“Ogni inizio è un buon inizio”. Diceva sempre mia nonna.
E se lo diceva lei che aveva vissuto una guerra e un dopoguerra, ci si può credere. È per questo che oggi penso a lei, Iolanda Ferri, classe 1908, morta qualche anno fa alla bella età di novantotto anni. Sono stati i suoi racconti a insegnarmi la forza, più di ogni altra esperienza, hanno fatto sì che guardassi al pane e agli uomini con rispetto.
Oggi è una bella giornata settembrina, l’aria è pulita perfino in quest’angolo di periferia. Mi appoggio al braccio di mia figlia Eleonora. Per la prima volta mia figlia mi appare come la donna che è diventata. Da adesso in poi non sarò più io a farle le prediche, a ricordarle gli orari e le scadenze, ad arrabbiarmi perché prenda le sue medicine per le influenze o il raffreddore. I ruoli si sono invertiti. Già la sento, apprensiva com’è, lì pronta a osservare ogni mio battito di ciglia. Eppure il pensiero non mi infastidisce, ci sento l’odore dolce della vita che ritorna. Cammino e i miei passi sono incerti, ma è un’incertezza diversa da quella che ho conosciuto in questi lunghi, ultimi mesi. Chissà com’è stato quando ho mosso i primi passi da bambina (chissà chi c’era con me in quel momento, magari c’era proprio lei, nonna Iolanda, non me lo ricordo) perché mi sento un po’ così, come se stessi muovendo i miei primi passi e l’incertezza è il non sapere quale sorpresa mi attende una volta fuori da qui. Devo imparare molte cose ancora di questa malattia, ma di certo non mi priverà più del piacere degli attimi. Per lungo tempo l’ho guardata negli occhi come un’acerrima nemica, lasciando che avvelenasse il tempo, gli affetti e le cose. Non si è presentata, è arrivata e si è impossessata di me. L’ho odiata e maledetta per questo.
Con il passare del tempo però ho capito che stavo facendo il suo gioco, un gioco sporco e crudele. Lei stava attaccando le mie cellule, le putrefaceva, era un animale famelico che aggrediva con precisione decisa, senza sbagliare un colpo. Se volevo combatterla davvero, dovevo diventare sua amica, dovevo stringere un patto di alleanza con la mia malattia, viverci, comprenderla, prevenirne i meccanismi e le intenzioni. C’ero anch’io in quella parte di me devastata, non ero più una ma due, questa è stata la parte più difficile da accettare.
Così io e il mio cancro siamo diventati amici e se le terapie mediche sono stati strumenti di alleanza, la strategia si è dispiegata nel mio cervello: io dovevo uccidere la parte malata di me.
I medici sono convinti che la mia volontà sia stata determinante.
Certo sono stata fortunata, ho avuto il tempo dalla mia parte, altri non lo sono stati altrettanto, il rischio è sempre quello di non arrivare in tempo. E anche per me, all’inizio, sembrava così.
Com’è luminoso il viale stamattina, non ho voluto che Eleonora portasse la macchina all’uscita, volevo camminare a tutti i costi fino al parcheggio. Respirare come sto respirando. In questo momento sono grata a mia figlia per il suo silenzio, forse sta ascoltando i miei pensieri. Sento il suo profumo agrumato. Si è profumata per me. Magari non è così, è solo che come d’abitudine ha spruzzato l’essenza sul collo e sui polsi, senza alcuna intenzione. Ma mi piace pensare lo abbia fatto per me oggi, un gesto d’amore per allontanarmi dagli odori dell’ospedale e farmi sentire la forza degli alberi fioriti al sole, delle zagare bianche, delle foglie lisce e porose.
Mancano ormai pochi passi alle macchina, ce l’ho fatta, tra poco sarò di nuovo a casa. Greta, la mia gatta, impazzirà dalla gioia, e anch’io.
Eleonora mi dice: “Ci siamo, mamma”
L’ospedale è alle mie spalle, non mi volto, guardo i suoi occhi premurosi di giovane donna con dentro la vita che preme e le rispondo:
“Sì, ci siamo”.
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