologica.

E poi ci sono gli uomini, a mio avviso, i veri perdenti perché escono da questa vita nella maniera più triste che un essere umano possa affrontare, ossia quella della solitudine e dell’abbandono.
Questa sarà la sorte di don Natale che rimasto solo, dopo che la morte avrà falciato la sua intera famiglia, vivrà la sua estrema ora nel buio di una notte solitaria, in compagnia del suo solo fantasma che gli è sempre accanto, vigile a ricordare il male commesso e non lo lascerà fino al suo ultimo istante di vita. E quella del padre di Cettina, nonché marito di Elvira, che trascorre la sua esistenza a riempire con la forza e il potere il proprio serbatoio affettivo, ignaro che questi mezzi non ripagano con il calore dell’affetto, perché l’amore non lo si può ottenere attraverso la paura. Egli, infatti, trascorrerà gli ultimi anni della sua vecchiaia a brancolare nel buio della sua mente dopo aver fallito nel suo ruolo di marito e in quello genitoriale, condizionando fortemente la figlia Cettina nelle sue scelte di vita.

Il romanzo è reso ancora più intenso dall’utilizzo della tecnica del flashback che, intrecciando il presente con il passato, dà al lettore la possibilità di comprendere vite lacerate, percorsi di crescita segnati da paure e conflitti che ostacoleranno per sempre la possibilità di un vivere sereno.
Ciononostante, non bisogna darsi per vinti. Commuovente è il ritorno della protagonista al suo paese. La sua esperienza di violenza psicologica e fisica avrà un impatto notevole sulle sue scelte di vita che la renderanno un personaggio resiliente poiché, mettendo insieme i frammenti della sua anima, sarà in grado di gestire le sue emozioni con una forza di volontà tale da intraprendere un nuovo cammino, quello del ritorno.

Ed è questo un ritorno obbligato anche per tutti coloro che vanno alla ricerca di sé stessi, di verità profonde, parti preziose dell’io che a volte gli uomini perdono nell’oscurità della notte, ritrovandosi esseri fragili a causa delle miserie umane.

Di grande significato è il romanzo di Daniela Grandinetti, la sua lettura ci mostra le “acrobazie” della vita nella notte buia, ma anche il desiderio di profumi e colori naturali che riportano al meraviglioso mondo dell’infanzia, mentre gli occhi rimangono impigliati tra il luminoso chiarore della luna.

Teresa Sinopoli (Docente di Lettere)

RECENSIONE

ARTICOLO DI FRANCA FORTUNATO PUBBLICATO SUL QUOTIDIANO DEL SUD IL 18.02.2023 PER LA RUBRICA “UNA DONNA, UNA MIMOSA…VERSO L’8 MARZO”

UNA MIMOSA PER LA SCRITTRICE DANIELA GRANDINETTI

Ogni scrittrice merita una mimosa perché in ogni libro vivono passione, amore, timori, aspettative, ambizioni, piacere e fatica di ogni donna che ama scrivere. Da qui nasce una mimosa per Daniela Grandinetti, scrittrice calabrese, nelle librerie in questi giorni con il suo ultimo romanzo “Luna Pietra” edito A&B.

Un romanzo ambientato in un piccolo borgo montano nell’ Appennino calabrese, Sovara, e in un tempo che tiene insieme i primi anni del Novecento e il presente. Cosma, Rosaria, Elvira, Cettina, Angela e Tilde sono le donne le cui vite nel romanzo si intrecciano, in un continuum tra nonna e nipote, madre e figlia, amiche e sorelle in un groviglio di solitudine, lacrime, violenze, stupro, aborto clandestino, menzogne, tradimenti, segreti, rancori, paura, rabbia, disprezzo, compassione, riconciliazione, morte e rinascita.

Tutto ruota intorno a Cettina, alla sua amicizia con Tilde, che cresciute insieme resteranno sempre unite anche quando lei parte e l’altra resta, e al fantasma di Cosma, la “bella contadina morta giovane e che gli anziani del paese raccontavano corresse per i vicoli a seminare vento, tempesta e malasorte”.

