“Dante: Appunti su tematiche teologiche” di Angelo Grandinetti

3 maggio 2021 per il progetto “Comunicare Dante.” Uniter Lamezia Terme

Anche se la Commedia era destinata a essere un’opera letteraria e non teologica, essa prefigura il modo in cui è concepito l’aldilà e preannuncia i destini ultimi dell’umanità e del singolo individuo. Questi aspetti escatologici hanno generato nei secoli un enorme interesse, pertanto seguiamo il contributo di approfondimento scritto dell’avvocato Angelo Grandinetti dal titolo “Dante: Appunti su tematiche teologiche”

Mi è stato richiesto di trattare aspetti teologici presenti nelle opere di Dante, con riguardo particolare al tema dell’escatologia. Mi limiterò solo a due. Ho il dovere di avvertire che non ho molto dimestichezza con le tematiche più propriamente letterarie e in proposito ho tutte le reminiscenze che porto nel mio bagaglio di conoscenza. Nella trattazione di questo scritto, sono stato aiutato in particolare da un testo stenografico di una conversazione tenuta dalla professoressa Lina Bolzoni (docente di letteratura italiana e preside alla Scuola Normale e all’università di Pisa che conosco dai tempi dell’Università) all’associazione “Guido Sacchi” e da articoli apparsi su Repubblica a firma di Massimo Cacciari. Dopo questo necessario preambolo, in premessa mi preme ricordare come nella Epistola XIII è Dante stesso che si preoccupa di definire la Divina Commedia come allegoria teologica più che poetica in quanto sono veri sia la narrazione (verba) sia i significati spirituali (res) in essa contenuta. In questo contributo mi occuperò di alcuni delimitati temi, con l’avvertenza che mi sono stati di grande aiuto gli scritti (oltre a quelli già citati) di alcuni autori, uno dei quali (p. Ernesto Balducci) ha attraversato tutto il dopoguerra attestandosi, tra i teologi italiani, per il senso profetico delle sue opere. Nel suo trattato “Storia del pensiero umano” al vol. I° nella parte dedicata al tramonto del medio evo delinea due temi fondamentali che fanno di Dante un precursore della modernità.

Il primo investe il tema della laicità della politica, che Dante tratta già nel Convivio e successivamente nel trattato La Monarchia. In tale opere si pone sulla scia di Tommaso d’Aquino secondo il quale l’uomo è chiamato alla felicità temporale e a quella eterna, che, per realizzarsi hanno bisogno di due guide: il Sommo pontefice che, secondo la verità rilevata, conduce gli uomini alla vita eterna e l’imperatore, che secondo gli insegnamenti dei filosofi, indirizza il genere umano alla felicità in questa vita. In questo schema duale (verità rilevata e quindi eterna / insegnamento dei filosofi e quindi relativa perché interna al tempo), Tommaso stabilisce la subordinazione del temporale allo spirituale.

Dante rifiuta tale impostazione: l’autorità del monarca temporale discende in lui, senza alcun intermediario, dal “Fonte dell’autorità universale”. Poiché il destino dell’uomo ha un senso unitario, che si realizza nella pace, spetta all’imperatore, in quanto autorità politica, realizzare sulla terra le aspirazioni degli uomini. La Chiesa, al contrario, non ha e non può avere potere politico.

Per comprendere tale visione sono sufficienti due soli riferimenti: 1) le invettive contro la donazione di Costantino, che fu determinante nel legame tra ricchezza e potere politico e, di fatto, fu causa ed effetto della mutazione della natura stessa della chiesa ed del papato; 2) l’esaltazione della povertà di Francesco d’Assisi, “come qualità che doveva essere della Chiesa, sposa di Cristo”. Oggi tale prospettazione sembra ovvia (anche se non del tutto scontata): ma quanti secoli ci sono voluti?

Ma la modernità della teologia di Dante si manifesta in maniera ancor più evidente nella profezia dei tempi nuovi, che disegna la escatologia cristiana come viaggio della coscienza verso una redenzione definitiva. In lui vi è l’esaltazione dell’uomo che, nella sua singolarità, è responsabile del destino di tutti, attraverso un “nesso tra il privato e il pubblico, tra salvezza dell’anima e salvezza del mondo, tra giustizia morale e giustizia politica” .

Tutti noi abbiamo ben presente l’inizio del viaggio (“mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita”). E’ un verso ripetuto a memoria, anche nelle situazioni e nelle occasioni più strane, senza pensare che traccia il cammino della coscienza universale verso il bene supremo. Tale viaggio inizia con un’affermazione: “Io non Enea, io non Paulo sono” (Inferno II.32). A cosa allude? Per Enea la risposta è facile e immediata: dalla sua progenia deriva la fondazione della città e dell’impero. Più difficile è il riferimento a Paolo. Per comprenderlo occorre rifarsi a due testi. Nella seconda lettera ai Corinti, Paolo allude ad un viaggio ultramondano: “Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa (se fu con il corpo non so, se fu senza il corpo non so, Dio lo sa), fu rapito fino al terzo cielo. So che quell’uomo (se fu con il corpo o senza il corpo non so, Dio lo sa) fu rapito in paradiso, e udì parole ineffabili che non è lecito all’uomo di pronunciare.” (2 Cor. 12, 2-4). Questo testo è stato ripreso e sviluppato nell’opera apocrifa L’Apocalisse di Paolo o La visione di Paolo redatta in greco fra il II e III secolo ed ebbe grande successo nell’alto medioevo . Dante la conosce e ne segue lo schema che possiamo riassumere come segue.

