Ogni mattina per andare a scuola faccio il tragitto a piedi e passo davanti ai giardinetti pubblici adiacenti alle scuole, che versano in condizioni disastrate.
Stamattina però quello che ho visto mi ha toccato: su una delle strutture in legno (quelle sulle quali i bambini si arrampicano) stavano due ragazzi di colore. Uno era seduto in bilico su un palo, la schiena appoggiata e la testa reclinata. L’altro steso su un altro palo. Entrambi stringevano la giacca sul petto e dormivano. Mi sono chiesta come facessero a dormire abbarbicati a dei pali così stretti, in quel modo così scomodo. Poi, osservando meglio, ho notato che la struttura stava nell’unico spicchio di sole del giardinetto. Doveva essere stato il freddo a portarli lì e la stanchezza li aveva vinti, considerando che a quell’ora di solito c’è un bel viavai con le scuole e il supermercato accanto.
Ho continuato a camminare, indignata perché – diciamolo – siamo uno schifo di umanità.
Poco più avanti poi ho incontrato un cane che ha attirato la mia attenzione perché era di un colore particolare, grigio topo, un grigio brutto devo dire, strano per un cane. Aveva la pelle che pendeva sotto e davanti e – cacchio – leccava una plastica trasparente sulla quale non c’era niente, se non forse uno strato invisibile di qualche sostanza che aveva avvolto. Il cane leccava come un pazzo, talmente famelico che quella pelle avvizzita e pendente mi ha fatto rabbrividire. La fame.
Ho pensato che ai ragazzi sto raccontando di Dante che cammina in una selva oscura e incontra tre fiere e poi va a farsi un giro all’inferno con Virgilio.
Ma l’inferno, se solo cammini e guardi, è intorno, è che non lo vogliamo vedere. Non facciamo altro che giudicare e maledire chi l’inferno lo vive, ma fermarci, mai.
All’uscita di scuola, rientrando, ho poi fatto un altro incontro, doloroso, e non sembri strano: attaccata alla rete che delimita un campo c’era una farfalla bellissima (è nella foto). Grande, colorata. Ho notato che muoveva le ali ma non volava. Così mi sono avvicinata, ho provato a prenderla delicatamente, ho provato a farla volare. Niente. Così l’ho rimessa al suo posto, dov’era prima, perchè forse era lì che voleva stare e chissà perché, scema come sono, non volevo andar via.
Stavo andando alla posta e invece poi neanche ci sono andata, perché ero, lo ammetto, turbata: aver lasciato quella farfalla contro una grata, non so, una così grande bellezza sprecata, imprigionata, fatta fuori. Mi ha provocato una tristezza infinita. Forse è vero che non sono normale, che camminare a piedi comporta che lo sguardo si fermi e indaghi, ma oggi i particolari a margine mi hanno raccontato quanto siamo incapaci, noi che ci definiamo “esseri umani”, a correre sempre per niente.
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