Un fantasma, divenuto leggenda, che ha accompagnato, nel racconto di nonna Rosaria, l’infanzia e l’adolescenza di Cettina. Un fantasma che la accoglie e la protegge quando ha paura del padre che picchia rabbiosamente Elvira, sua madre. Una madre che lei vorrebbe salvare ma non sa come fare anche perché non vuole essere salvata, almeno è quello che pensa. Da qui la sua rabbia verso di lei e i sensi di colpa verso sé stessa.

Quel fantasma, il cui volto le somiglia e torna in tutti i suoi disegni e nei suoi scritti, non è che l’ombra di sé stessa, che cerca di rassicurarla e placare le sue paure. Scrivere e disegnare sono le cose che lei ama “di più” ed è per diventare pittrice che lascia quell’inferno e si trasferisce a Milano, dove frequenta per un anno l’Accademia. Un sogno quello di pittrice che abbandonerà, dandole un senso di fallimento, e si accontenterà di vivere malamente il sogno dell’altro, del suo compagno, un pittore famoso.

Il passato anche se si cerca di dimenticare, di rimuovere, come fa Cettina, non si cancella, ed è così che quando decide di ritornare al suo paese e nella casa del padre i ricordi tornano tutti e le chiedono di essere accolti, elaborati, attraversati, con tutto il groviglio di sentimenti negativi che si porta dentro e che chiede di essere sciolto, se vuole lasciarsi davvero il passato alle spalle e ricominciare a vivere.

La nonna, la madre sono morte, il padre “origine di tutto quel male”, da lei sempre disprezzato, è ormai vecchio ed ammalato, è innocuo, e se non lo può amare e perdonare cercherà almeno di averne compassione. Rivive la pena che, da piccola, provava per sua madre, “una donna triste” dallo “sguardo spento” dalla violenza di un uomo che non l’amava e la tradiva.

Solo dopo aver letto una lettera della madre scritta per lei prima di morire in cui le svela l’ultimo segreto e le chiede di essere assolta, Cettina si riconcilia con lei e con sé stessa, superando ogni rabbia e risentimento. Con Tilde si confessano per la prima volta bugie e segreti che “forse – dice l’amica – avremmo dovuto confessarci prima”.

Cettina può ricominciare a vivere con accanto l’ombra di Cosma che finalmente ha trovato la sua quiete. Un romanzo triste ma vero, che suscita sdegno per le tante vite di donne distrutte dalla violenza e dal dominio maschile, in una Calabria che, grazie alle donne, non c’è più se non nello spopolamento dei suoi borghi, come Sovara.

Franca Fortunato

Leggendo Luna Pietra

Wanda Lamonica (poetessa) ha scritto:

“…L’arte però, quella vera, è vergine, creazione immune da qualsiasi altro interesse che non sia l’espressione di un’urgenza interiore. Credimi, c’è sempre qualcuno più bravo di noi, ma nessuno è uguale a noi “

Daniela Grandinetti – Luna Pietra – A&B Editrice

“Arte vera” è, per me, la scrittura di Daniela.

Ho appena finito di leggere il suo libro. Daniela racconta di donne con storie diverse, unite dal filo nascosto di segreti spesso spinosi che la vita, ad un certo punto, ha bisogno di gestire in modo diverso, affrontando passato e verità con una maturità più consapevole. Narra di ferite che vanno guarite insieme a chi ci vuole bene, condividendone il dolore. Cosma, Cettina , Tilde, Elvira, sono tutte figure a cui ci si affeziona e a cui si pensa tanto, anche dopo aver concluso ‘Luna Pietra’.

Libro coinvolgente, intenso, ricco di sfumature, di colori, di speranza.

Grazie per tutte le emozioni

Io ringrazio Wanda Lamonica per la sua lettura, le suggestioni restituite alle mie donne e la personalissima foto

L’odore dell’arrivo

Resina e vinili: sono i profumi che emanano le pagine del romanzo di Gianluca Veltri L’odore dell’arrivo (Ferrari Editore).

Come una partitura musicale il libro, prima che in capitoli, è diviso in tre “tempi” (Pomeriggi di maggio, Educazione silana, La mia piccola patria), ovvero già nella struttura c’è uno stretto intreccio tra musica, grande protagonista della storia, e le parole.

