Il caffè di Alba
“Un macchiato, prego.”
“Per me normale.”
“Lungo, macchiato caldo, grazie.”
“Ecco il suo macchiato, a lei lo zucchero, il suo dolcificante…. Oh buongiorno dottore! Come va? I soliti? Ha visto piove anche stamattina? Questa primavera si fa desiderare…”
Quelli che stanno arrivando sono il professor Trani e sua moglie, devono essere le sette e quaranta. Butto un occhio all’orologio sulla parete. Infatti spaccano il minuto, tutte le mattine puntuali, dal lunedì al venerdì.
“Il macchiato per il professore, normale per la signora”. Non faccio in tempo a posare le tazzine che il professor Trani ha già trangugiato il liquido bollente in un sorso solo, poi comincia a guardare la moglie, impaziente, ostentando un tremolio nelle gambe per dirle di fare in fretta. Lei invece il caffè lo beve lentamente, a piccoli sorsi, come se nel nuovo giorno dovesse entrarci piano, si vede che non muore dalla voglia.
Non avete idea di quante cose si capiscano dal modo di prendere un caffè a osservare da questa parte del banco. Io, la vostra barista di fiducia, potrei raccontarvi tante di quelle cose sulla vostra vita che vi sorprenderebbero.
Ad esempio il professor Trani e sua moglie non sono una coppia felice, non hanno fatto sintesi della loro diversità. Il professore è uno sempre di corsa, ha l’ansia nello sguardo e si nota lontano un miglio che guarda la moglie sempre con il tacito rimprovero di non stare al suo passo. Lei invece sembra rassegnata ed è taciturna. Sono lontani, ognuno nel proprio mondo. Io metto sempre i loro caffè uno accanto all’altro, perché mi sembra che così quelle due tazzine calde vicine, magari anche solo per un attimo, è una cosa per loro insieme. Tipo due cuore e due caffè. Che ci volete fare, non è che sono romantica, è che io non faccio solo caffè, e il caffè non è solo caffè. Qui dentro in mezzo alle tazzine ci passa la vita e io ci vivo e osservo. Così a forza di fare caffè, io entro nella vita della gente che passa da qui.
La signora Caterina stamattina è in ritardo, di solito arriva un attimo dopo i coniugi Trani e io se non la vedo mi preoccupo.
“Un macchiato, Alba”.
“Arriva Gino”.
Gino appoggiato al banco sbocconcella indolente il suo cornetto alla marmellata. Porta sempre gli occhiali sul naso e – bisogna dirlo – non ha l’aria proprio intelligente. Si guarda intorno come se volesse carpire tutto: i pettegolezzi, le notizie del giorno, i fatti degli altri. Che volete farci? A volte pianta lo sguardo addosso a qualcuno e non lo distoglie neanche se l’ammazzi, ma non se ne accorge poverino.
“Ecco il tuo macchiato Gino”.
“Grazie Alba”.
Però è gentile. Ringrazia sempre. Le mani di Gino sono grossolane e annerite dalle cromatine, sono goffe sul bianco della tazzina. Beve il suo caffè tutto d’un fiato e sempre dopo aver finito il cornetto. Sulle labbra gli rimangono lo zucchero a velo e gli spruzzi del macchiato, che se potesse ci infilerebbe anche il naso in quella tazzina. Ma lui non se ne cura. Va alla cassa, paga, e se ne va lemme lemme nella sua bottega, proprio qui di fronte, dove aggiusterà tacchi e sistemerà suole fino a stasera, come tutti i giorni, che quattro figli di questi tempi sono duri a crescere e lui vuole che studino. Di ciabattino in famiglia, come dice sempre, ne basta uno solo.
“E a me chi le rifà le scarpe?” Gli ho detto una volta.
“Che vuoi che sia! Ormai le scarpe si ricomprano, le butti via, mica si aggiustano più”.
