Recensione di Gianfranco Cefalì a Le mani in tasca

Gianfranco Cefalì, scrittore (Il giorno in cui abbiamo pianto, Dialoghi) e redattore letterario ha letto Le mani in Tasca

Magnetica. La scrittura di Daniela Grandinetti è attrattiva. Un po’ come quando da bambini si giocava con le calamite, sentire quel click improvviso dopo aver giocato con gli opposti restituiva soddisfazione. Attrazione, ma anche leggerezza, levità che non corrisponde a vacuità, infatti di senso sono fatte le parole scritte dall’autrice. Daniela Grandinetti sa fare bene quello che fa, ovvero: scrivere. Due storie che si creano parallele intersecandosi e divergendo, attraverso uno dei periodi più bui dell’Italia contemporanea, Oriana e Dario — inutile soffermarci sui rimandi dei nomi — nel pieno degli anni di piombo, la strategia della tensione, che culminarono con la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Entrambi provengono da realtà diverse ma simili, piccoli paesini di provincia, entrambi considerati ai margini delle loro società per motivi, che scopriremo durante la narrazione, completamente diversi, ma che in qualche modo ne accomuneranno il vissuto fin dalla tenera età. Il terrorismo e le brigate rosse fanno da sfondo in primissimo piano, mi passerete l’ossimoro, ma i punti focali del libro sono molti, supportano tutta la trama e fondano le basi per gli innumerevoli spunti che offre.Quello su cui mi piace soffermarmi è il concetto di corpo. Uno degli ultimi libri che ho letto è stato “Tra me e il mondo” di Ta-Nehisi Coates, in questo bel libro l’autore scrive una lettera al figlio ormai adolescente, spiegandogli le difficoltà di essere afroamericano negli Stati Uniti, e si concentra sul concetto di corpo. Qui il corpo è qualcosa che va difeso con tutte le forze, perché è proprio questo che è messo a repentaglio e che sarà messo sempre in pericolo durante la sua vita. Prima che della sua anima il figlio dovrà sempre occuparsi del suo corpo. Il corpo in Daniela Grandinetti viene usato in maniera simile, anche qui è qualcosa da proteggere, ma non da una nazione fondamentalmente razzista, da qualcosa di più sottile, strisciante. Un corpo che si lascia anche guardare, ma non toccare, che non è mai in pericolo, perché diviene barriera invalicabile, una sorta di muro da mettere tra Oriana e il mondo, corpo che si fa statua fissa senza emozioni, che non vuole manifestare umanità, che viene messo in secondo piano dall’ideologia, corpo che rinnega gli istinti, le pulsioni, che in realtà si trasforma in macchina pronta all’azione per uno scopo più grande, almeno nella testa della protagonista. Oriana protegge il suo corpo per proteggere se stessa dalle deviazioni che il desiderio potrebbe comportare. Corpo che invece si trasforma, si libera dai pesi della mente quando la protagonista è sulla scena, infatti Dario è un regista teatrale e lei un’attrice. Qui il corpo libera quelle emozioni che tanto reprime, si fa guardare in modo diverso, trasforma Oriana in qualcosa di altro, lontano, qualcosa che a un certo punto della storia le fa paura e scapperà dal teatro dopo una performance intensa e bellissima. Anche Dario fa i conti con il suo corpo, anche lui reprime in nome di un sentimento assoluto, anche lui è impaurito e soffoca quei sentimenti per rispettare la figura ideale di Oriana. Naturalmente, come scrivevo prima, gli spunti di riflessione sono tanti, ma per affrontarli dovrei per forza rivelarvi troppe cose, e non mi sembra giusto, questo libro va letto. Perché vi dovrei parlare di azioni che vengono giustificate da un fine più grande, di azioni che vengono considerate giuste nonostante tutto, dell’utilità di alcune azioni alla luce del mondo e della società in cui viviamo, del pentimento e della redenzione…

Il primo lettore non si scorda mai

Per chi deve faticare a far camminare una storia ovvio che il dialogo con i lettori è vitale.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa dal fatto che soltanto giovedì ho fatto la prima presentazione ufficiale del romanzo Le mani in tasca e nel fine settimana mi sono arrivati i primi riscontri.

Li metto qui, nell’archivio dei cassetti virtuali, e umilmente ringrazio.

Antonio G.

Bologna, stazione 2 agosto 1980 ore 10,25. “……appartengo ad una generazione cresciuta con la guerra e il fascismo:pensavamo di aver visto già tutto, di aver superato il peggio, credevamo di essere entrati nella storia nuova.Invece non è stato così. Ho perso un figlio, ma se perdessi anche la speranza, sarebbe la morte definitiva, non solo mia, ma quella di tutti…..”È una delle pagine finali del nuovo romanzo di Daniela Grandinetti: Le mani in tasca. La scrittrice lametina ha la capacità di raccontare i sentimenti dell’universo femminile come pochi. È un libro bellissimo, che mi ha coinvolto anche emotivamente pagina dopo pagina.