Ho letto con piacere ed emozione le pagine di questo romanzo narrato in prima persona da un personaggio senza nome, una storia che si dipana tra sentieri della memoria, molto simile anche alla mia storia: la musica raccontata in queste pagine rimanda allo stesso universo musicale con il quale abbiamo conosciuto il “sistema del mondo” in cui lontano era anche vicino, perfino la guerra, quella lontana nel Vietnam, o le mamme in Plaza de Majo, e nel quale al primo posto stavano la relazione con sé, con ciò che avevamo intorno e le relazioni personali, le più variegate. Un tempo in cui la musica era un modus vivendi, non ti era imposta dal mercato, che – diciamo la verità – non avrebbe potuto scovarci negli anfratti dei boschi silani o nei nostri piccoli centri periferici. Non eravamo noi a scegliere la musica “ma era la musica che sceglieva noi” e qui non c’è contraddizione, è che una volta che ascoltavamo un disco, difficilmente quello ci avrebbe mollato.

Avveniva così, magicamente, e avviene altrettanto magicamente nel romanzo di Veltri sin dalle prime pagine, nelle quali si parla, ad esempio, di Nick Drake e la sua “capacità amniotica” (come non avrei potuto amare una storia che inizia con quel genio malinconico che mi segue da una vita), per poi passare a quelle straordinarie scoperte che venivano da altre galassie: gli Who, Joni Mitchell e tanti altri, fino ad arrivare agli zingari felici di Claudio Lolli. Un Circle game.

Capitalizzare i momenti di bellezza”, parafrasando l’autore: è quello che facevamo e che, per fortuna, abbiamo fatto, è il valore del tempo che scorre in questo romanzo.

Aggiungo anche che ho letto con ovvia commozione le pagine dedicate a David Crosby coincise con i giorni della sua scomparsa recente: “Crosby mi era parso un trampoliere del ripensamento, uno che giocava con i sentimenti ambivalenti perché era capace di gestirli; anzi, ne traeva il meglio, pescando nel pozzo delle proprie zone oscure per trasformarle in arte luminosa.

La narrazione, oltre che ruotare attorno alla musica, si intreccia con memorie personali e sportive di quegli anni scanditi da lunghe estati di ozio e compagnia, durante villeggiature in montagna, prima che il mare diventasse il must di molte famiglie e quei luoghi si spopolassero. Prima che il “sole rosso dentro il mare” si intromettesse tra il narratore e la “sua” Sila.

Le case: quelle prese in affitto ogni anno, estate dopo estate. “Cosa resta di noi nelle stanze che abbiamo abitato?”

Alce Nero: nonno Alce, “presenza premurosa e munifica, refugium peccatorum per l’intera famiglia”. Uno di quei personaggi che ti rimangono accanto quando chiudi il libro e continui a sentirne la presenza.

Un romanzo/non romanzo di vibrazioni positive (che cosa meravigliosa di questi tempi!) in cui l’autore non ha timore dei ricordi perché nei ricordi non deve necessariamente stare la melassa della nostalgia come comunemente si intende, quel sentimento che temiamo e ci crea soggezione perché legato al tempo che passa, e questo spaventa.

Invece no, niente di tutto questo: ricordi, profumi, case, dischi, musicisti, allenatori di calcio, coppe Davis e motociclisti lanciati nel vento di circuiti fatali, restituiscono armonia e respiro, gli stessi che provi camminando tra i pini altissimi dei boschi silani (cosa che ho fatto infinite volte).

In fondo la nostalgia è una forma di consapevolezza (e Gianluca Veltri l’ha sapientemente dosata), diventa forza della propria identità, una sorta di area di protezione che serve a mantenersi integri e saldi.

O forse, come fa dire a Toni Servillo Paolo Sorrentino ne La grande bellezza: “è l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro”.

Un romanzo che si legge ondeggiando su un’altalena tra due alberi, fra toni poetici, pagine che fanno sorridere (e a volte ridere), con una bellissima postfazione di Dario Brunori (che non svelo) e che fa bene leggere, proprio nel senso che restituisce benessere, grazie anche a una scrittura lineare e profonda.