Ho pensato che aveva ragione, non ci affezioniamo più alla roba che invecchia.
Eccola. Sta arrivando la signora Caterina, in ritardo sul solito orario. Lei il caffè lo prende normale.
“Il caffè deve essere caffè. Specialmente quello del mattino. Nero e bollente, ti deve svegliare. Giuseppe Parini, cara Alba, qualche secolo diceva “ma se nojosa ipocondrìa t’opprime, de’ tuoi labbri onora la nettarea bevanda”. Da lei imparo sempre qualcosa.
“Buongiorno Caterina, siamo in ritardo oggi”.
Le metto il caffè fumante sulla tazzina e accanto ci metto la zuccheriera. Lei allunga la sua mano elegante, con le dita lunga e affusolate, senza smalto. La fede all’anulare e il solitario che brilla. Fin dalla prima volta che l’ho vista mi sono innamorata delle mani della signora Caterina, che ha le mani da pianista e infatti il pianoforte lo suona. Ha un’età indefinibile, è sempre impeccabilmente semplice ed elegante, con un bel viso perfino adesso che è segnato dal tempo. L’unico vezzo è un velo di rossetto che le accende appena le labbra e lascia un alone delicato sul bordo della tazzina, come una lieve farfalla perlata. La signora Caterina è rimasta vedova due anni fa. Da quanto è morto il marito viene qui tutte le mattine. Dice che alla fine ci si abitua a tutto nella vita, ma alzarsi dal letto e farsi il caffè alla macchinetta piccola per sé sola, proprio non le va.
Sedersi in cucina e sorseggiare il primo caffè del giorno, ascoltando il silenzio della casa, credo le faccia sentire il vuoto. Almeno è così che la immagino io.
Ha preso l’abitudine di venirselo a prendere al bar sotto casa quel caffè. Il frastuono che c’è qui dentro a quest’ora l’aiuta a cominciare la giornata senza sentire il peso del vuoto che la schiaccia. Si vede che il marito le manca molto. Io li vedevo passare spesso, sempre insieme. Una volta mi ha confessato:
“Io non ho avuto figli, il Signore ha voluto così, ma ti auguro di trovare un uomo come il mio Giorgio e di essere felice come lo sono stata io.”
Mi sono commossa, sono rimasta come una scema senza sapere che dire. Per fortuna il suo caffè era pronto e comunque dietro di lei c’era Lucia che già vociava come al suo solito.
“Ho chiesto un caffè per piacere, ho fretta”. Lucia sa essere insopportabile.
La signora Caterina, che è una signora per davvero, ha preso la sua tazzina delicatamente e, senza nemmeno voltarsi o degnarla di uno sguardo, con gli occhi chiusi l’ha assaporato come se fosse davvero nettare. Poi ha salutato augurando buona giornata ed è uscita. Più tardi, verso la fine della mattinata, la sentiremo suonare. Prima o poi le chiedo se posso andar su in casa sua ad ascoltarla, che mi dà un senso di pace.
Intanto però ho lanciato un’occhiata torva al mio collega, perché invece Lucia proprio non la reggo. Lei il caffè lo prende con il dolcificante, lo so, ma a lei però io non glielo porgo, che se lo prenda pure da qualche parte sul banco dove l’hanno lasciato. È prepotente, ha sempre da ridire su tutto, deve stare al centro dell’attenzione. E lascia sul bordo della tazzina un tocco di rossetto rosso fuoco del chilo che si è stesa sulla labbra prima di uscire di casa.
“La mattina qui è un’impresa prendere un caffè”. Dice tintinnando una sfilza di braccialetti mentre sbatacchia il cucchiaino nella tazzina per sciogliere il dolcificante nel suo caffè. Il suv parcheggiato in seconda fila qui fuori è il suo, nonostante il suo negozio sia a poco più di cento metri da qui. Potrebbe tranquillamente parcheggiare e poi venire a piedi. No, lei invece lo lascia lì con le doppie frecce e poi va a parcheggiare dopo.