L’inferno ha un itinerario curvilineo tortuoso con andamento verso sinistra; il purgatorio ha invece un andamento rettilineo con spostamenti a destra; nel paradiso si procede verso oriente. Tutto ciò, nel linguaggio dei segni, ha un preciso riferimento in Agostino secondo il quale il lato mancino rimanda al negativo mentre quello destro al positivo. Il Paradiso è l’arrivo (ad oriente) e si manifesta, con l’accompagnamento di Beatrice, all’elevazione totale.

Lungo questo itinerario compaiono e si radicano personaggi ognuno dei quali è la rappresentazione di un vizio o di una virtù. Sono persone e storie di uomini e donne, trascese in ogni caso dalla sublimità della poesia (v. per tutti Paolo e Francesca), ma nello stesso contengono, “in res”, un percorso di edificazione e di conversione, per come è evidente nel canto XVII, Paradiso, vv. 136-142) nel quale Dante fa dire a Cangrande: Però ti son mostrate in queste rote,nel monte e ne la valle dolorosapur l’anime che son di fama note,che l’animo di quel ch’ode, non posané ferma fede per essempro ch’aiala sua radice incognita e ascosa,né per altro argomento che non paia.

E dunque le persone che incontra, attraverso le loro storie, diventano la rappresentazione di una coscienza etica, che disvela l’animo umano e nel contempo ne traccia il cammino nella storia quotidiana e nel tempo, tra presente e futuro, il cui punto d’arrivo è l’eternità, punto d’incontro tra amore (agape ) e fedeltà della coscienza etica in una visione che è trascendente ed immanente nello stesso tempo.

E qui ci troviamo di fronte al tema dell’escatologia, la cui definizione significa (escaton + logos): ciò che riguarda il destino finale dell’uomo e/o dell’universo. Tradizionalmente le definizioni inferno, purgatorio e paradiso sono state sempre viste come ciò che compete ad ogni singolo, sulla scorta del suo vissuto: in fondo una giustizia retributiva che distingue buoni e cattivi, santi e peccatori, che deriva dall’affermazione di fede che Gesù “verrà per giudicare i vivi e i morti” e soprattutto nella certezza della resurrezione dei morti e della vita eterna. In realtà il cammino di comprensione del mistero (attenzione, non nel senso di qualcosa di oscuro, ma nella sua accezione dalla traduzione dal greco di “disvelamento”) è stato lungo e complesso e spesso contraddittorio.

La prima comunità cristiana, dopo l’evento della resurrezione, visse nell’attesa (parusia) che Gesù sarebbe ritornato di lì a poco: maranatha era la formula della preghiera più comune. Tale credenza ci è attestata negli Atti degli apostoli ma anche nelle prime lettere di Paolo (1 Tessalonicesi e Filippesi). Con il passare degli anni e con la morte della prima generazione ed in particolare dei testimoni diretti, il convincimento viene, poco alla volta, a modificarsi e si comprende che al contrario dell’escatologia giudaica (orientata verso il futuro) l’escaton è già cominciato. E così Marco (1,15) scrive “il tempo è compiuto” e Paolo, a più riprese, in Galati 4,4: “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Figlio suo, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge” e, nella prima lettera ai Corinti (10,11) ammonisce “queste cose furono scritte come ammonimento per noi per i quali è sopraggiunta la fine dei tempi”.

Come si vede compare la dimensione del tempo e qui occorre precisare che il tempo è compiuto significa che il Regno di Dio è presente oggi nella storia degli uomini e non è evento trans storico. Uno dei più importanti teologi del novecento, scomparso di recente, Raimon Panikkar , ha coniato il termine “tempieternità” che significa l’appartenenza contemporanea dell’uomo sia al tempo che alla vita di Dio. Il tempo è espresso in due concezioni: il tempo lineare nel quale il passato condiziona il presente che a sua volta progetta il futuro che però è spezzato, nel suo concatenamento, dalla morte; e il tempo circolare, nel quale l’umanità non cerca la progressione nel futuro, ma vive il presente nel quale il tempo e l’eternità consentono a tutti di realizzarsi senza l’angoscia della morte. La Buona Novella è che qualsiasi uomo, in qualsiasi condizione, può sperimentare l’amore di Dio ed il suo progetto di una umanità riscattata e che nell’essere “fratelli tutti” vive nell’oggi la dimensione dell’eternità .Dante, pur nel contesto storico, culturale e teologico di riferimento, contrassegnato, in particolare, dal pensiero di Gioacchino da Fiore, Agostino e soprattutto Tommaso d’Aquino, si attesta con una sua peculiare originalità. Egli, infatti, pur conservando la consapevolezza di Agostino che la storia è ambivalente e che il bene e il male hanno necessità di rimedi vincolanti, esprime l’utopia di una redenzione che si può realizzare nel presente.

E così nel Paradiso, nel canto XXXIII, per ben due volte, si esprime:(vv.61-63): quasi tutta cessamia visïone, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. e, nei vv.91-93: La forma universal di questo nodo Credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’io godo.

Dante è nella sua realtà corporea e l’estasi, il dolce e il godimento sono l’espressione di un cammino, che pur nella sua complessità, possono essere vissuti e raggiunti nella realtà presente.

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