L’odore dell’arrivo. Perché, in fondo, non ce ne siamo mai andati da luoghi in cui abbiamo abitato qualcosa di molto simile alla felicità.

UNA CITAZIONE

Mi sentivo pienamente rappresentato da Alce, che stabiliva un ponte felicissimo tra la mia provenienza ancestrale, pre-moderna, alla quale non intendevo rinunciare, e l’omaggio dovuto a Nick Drake e alla sua musica.

Nick, in fondo, pur essendo un idolo pop-rock figlio della modernità, aveva un’anima antica; pur precorrendo i tempi con il suo talento innovatore, quei tempi non aveva saputo viverli.

Io ho sempre amato unire, connettere, anche a costo di qualche arditezza. Nick e Alce Nero avevano davvero poco in comune. Curiosamente, creavo adesso un paradosso, chiudendo un cerchio intimo tra una sorta di fratello, che sarebbe rimasto giovane per sempre, e un nonno che invece era già vecchio quando io iniziavo a ricordarmi di lui. Un giovane imprigionato per sempre nella sua gioventù, che non ha fatto in tempo a invecchiare; un avo che da giovane lo si può soltanto, a fatica, immaginare.

Il giovane Nick. Il vecchio Alce.

L’OPERA

Un romanzo narrato in prima persona, diviso in tre sequenze, che si dipana in più direzioni, tra paesaggi, sentimenti e personaggi che si completano in un’unica magica storia e concorrono a riprodurre vicende individuali e collettive, in scala ridotta (la voce dei ricordi, l’humus di una piccola città, un’orma sulla luna) o ingigantite (le atmosfere di un giorno qualunque, una vecchia casa nel bosco). Gianluca Veltri racconta così le risonanze e i rispecchiamenti dell’esistenza, attraverso gli occhi e le parole di un protagonista senza nome, stabilendo uno scambio dialettico tra il presente e l’irrealtà reale del passato. Un libro raffinato in cui la musica assume sempre il ruolo del contenuto, dell’essenza: è il racconto del mondo tra gli echi dell’altopiano silano, è la natura intesa come valore da vivere, è la memoria del tempo, è il diritto di dirci felici, è il rosario dei rimpianti, è l’odore dell’arrivo. La postfazione è firmata da Dario Brunori.

L’AUTORE

GIANLUCA VELTRI

Gianluca Veltri, scrittore, giornalista culturale, musicista, vive e lavora a Cosenza. Ha scritto di musica e letteratura su Mucchio selvaggio, Diario della settimana, Musica! Rock & Altro e altre testate. Collabora con Il Quotidiano del Sud, L’Osservatore Romano e il blog letterario Nazione Indiana. Ha curato alcune voci del “Dizionario della canzone italiana”. Diversi suoi testi sono presenti in volumi collettivi. Ha pubblicato “Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di Claudio Lolli” (2006), “Francesco Guccini. Fiero del mio sognare” (2010), “Le parole salvate” (2018).

Il mio omaggio all’autore per dire: grazie!

L’atomo inquieto

Il buon Alessandro Manzoni, che in materia di tecniche narrative aveva già inventato tutto, ci ha lasciato un principio della sua poetica di grande rilievo per chi scriva di fatti storici: il vero storico e il vero poetico che coloro che hanno reminiscenze scolastiche senz’altro ricorderanno: lo storico è colui che illustra i fatti, li enumera quasi, colloca i personaggi nel loro divenire oggettivo in un determinato contesto.

Il poeta o il romanziere invece, pur avvalendosi di quei fatti, va oltre la superficie degli avvenimenti per scovare (e raccontare) la verità che lo storico non potrà mai manifestare, ciò che esiste nella testa degli esseri umani che hanno scritto la storia. Questa verità aggiunge (e mai toglie) alla verità storica quel risvolto necessario alla comprensione più intima, più completa, più organica, di un evento o di un personaggio.

Mimmo Gangemi, con il suo ultimo romanzo, L’atomo inquieto, incentra la narrazione sulla storia di Ettore Majorana, uno tra gli scienziati di spicco del gruppo dei ragazzi di Via Panisperna riuniti intorno a Enrico Fermi.