Flora M.

Questa notte ho finito di leggere il tuo nuovo romanzo, anzi più che leggerlo l’ho divorato (mi ripropongo infatti di rileggerlo con più calma) Mi avevi già anticipato che era del tutto diverso dal precedente “La malasorte” ma la storia di Oriana e Dario non è meno bella di quella di Cosma. Che dirti? Mi sono immedesimata in questi due personaggi e sono tornata indietro nel tempo di 50 anni. Il periodo da te trattato io l’ho vissuto in pieno ai tempi del liceo. Fine anni 60 e inizio anni 70, come si fanno a dimenticare? Tutti eravamo un po’ Oriana, tutti sentivamo il desiderio di giustizia, tutti abbiamo rischiato di essere coinvolti in cose più grandi di noi. Ma il personaggio che più mi ha intenerito è stato quello di Dario. Un ragazzo dolce, impacciato, che dà un po’ sui nervi per la sua troppa timidezza ma che sa amare con una passione ed una totalità di sentimenti che lasciano senza parole. Non so bene descriverti i sentimenti che ha fatto scaturire in me la lettura di questo libro. So solo che a distanza di due giorni, da quando ho finito di leggere l’ultima pagina , la mia mente è ancora là con Dario e Oriana.

Angela G.

Ieri sera ho finito il tuo libro. Letto in fretta perché m è piaciuto moltissimo. Niente a che vedere con La malasorte. Questo è davvero grande, bellissimo, ti scrivo più a lungo domani ma questo volevo dirtelo subito. Bravissima!

IL ROMANZO LUMINOSO

mario

Il titolo è promettente: ti immagini chissà cosa ci troverai nel romanzo luminoso; poi è quadrato, una forma insolita per un libro di 700 pagine e anche questo è un punto a favore, risulta simpatico perfino alla libraia che me lo vende. L’autore è sudamericano, non lo conosco ma la cosa mi piace a prescindere. Luminosità e Sudamerica sono una gran bella accoppiata. Infine l’amico che me l’ha consigliato non sbaglia un colpo, è una sicurezza.

Così inizio questa lettura al colmo delle aspettative. Scopro che è un diario, allora penso sia una sorta di preambolo prima del romanzo luminoso, invece va avanti e non accenna a smettere. A un certo punto è lo stesso autore che avverte: il romanzo luminoso lo deve scrivere perché gli è stato pagato, una bella somma, ma di fatto lui è senza ispirazione, quindi fissa nel dettaglio tutte le sue giornate alla ricerca di quel punto di rottura che lo dirotterà verso il romanzo luminoso.

In effetti l’indice dice che il romanzo luminoso c’è. Inizia a pag. 549. Così per più di 500 pagine l’autore, che è un paranoico matto abitudinario ipocondriaco che ha il sonno sballato per cui dorme di giorno, vi fa il resoconto dettagliato della sua “inutile” esistenza nel suo appartamento (a eccezione di qualche rara passeggiata con donne che lo accompagnano di cui non conosciamo mai l’identità). Ama spasmodicamente i gialli e ne legge in quantità industriale, ama una donna con un nome strano, Chl, che gli riempie il frigo di cotolette; ama il suo computer e trascorre gran parte del tempo ad aggiornare e creare programmi, ama la pornografia e scarica video, ha mal di schiena e un’istruttrice di yoga, ha mille malanni e un medico che è la sua ex moglie, sa esattamente quali alimenti scartare e quale sostanze negli alimenti evitare per le conseguenze dannose sul suo organismo. Insomma di fatto ha mille distrazioni che gli impediscono di concentrarsi sulla scrittura del romanzo luminoso.

Quindi, romanzo noioso? No, affatto. È geniale. La scrittura è come uno scalpello che definisce ogni più insignificante particolare con una meticolosità maniacale, non vi permette mai di distrarvi, siete stupiti, attoniti, mentre anche voi con l’autore finite per aspettare il romanzo luminoso. Perché cavolo, vi dite, alla fine lo so che c’è.

E quando alla fine arriva, non è quello che ci si aspetta, la scrittura – dopo avervi fatto fare diecimila kilometri a piedi a passo di lumaca – comincia ad andare veloce, a cavalcare, non si ferma, divaga, non c’è un tema, una storia, un racconto, uno sviluppo, personaggi. Ci sono tanti temi, tante storie, tanti racconti, tanti sviluppi, tanti personaggi.