Ma volete mettere la sculettata mattutina quando esce dal bar? Apre la portiera, butta la borsa griffata sul sedile e monta in macchina. Deve darle una soddisfazione immensa. È per quella sculettata che viene al bar, mica per il caffè.
“Alba, mi metteresti da parte due sandwich al salmone e un vassoio di bignè? Oggi viene un venditore da Milano e non possiamo perdere troppo tempo per il pranzo.”
Ovviamente la spiegazione è d’effetto, donna in affari si sente Lucia.
“I bignè misti?” Domando.
“Misti vanno bene. Mi porti tutto in negozio per l’una e mezza con due caffè.”
“Normali?” le chiedo con una punta di piacere, lo so che si indispettisce se le fai perdere tempo con domande inutili.
“Normali sì, certo, mica viene da New York, viene da Milano.” Ribadisce. Indispettita.
“All’una e mezza sono in negozio.”
“Grazie angelo”.
Angelo? A me? Ma chi ti credi di essere? Gira sto’ culo e vattene, lo sappiamo tutti che il suv lo lasci lì, tanto a te i vigili ti fanno un baffo che sei l’amante dell’assessore! Va beh, questo l’ho pensato ma non l’ho detto. Però è esattamente quello che pensano tutti quando stanno con lo sguardo appeso al culo di Lucia che ondeggia mentre esce dal bar, sempre fasciata in certi jeans che solo a guardarla a me levano il respiro, tanto sono attillati.
Splash. La verità è che a lei il caffè glielo splasherei volentieri addosso. Una bella macchia larga sul petto.
“Oh come mi dispiace Lucia, che ho rovinato? Fendi? Prada? Armani?” Ci sarebbe una certa soddisfazione all’idea di aver offerto un caffè ad Armani.
Non sono invidiosa, a me d’Armani me ne frega il giusto. E poi, cosa vuoi invidiare a una poveraccia come Lucia che alla sua età è ancora ossessionata dal fisico perché il marito l’ha mollata per una molto più giovane. Da allora il livore l’ha devastata. Tanto che lo nasconde sotto quintali di fard.
Poi, alle nove, quasi tutte le mattine, finalmente si comincia a planare in discesa, dopo quasi due ore di carica polvere-stringi-premi bottone-afferra-servi, cinque gesti in sequenza che vanno praticamente in automatico insieme alla macchina del caffè. Ma stamattina, mentre sto per riporre le tazzine nella lavastoviglie, accade il fatto insolito. Quando lavori in un bar ti abitui che non c’è niente di straordinario in un fatto insolito, ma qui siamo in una piccola città di provincia e i fatti insoliti destano la curiosità collettiva. Vedo entrare un signore che già dall’aspetto lo noti subito che è forestiero. È alto, ben piantato, con una folta barba grigia, i capelli piuttosto lunghi. Indossa un giubbotto di jeans su una maglietta gialla con una scritta vistosa.
E adesso chi ci parla con l’americano? Perché non c’è dubbio: è americano.
“Buongiorno – dice l’uomo sorridendo. Ha una bella faccia, ispira d’istinto fiducia e buoni sentimenti – posso avere un caffè?”
Pronuncia questa frase lentamente, scandendo bene tutte le sillabe.
“Sicuro – faccio io – lungo?”
Do per scontato che lo vorrà lungo, gli americani se lo portano sempre in giro il loro bel bicchierone di carta col beverone dentro, almeno così sembra nei film.
“Siii, grrrazie – risponde rotolando la r – può metti due caffè, prego?” Aggiunge.
Io gli rivolgo uno sguardo d’intesa, ho capito al volo, come dire ok capo, ho afferrato. Così preparo due caffè. Poi gli mostro un bicchiere grande, di vetro, che di carta grandi non ce li ho, se no volentieri lo farei sentire a casa!