Il racconto della storia di quest’uomo misterioso e tormentato si avvale di elementi di verità (sulla storia di Ettore Majorana e la sua scomparsa ci sono molte testimonianze, alcune avallate dai fatti, altre frutto di ipotesi) sapientemente miscelati nell’intreccio della finzione narrativa.

Nel romanzo Majorana ripercorre gli ultimi giorni della sua vita che Gangemi “vede” in una località dello Jonio, in Calabria, dopo le innumerevoli identità assunte e la definitiva scomparsa.

È un barbone, uno straccione che vive in solutine inseguito da una “voce” nella sua testa che definisce “la creatura”, una voce che lo incita e lo sostiene per non crollare nel nulla definitivo, lui, uno dei più grandi geni del Novecento, collocato da alcuni tra Einstein e Newton.

La solitudine di un uomo in fondo timido, che si è lasciato alle spalle le scoperte e la guerra, la perdita dell’unica donna amata e del figlio che portava in grembo, lui, anaffettivo e problematico come spesso accade alle grandi menti, rappresenta con la sua storia il divario tra la necessità della scienza nel suo incedere contrapposta all’etica delle scelte, nell’eterna oscillazione tra il bene e il male, la sete di conoscenza e i limiti dell’uomo.

“Lo eviti, lo specchio, eh? Guardati invece. Così ti rendi conto di come sei conciato. Hai cinquantaquattro anni e sembri di cento. Già eri brutto, con quel volto scuro da arabo, magro che ti si possono contare le ossa, con le spalle ricurve, l’altezza che ti difetta. Ci aggiungi la barba incolta che mi pari un cavernicolo, i capelli arruffati che chissà da quando non ci passa un pettine o una spazzola, e vestito peggio, da elemosinante, con i pantaloni di orbace in piena estate, la maglietta interna lacera, le ciabatte monacali con le stringhe rotte. Certo che ti prendono in giro, Tu vuoi essere preso in giro.”

Chi ha amato e conosciuto Mimmo Gangemi nelle sue opere precedenti forse potrebbe rimanere sorpreso da questa svolta che abbandona i temi che gli sono cari, ma troverà un romanzo solido, che si legge come un giallo, (genere al quale l’autore non è nuovo) nel quale fanno capolino note che inducono a una commozione partecipata per un uomo dall’accesa sensibilità, in cui, infine, non mancano i passaggi degni di un romanzo d’avventura.

Come sempre l’autore ci regala grande narrativa.

L’OPERA

Un mistero, sette vite, una storia capace di raccontare un uomo e un secolo.

«Non t’accorgi che adesso hai chiara ogni cosa, che ti si è restituito il passato, sai chi sei e chi sei stato, le vite che hai attraversato? Non ti va di ripercorrerli i ricordi dimenticati? E allora resisti e lotta.»
Uno straccione misterioso che abita in una baracca. Un incidente. Una notte tra la vita e la morte in cui riemerge il mistero di un passato inimmaginabile. Perché quell’uomo si è trovato, per decenni, al centro della storia. È stato un professore di fisica noto e reputato a Roma, ma scomparso in un giorno di primavera del 1938, presunto suicida. È stato uno scienziato al servizio di Hitler, in corsa contro il tempo per costruire l’arma definitiva, la bomba capace di vincere la guerra. È stato un paziente in un sanatorio altoatesino, precario rifugio per ex nazisti braccati. È stato un tecnico di laboratorio in Venezuela, dopo essere arrivato in Sud America in compagnia di Adolf Eichmann. E poi è tornato di nuovo in Italia, ha attraversato altri luoghi e altre identità, fino a non averne alcuna se non quella di un disperato che campa di poco e niente in terra ionica: come a voler espiare, facendosi fantasma in vita, i troppi errori di troppe reincarnazioni. Ettore Majorana, perché di lui si tratta, in quell’unica notte rende in prima persona la sua confessione: una vicenda di guerre e di intrighi, di amore e di pericolo, attraverso cui il filo rosso della scienza e del progresso corre tingendosi, a tratti, di sangue. Mimmo Gangemi riporta in vita una delle figure più interessanti ed enigmatiche del Novecento distillando dagli scarsi indizi e dalle molte congetture sulla sua scomparsa una sontuosa e avvincente narrazione. E ci restituisce un Majorana insieme fedele alla realtà storica e pienamente contemporaneo, nella tensione estrema tra scienza e morale che percorre la sua vita e nel dilemma tra dovere e libertà che segna anche il nostro tempo