Il romanzo luminoso, mi sono detta alla fine, è un grande romanzo sulla scrittura. Le continue deviazioni dell’autore, lo portano continuamene fuori pista, in un processo costante di osservazione delle minuziosità che accadono in una giornata qualunque (avete mai provato a osservare le formiche o i piccioni? Bene, lui lo fa, c’è un mondo là dentro). Poi le scrive, tutte, alla ricerca di quella verità che non esiste in quanto luminosa o intatta ma è sprecisa, inesatta, confusa.

Esilarante e divertente, è la storia di una vita normale che nella sua quotidianità è invece piena di imprevisti, di avventure, di serenità e malinconia, di solitudine e compagnia, di intoppi continui alla trama dell’esistenza che avremmo previsto.

Grande,  grandissimo romanzo.

Incipit

Qui incomincio questo “Diario della Borsa”. Sono mesi che tento di fare qualcosa del genere, ma ne sono sistematicamente scappato. L’obiettivo è di mettere in moto la scrittura, non importa con quale pretesto, e mantenere la continuità fino a crearmi un’abitudine. Devo associare il computer con la scrittura. Il programma più usato dovrebbe essere Word. Questo per me significa disarticolare una serie di consuetudini cibernetiche nelle quali vivo immerso da cinque anni, solo che adesso non devo pensare a disarticolare niente quanto piuttosto ad articolare questa cosa. Tutti i giorni, tutti, anche una sola riga per dire oggi non ho voglia di scrivere, o non ho tempo, o per accampare qualche scusa. Però tutti i giorni.

È quasi sicuro che non lo farò. Me lo dice l’esperienza. Eppure spero ancora che stavolta sarà diverso, perché di mezzo c’è la borsa. Ho già ricevuto la prima metà del totale, e quindi ho la possibilità di mantenermi fino alla fine dell’anno in ragionevole ozio.”

Mario Levrero, Il Romanzo luminoso Ed. Calabuig

La scrittura è tiranna

imagesÈ lì che aspetta, proprio come l’ho sempre immaginata, mi intimorisce. È avvolta nel fumo di una sigaretta nella penombra di un bar dove tutto è in bianco e nero. Aspetta, sorseggiando lentamente da un bicchiere. Sono in soggezione, ormai non posso più nascondermi, non posso tornare indietro, non posso fuggire. Lei mi vede. Solleva la testa. Ha lo sguardo  duro del rimprovero

“Eccoti finalmente. Ce n’hai messo di tempo.” La sua voce è metallica, sottile.

Annuisco. Imbarazzata. Lei lo percepisce e  mi dice:

“Tranquilla, tanto t’avrei aspettata comunque.”

L’ho sempre saputo che così doveva essere.

“Non avere timore, avvicinati, siediti qui, bevi qualcosa insieme a me ti farà bene. Rilassati, lo sai che ormai non puoi più andare da nessuna parte.” Sorride languida, sicura di sé. Mi ha preso nel sacco, mi terrà in pugno da questo momento in poi.

Lei sa tutto di me. Io so tutto di lei.

“Lo so, non avresti voluto trovarmi, mi hai evitata perfino quando ero a un palmo di naso. Ma io sono sempre stata qui dove sono, dove hai sempre saputo anche tu. Ti ho aspettato paziente. “

Vorrei dire lo so, ma vorrei dire anche non lo so. Non so se voglio stare qui, se voglio seguirla, se voglio sedermi accanto a lei. C’è odore di chiuso. Quant’è che non cambiano l’aria in questo posto. Quant’è che non aprono le finestre?

“So cosa stai pensando : sei ancora incerta. Ti senti in trappola. Ma se  stavolta hai varcato quella porta è perché sapevi di trovarmi, come sapevi ti avrei braccata, come sai che non puoi più scappare. Oh sì…  certo, lo so cosa stai per dire…. pensi ancora di avere  più gambe che testa! Ma vedi,arriva un momento, prima e poi, in cui quelli come te finiscono per avere le gambe nella testa. Il mondo è stato divertente da viaggiare con i suoi mille luoghi eccitanti, gli uomini interessanti, le donne affascinanti, gli incontri e le impressioni. Ma sapevi anche tu che presto o tardi ti saresti fermata a osservare.  Il momento è arrivato. È adesso: non avere paura. Siediti. E comincia.”

Mi ha messo in mano un quaderno a righe, e un lapis, perché scrivendo a lapis le parole scivolano più agili. Sapeva anche questo.

“Adesso vai. Puoi partire”

Ha spento la sigaretta, ha bevuto l’ultimo sorso. È rimasta a osservarmi, con un malcelato sorriso beffardo. Il sorriso di chi sa di aver vinto.

Guardo dalla finestra e all’improvviso vedo il sole. Mi chiedo – e non so perchè – quando è stata l’ultima volta che ho fatto l’amore. Poso il lapis sul foglio bianco. Sento il suo sguardo severo che vigila addosso. Le gambe nella testa cominciano a muoversi, il lapis a scrivere.

Non ho più scampo.

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