“Va bene qui?”
L’uomo annuisce, ripete un siiii prolungato. Miscelo i due caffè nel bicchiere, il liquido nero scivola morbido sul fondo. Poi aggiungo un po’ d’acqua calda e cerco di schiumare leggermente la superficie, vorrei assomigliasse il più possibile a un caffè americano. Ed eccolo qui il mio primo caffè americano servito a un americano. Mi sento ispirata. Afferro il cacao e, senza neanche chiedere, ma sento che apprezzerà, spolvero la superficie con un velo di cacao amaro. Vorrei anche aggiungere un tocco di nocciolino ben freddo, ma mi astengo, non vorrei esagerare. Metto il mio bel bicchierone sul piattino proprio davanti a lui e gli porgo un cucchiaino lungo.
“Ecco signore, il suo caffè.”
Lui aggiunge lo zucchero e comincia a bere. In quel momento è il solo cliente nel bar. E io mi sento come se avessi appena fatto un esame e sto lì ferma ad aspettare il responso. Lo osservo e aspetto. Il mio primo caffè ad un americano non è solo un caffè lungo, ma un tentativo di imitazione dell’originale.
“Mmmmmm, buono”. Dice assaporando le labbra.
Tiro un sospiro di sollievo e mi sento soddisfatta. Lui continua a sorseggiare lentamente. A tratti mi guarda, come se stesse cercando le parole da qualche parte nella testa, allora decido di aiutarlo.
“Parla italiano?”
“Just un po’…” risponde mimando un gesto con le dita. Ha un’aria simpatica.
“Anch’io inglese, just un po’… “ E mimo lo stesso gesto, così lo metto a suo agio.
“Mi fatto regalo oggi”.
Mi starà dicendo che gliel’ho fatto o che glielo devo fare?
“What?” chiedo. E mi sento già un po’ americana.
“Caffè, buono, molto buono. Sentito che tu… care. Io guardato.”
Non sono sicura di aver capito, ma non mi va di essere scortese, care significa cura, lo so. Quindi a occhio e croce mi sta dicendo che gli ho fatto il caffè con cura. È vero.
“Sì. Mi piace il mio lavoro”.
Mi sento un po’ ridicola adesso, perché mi accorgo che ho preso a scandire le sillabe anch’io. È straordinaria la comunicazione tra due esseri umani che non parlano la stessa lingua. È straordinario comprendersi nonostante.
“Prima volta in Italia?”
Azzardo mentre continua a bere lentamente il suo caffè. Sembra lo beva piano perché duri più a lungo possibile. E penso all’improvviso che è così che bisognerebbe vivere: piano, godendosi i piaceri e gli attimi. Quest’uomo sembra così. Mi risponde con un sorriso, poi abbassa lo sguardo.
“Ssiii. Italia bella, really beautiful, but i am here for a woman, an italian woman.”
Wow, direbbero loro, l’ha detto troppo di corsa. E io devo fare mente locale per riacchiappare le parole che ho capito e cercare di metterle insieme. But, woman, italian woman. Ci sono: è qui per una donna. L’ho capito subito che questo è un uomo di quelli che hanno una storia da raccontare, una storia insolita. Se no col cavolo che ci mettevo tutta quella cura a preparargli il caffè.
“Love?” Chiedo, e mi sento che sto andando alla grande.
“Sssiiiiii….” Sibila, ridendo felice perché ho capito.
Diamine! Vorrei chiedergli se per caso ne vuole un altro di caffè lungo, così mi racconta la storia, che oltretutto adesso non c’è nessuno. Ma quattro caffè in una botta sola magari poi gli fanno male.
Voglio dire, pensateci un attimo. Un uomo entra in un bar e bevendo il suo caffè confessa a una sconosciuta di essere in un paese straniero per una donna. La vita è così, se solo provi a entrarci dentro. E a me questo piace.