MIMMO GANGEMI

Mimmo Gangemi è nato nel 1950 a Santa Cristina d’Aspromonte. Alterna la professione di ingegnere a quella di giornalista (collabora con «La Stampa») e di scrittore. Tra i suoi titoli Il giudice meschino (Einaudi 2009), La signora di Ellis Island (Einaudi 2011), Il patto del giudice (Garzanti 2013), Un acre odore di aglio (Bompiani 2015), La verità del giudice meschino (Garzanti 2015), Marzo per gli agnelli (Piemme 2019). Nel 2017 partecipa con un suo contributo alla raccolta di saggi Attenti al Sud, edito da Piemme.

ALCUNE RECENSIONI

https://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108603-la-recensione-l-atomo-inquieto-mimmo-gangemi-solferino-editore

https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/narrativa/2022/11/16/mimmo-gangemi-e-i-tormenti-dellatomo-inquieto_5d517594-4f3a-470c-a15d-234b44633661.html

OPERE (D’ARTE)

È difficile scrivere di questo libro di Marino Ciano Itinerario della mente verso Thomas Bernhard.

La domanda potrebbe sorgere spontanea: allora perché lo fai?

Risposta: per il bisogno di parlarne.

È un’opera indefinibile: non è un romanzo, non è un giallo, non è un saggio, non è uno studio critico ed è tutte queste cose insieme.  

Ho finito di leggere queste settanta intense pagine nel cuore della notte e sono rimasta intontita, come se qualcuno mi avesse preso per le spalle e scosso dicendomi: “svegliati”. E io lo guardassi dritto negli occhi con un punto interrogativo nelle pupille che invece chiedeva: “e adesso?”

Ho provato a razionalizzare i pensieri, a uscire dal fiume in piena del flusso delle parole dell’itinerario che avevo percorso senza mai un punto fermo, e confesso che ho avuto difficoltà ad emergere.

Credo perché non volessi uscire da quello stato di straniamento e non volessi in alcun modo riappropriarmi della dimensione reale degli oggetti: la lampada accesa sul comodino, le gocce che prendo per dormire, la coperta che tiene al caldo.

Tutto in aperta lotta e contraddizione con lo spirito del quale queste pagine sono intrise.

Così, in modo insolito, ho afferrato il cellulare e ho scritto un messaggio all’autore. Più che un messaggio era una richiesta: aiutami a uscire fuori da qui, ma anche dimmi come posso rimanere qui.

Dove tu mi hai portato.

Una vertigine, la stessa che si può provare di fronte a una scultura gigantesca e perfetta e tu sei lì, piccola, che ti chiedi com’è possibile che una mano umana abbia riprodotto quell’espressione dolente, vera, quelle pieghe della tunica, quel nitore accecante, tali da far tremare?

Non scrivo recensioni, non m’importa fare esercizio di erudizione e raccontare ciò che Martino Ciano ha raccontato in sole, ripeto, settanta pagine di altissima intensità.

Mi basta aggiungere tre parole:

ANTICONFORMISMO: un’opera gioiosamente sprezzante delle regole dell’architettura narrativa e delle leggi del mercato editoriale che confezione spesso centinaia di belle storie infiocchettate che bevi come una tisana per qualche minuto di fluttuante benessere e scivolano liquide senza lasciare traccia.

LIBERTA’: libertà di esprimersi secondo ciò che questo vuol dire per un autore capace di “creare” da un blocco informe e insignificante un’opera d’arte secondo la visionarietà che è propria dei grandi artisti.

SPERIMENTAZIONE: affine alla prima, ovvero non lasciare che a guidare la mano siano i gusti e le aspettative degli altri, ma la propria legittima (e sacra) visione della vita e soprattutto della scrittura.

Detto ciò auguro a quest’opera di Martino Ciano tutta l’attenzione che merita, per la sua leggerezza e profondità.

Lascio dei link per chi volesse leggere delle vere recensioni.

