Due ore in seconda, anche qui fanno venticinque adolescenti turbolenti. Sono le 8 e qualche minuto. Tre di loro sfilano un cartoccio sul banco contenente uno sfilatino di dimensioni fame vera e cominciano ad addentarlo. Faccio notare che dovrebbero tirare fuori dallo zaini libri e quaderni, non lo sfilatino (che oltretutto è un attentato alla mia colazione a base di latte di miglio e cereali).
Uno dei ragazzi mi dice che si alza alle sei di mattina e altro che cornetto al bar… professorè, mi fa fame!! Mentre loro finiscono il panino io compilo il registro, che qui è cartaceo.
Prima ora di lezione, faticosa: ragioniamo su un testo argomentativo, svolgiamo un’esercitazione individuale, ma la mancanza di concentrazione e le chiacchiere continue producono scarsi risultati.
Alle nove e venti ho un’illuminazione: chiedo loro di svuotare il banco da qualsiasi oggetto e di metterci sopra le mani ben aperte, raddrizzando la schiena ed evitando di stare rigidi. Dovranno concentrarsi per due minuti ciascuno sul proprio respiro, cercando di entrare in relazione con la propria testa, i pensieri, magari aiutandosi con qualcosa che li rilassi, un colore, un paesaggio, un’immagine. Poi dovranno fare silenzio fino al mio stop. Sono scettica, non credo funzionerà, ma ci provo.
Parte il cronometro e con mia grande sorpresa soltanto tre faticano a prendersi sul serio. EUREKA! C’è silenzio, sta funzionando. Hanno gli occhi chiusi e le mani sul banco. Do un minuto in più. Ce li lascerei così…
“Va bene, fate un bel respiro e aprite gli occhi”.
Sono felice, tre minuti di silenzio (peccato per i rumori esterni), sono contenti anche loro, gli è piaciuto.
Afferro al volo il libro che sto leggendo (io leggo molto in classe, muovendomi tra i banchi). Il libro è Oscar e la dama rosa, un romanzo breve, una storia lacrimevole, gli ultimi dodici giorni in ospedale di un bambino di dieci anni ammalato di cancro. Ebbene sì, gioco sporco. Scelgo storie fulminanti che li commuovano, cerco la reazione. D’altro canto quando devi fare l’incantatrice di serpenti il flauto deve avere le note giuste, se no quelli sgusciano via e gli fai un baffo. Devono sentire cosa può starci in un libro, questo sconosciuto.
Oggi però la sorpresa è che dopo l’esperimento li vedo particolarmente attenti, mi seguono con lo sguardo. Io dentro gongolo. Leggo un breve capitolo e smetto, siamo a ridosso della campanella e manca poco alla fine dell’ora. MA. Succede che mi dicono che mancano cinque minuti e posso continuare a leggere ancora.
Ecco. Queste sono le belle giornate. Oggi sono soddisfatta. Dovrò ripetere questo esperimento.
Mentre vado in sala insegnanti penso che sono anni che nelle riunioni di dipartimento propongo di smettere di adottare libri di testo al biennio pieni di brani estrapolati a cazzo di cane dai romanzi con schede di analisi incomprensibili e d esercizi ancora più inutili che levano il gusto di leggere.
Racconti, romanzi, storie, affabulazioni. Combattiamo un nemico agguerrito con le armi spuntate, in più ce le spuntiamo anche da noi. Nelle case ci sono pc, tablet, cellulari, tv sempre accese. Ormai i libri, quando ci sono – raramente – sono al massimo oggetti di arredamento. Se non ridiamo valore noi alla lettura riconquistandoli a ciò che la lettura può significare (e apportare) chi lo deve fare?
Metto a posto il registro e c’è un collega di italiano che mi comunica che abbiamo una conoscenza in comune. Iniziamo a chiacchierare, entrambi abbiamo un’ora di buco per raggiungere l’altra sede.
Viene fuori che lui non vede l’ora di andare in pensione, è stanco, non ne più. Io gli dico che è una cosa triste, alla fine di una carriera, tanta amarezza. Non è la prima volta che mi capita di parlare con colleghi amareggiati a fine carriera. Lui ammette che non è una bella sensazione, soprattutto se ripensa all’entusiasmo con cui ha svolto il proprio mestiere. Gli ultimi decenni hanno eroso un pezzo di voglia di lavorare per volta. Abolire il ministero dell’istruzione, questa forse sarebbe una soluzione. Danni su danni.
“A che serve aver scioperato compatti l’anno scorso, quando poi hanno fatto tutto esattamente come avevano detto? Ci mancava solo il potere ai presidi, ora siamo a posto. Ho visto tutto. ” Dice.
Entra un altro collega che non conosco. Si aggiunge alla discussione, anche lui – non giovanissimo – è piuttosto demotivato. Ne riporto uno stralcio.
“L’altro giorno in un bar ho incontrato uno dei ragazzi migliori che ho avuto – dice – a cosa gli è servito tutto quello che gli ho insegnato per programmare? Il barista fa! Mettono 400 ore di alternanza, ma al nord forse la possono fare, qui dove li mandiamo i ragazzi che non ci sono le imprese?”
“A Gizzeria hanno avviato solo una prima classe alle elementari quest’anno – aggiunge il collega di italiano – 18 sono stranieri e due sono italiani. I giovani se ne vanno. Anche mia figlia ha accettato l’incarico a Cerveteri. Farà figli che cresceranno là e non avranno nessun legame con questa terra, questa è la verità.”
Non dico niente, io sono tornata, ma certo non faccio la differenza. Anche perché non sono tornata per salvare la patria, forse neanche me stessa. Ma questa è un’altra faccenda.
Esco e penso che stamattina ero contenta, ma va così, la solitudine del professore, capita di fare una buona lezione a venticinque ragazzi che non vorrebbero star lì, ma sai che il sistema al quale appartieni non è questo che vuole o valuta. È stato umiliato come più non poteva esser fatto, tanto da far desiderare di andarsene e chi s’è visto s’è visto.
La scuola. Quella che dovrebbe essere l’istituzione più importante, affidata ad arrampicatori sociali di passaggio, a politici coglioni e incompetenti.
Non siamo parte di un sistema, siamo monadi vaganti affidate al caso di una buona o una cattiva giornata.
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