Mi chiedo come si dirà fortunata in inglese. Perché è quello che vorrei dire. Sento che questa donna è fortunata. Lucky, ecco… si dice lucky!
“Lucky!” Esclamo di botto.
“Me?”
“Lei also”. Rispondo, mi scappa un occhiolino e gli sorrido.
Lui ride di nuovo, di gusto, ha una bella risata, fa venire voglia di ridere, così rido anch’io e penso che gli uomini che sanno ridere meritano di essere amati alla follia.
“Sssii, bella storia. Beautiful love story. Love really can changes life. Io lasciato tutto in America per lei… By the way, I am Rob”. E mi porge la mano. È una mano grande, salda.
“Io sono Alba, welcome to Italy mr. Rob”. Gli stringo la mano.
È un buon inizio.
“Grazie, thank you so much for the wonderful coffee Alba. See you tomorrow – si ferma un secondo e pensa – …. ci vediamo… domane?”
“Domani, mr Ron, si dice domani. Prego, a domani”. Sorridiamo entrambi.
Alle dieci esco fuori per fumare una sigaretta. Non fumo molto, ma una ogni tanto mi rilassa. Finalmente è uscito il sole, mi siedo al tavolino e ne accendo una. Tiro la prima boccata e guardo il cielo blu. Davanti a me c’è una tazzina vuota che ha lasciato qualcuno, la guardo e penso che dovrei imparare a leggere i fondi del caffè, ma poi penso anche che non ne ho bisogno. Io li capisco senza leggerli, quei fondi. In compenso arriva ad allietarmi una farfalla. Che fenomeno della natura straordinario sono le farfalle. È bianca, appena screziata di giallo e di nero, si posa proprio sul bordo della tazzina, forse vorrebbe dirmi qualcosa, tipo che la vita è bella, o magari soltanto che anche a lei piace il caffè, visto che staziona qualche secondo proprio su una piccola goccia rimasta appesa.
Io vivo di questi particolari. Non so se per tutti è così.
Poi la farfalla si stacca e riprende il suo volo. La seguo con lo sguardo finché non scompare alla vista. La tazzina adesso è sola al centro del tavolino. Penso che un po’ mi assomiglia. Intanto ho finito la sigaretta, la spengo. È ora di rientrare. Tra un po’ arrivano a turno per la pausa caffè quelli che lavorano nella banca qui vicino. Bisogna mi ricordi di chiedere come sta la moglie di Cesare, sembra un cucciolo spaurito in mezzo ai colleghi da quando hanno scoperto quel maledetto cancro.
A volte vorrei avere il potere di preparare pozioni magiche da miscelare nei caffè, a ognuno la propria, non dico per risolvere i mali del mondo, che sarebbe troppo ambizioso, ma almeno ingegnarmi per confortare quelli che li devono sopportare.
Perché è vero che mi guadagno da vivere facendo caffè, ma dietro ogni tazzina che preparo c’è una vita e io ho il brutto vizio di guardarla negli occhi.
Comunque anch’io ho il mio caffè: al mattino presto, quando suona la sveglia, io rimango ancora un po’ nel letto, mi piace stare sotto le coperte mentre Luciano sguscia subito fuori, posso godermi quei dieci minuti di beato torpore nell’ozio senza pensieri. Lo ascolto mentre traffica in cucina e mi piace aspettare: so che sta preparando il caffè, il primo della giornata. Quello è il mio. E lo prendo a letto, tutte le mattine, come una regina. Poi mi alzo e mi metto in moto, pronta a vivere una nuova giornata e a rientrare nelle vite degli altri, anzi, domani lo metto il nocciolino freddo nel caffè di Rob, sento gli piacerà. E so che mi regalerà la sua bella storia.
Un caffè corto, prego. Per me normale, grazie. Per me invece lungo.
Corto.
Lungo.
Macchiato.
Caldo.
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