Io, rimango seduta nella stanza con il camino:

Eppure noi non siamo mai il nostro nome e il nostro cognome, ma siamo solo un passaggio vitale che ha bisogno di essere riconosciuto”.

In una notte insonne, io ho visto un uomo seduto in una stanza con il camino, un individuo che aveva le mie sembianze, sembianze che erano simili alle tue, ho sentito delle voci e ho avuto delle visioni, e ho messo insieme le cose e le ho scomposte in parole, e poi ho sentito il bisogno di bruciare tutto ciò che avevo scritto e di lasciare che fossero i miei pensieri a tormentarmi, perché una volta trascritti essi non mi tormentano più, e siccome io amo il tormento più della quiete, più della felicità, più dell’amore, ho scelto di pensare e di astenermi dalla scrittura”.  

https://corrierefiorentino.corriere.it/notizie/cultura-e-tempo-libero/22_dicembre_19/un-percorso-che-e-nella-testa-dello-scrittore-e-del-lettore-760776eb-160b-4fd4-b2ca-cbba9b167xlk.shtml

https://glicineassociazione.com/itinerario-della-mente-verso-thomas-bernhard-martino-ciano/

L’AUTORE

MARTINO CIANO

 

Martino Ciano (1982) è giornalista e direttore responsabile di DigiesseNews, testata giornalistica dell’emittente radiofonica Radio Digiesse di Praia a Mare. Vive a Tortora, primo paese dell’alto Tirreno cosentino. Scrive di letteratura e filosofia sulle webzine L’Ottavo, Zona di Disagio, Gli amanti dei Libri, Suddiario, Libroguerriero e sul suo blog BorderLiber. Nel 2018 il suo esordio letterario con Zeig, cui ha fatto seguito Oltrepassare

L’OPERA

Descrizione

Una famiglia che vive nei propri incubi. Un uomo che dialoga con il suo Thomas Bernhard immaginario. Un mondo che inizia e finisce tra le pareti di una stanza con il camino. La vita esiste anche oltre la vita, suggerisce il narratore, colui che inventa e che fa incontrare i suoi personaggi, che giustifica e falsifica le proprie emozioni… e poi quando nulla esiste per davvero, tutto è perfetto e senza macchia… proprio per questo motivo ogni itinerario verso la salvezza è possibile, così come ogni vita non è del tutto confessa bile… d’altronde noi siamo veri nei nostri segreti e nei nostri silenzi.

Vien voglia di stare in silenzio

Torna in libreria L’assedio, di Rocco Carbone per merito dell’Editore calabrese Rubbettino. Il romanzo era stato pubblicato nel 1998, l’autore (nato a Reggio Calabria e morto a Roma) è scomparso prematuramente, lasciando una produzione riscoperta grazie e Emanuele Trevi che ne ha raccontato la biografia in Due vite (Premio Strega 2021)

Dopo aver letto L’assedio vien voglia di dire: zitti tutti, posate penne, tastiere, idee, convulsioni e aspirazioni di fama e leggete.

Il silenzio: è ciò che a me ha suggerito la lettura di queste pagine perfette nelle quali si racconta che all’improvviso sulla città di R. comincia a cadere una polvere bianca dal cielo, uno strano fenomeno meteorologico, che nessuno sa spiegarsi. E mentre la città si ricopre di polvere e gli abitanti sono costretti a riparare nelle case, assediati dalla sabbia, i soccorsi non arrivano e l’isolamento della città è totale, fino alla lotta per la sopravvivenza.

La città di R., incastonata tra montagna e mare, forse è una città che conosciamo e che magari conosceva anche l’autore: una città difficile, lontana, dove si è lasciati alla sorte senza che nessuno manifesti uno straccio di volontà vera di una spiegazione qualsiasi di ciò che sta accadendo, o di un aiuto.

Ma la città di R. è anche una condizione, la nostra: “l’esterno” sempre meno raggiungibile se non a costo di rischiare la vita, quella luce gialla che avvolge ogni cosa, lo strato di sabbia che giorno dopo giorno si alza fino a ergere barriere impraticabili, nessuno può sottrarsi all’inevitabile.

Per certi versi profetico: venticinque anni fa Rocco Carbone ha descritto la nostra natura braccata, quella che oggi – tra guerra, crisi energetica, crisi climatica – stiamo vivendo sulla nostra pelle. Siamo esseri umani ormai disorientati, con sempre meno appigli, ricoperti da un senso di impotenza, come la polvere gialla che ricopre quell’imprecisato luogo geografico.

E poi l’umanità descritta nei personaggi: alcuni che nel bene hanno sempre agito e continueranno ad agire fino allo stremo, coloro che scelgono l’umanità, personaggi di fronte ai quali ci si commuove. Altri che approfitteranno per mettere in atto, armi alla mano, strategie criminali di sottomissione e seguiranno la via del cinismo.

Non sai di cosa sono capaci le persone, quando si tratta di sopravvivere”.

Scrive Emanuele Trevi nella Prefazione: «una splendida occasione di riscoperta di un autore tra i più originali e coinvolgenti nel panorama narrativo italiano fra tardo Novecento e inizi del nuovo millennio»

Sono rimasta “esterrefatta” dallo scorrere naturale delle parole, messe una dopo l’altra per permettere a chi legge di entrare nelle pieghe della narrazione senza sforzo, come solo la grande narrativa sa fare:

Alla fine del terzo giorno della fitta pioggia di sabbia, poco prima dell’alba, si levò dal mare un vento fortissimo, che batté per molte ore la città in ogni suo quartiere. La polvere bianca che si era accumulata per terra, nelle strade ormai impraticabili, a ridosso delle pareti degli edifici e che era già arrivata, in molte parti, a più di un metro e mezzo d’altezza, fu sollevata da un soffio inarrestabile che la trascinò via nel suo percorso verso ovest, in direzione delle colline. (…) Poco dopo mezzogiorno la bufera diminuì d’intensità, e in breve abbandonò quel luogo, lasciandolo in una pace innaturale.

Per certi aspetti questo romanzo me ne ha ricordato un altro letto di recente (così come il suo autore, Nicola Pugliese, anche lui prematuramente scomparso) altrettanto potente e con una storia simile: Malacqua, nel quale è la pioggia incessante su Napoli a determinare gli eventi.

A volte si ironizza sui romanzi indispensabili o necessari: talvolta però accade di incontrarne uno.

Il romanzo

L’assedio (Prefazione di Emanuele Trevi)

Sulla città di R., stretta fra le montagne e il mare di una geografia imprecisata, si abbatte un’inspiegabile e insistente pioggia di sabbia. La popolazione, impreparata a tale evento, si ritrova assediata dalla coltre terrosa che cade incessantemente. Le autorità non riescono a prestare soccorso e dopo pochi giorni i contatti con l’esterno si interrompono, l’isolamento è totale, nessuno può più allontanarsi o accedere allo spazio urbano. Tra chi rimane serpeggia l’esasperazione e lo sconforto, ed è già lotta per la sopravvivenza. «Ma cosa bisogna fare per resistere dentro quel muto teatro di sabbia e continuare a essere uomini: obbedire alla propria missione, religiosa o laica che sia, come padre Retez e il medico Damiano? Oppure saltare il fosso del cinismo come il giovane Demetrio? O ancora, come Saverio, cercare una via “umana” alla battaglia contro il male, esponendosi così al dubbio, all’ambivalenza delle emozioni, ai tracolli della ragione?». Con la riproposta di questo romanzo, premonitore e lancinante come pochi, torna finalmente ai lettori Rocco Carbone, tra i più umbratili e affilati autori della narrativa contemporanea, «interprete così acuto e spassionato della condizione umana».

L’autore

ROCCO CARBONE

(Reggio Calabria, 1962 – Roma, 2008), dopo gli studi a Roma e a Parigi, ha esordito nel 1993 con Agosto, cui hanno fatto seguito Il comando (1996), L’assedio (1998), L’apparizione (2002), Libera i miei nemici (2005). Sono usciti postumi Per il tuo bene (2009) e Il padre americano (2011). Ha pubblicato numerosi saggi e interventi su riviste come «Nuovi Argomenti», «Linea d’ombra», «L’indice», «Paragone», e collaborato con vari quotidiani tra cui «la Repubblica», «l’Unità» e «Il Messaggero»

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