LETTERA A MIA MADRE
Cara mamma,
per me le parole non sono mai state facili: sono chiusa, un’ostrica con le valve serrate. È stata dura vivere con questa me stessa. Tu sai però che non sono così, o almeno non più da quando c’è Maria Sole. Mentre scrivo lei è lì, placida, beata nella sua culla, sta facendo un sonnellino. Spero anche un sogno meraviglioso. Ne approfitto per scrivere una lettera che non ti darò mai. O forse sì. Chissà. Mentre guardavo mia figlia, quella parte di me che altro non desidera che svestirsi dai luoghi comuni dei giudizi altrui vorrebbe gridare. E ho deciso di scrivere quello che vorrei gridare. In fondo è una sola parola: GRAZIE.
Grazie perché so quello che non voglio per Maria Sole.
Grazie perché so che sarò una buona madre.
Grazie per la determinazione che sento come un marchio a fuoco.
Grazie perché so che non dovrà vivere quello che ho vissuto io. Non sono sicura che i bambini sognino, ma so che non dimenticano. Gli adulti lo pensano. Io so che non è così. Io non ho dimenticato, niente.
Nemmeno quella ciocca di capelli rimasta nelle mani di mio padre quando avevo tre anni. Strano vero? Può una bambina di soli tre anni avere ricordi così nitidi? Eppure ricordo tutto. Ho vissuto temendo il rumore delle porte che sbattevano: avevo imparato che quello era il segnale. Perfino adesso non sopporto le porte che sbattono. Sapevo che quando il babbo sbatteva una porta qualsiasi era nervoso e quando era nervoso la sua rabbia montava e quando la sua rabbia montava quasi sempre seguiva un pretesto qualsiasi. E dopo le botte. E il tuo silenzio.
Ecco: quel silenzio è stato il pozzo nel quale sono sprofondata. C’ho annaspato dentro per tante notti, al buio, da sola, cercando favole.
Le botte invece non le sentivo, avevo imparato mille trucchi per proteggermi da quel suono. Non volevo sapere, non volevo immaginare, non volevo capire. Mio padre sapeva farmi ridere. E io volevo che quello fosse mio padre: l’uomo che mi faceva ridere. Quell’altro, quello che una sera ho visto con una ciocca dei tuoi capelli tra le sue dita, era qualcuno che non conoscevo.
Se il giorno dopo scorgevo i segni era con te che ero arrabbiata. Era con te che ce l’avevo, mamma.
Tu l’hai fatto per me di restare, era il tuo inferno, ti sei illusa fosse il tuo personalissimo inferno. E pensavi di salvarmi. Sbagliavi mamma, perché era anche il mio.
L’amore. No. L’amore non c’entra. L’amore non giustifica tutto. L’amore non ha niente a che fare con la paura. Non ci può essere amore in un uomo che sfoga la rabbia sulla donna che ha scelto, la madre di sua figlia. L’amore può finire. Era finito. Quello che non finiva erano i giochi al massacro per nascondersi ognuno dalle proprie fragilità. Di questo si trattava mamma. Fragilità. E maschere.
Non m’importava di vedervi sereni, sapevo che quando c’erano, le carezze erano false. Era un’ipocrita condivisione della vita come se la vita fosse la casa dove seppellirsi. E io il pretesto per quella morte.
Avremmo potuto andarcene. Io e te. Magari avrei visto mio padre solo quando mi avrebbe fatto ridere. Potevamo essere libere. Io e te.
Potevo crescere senza quella paura eterna delle porte che sbattono, dei vetri che tremano, dei tonfi che uccidono dentro il diritto alla felicità di una giovane vita qual’era la mia.
Hai aspettato fossi adulta per andartene. Ma non c’è niente di eroico nell’aver atteso tanto tempo. Gli uomini bambini che odiano la donna diventata adulta nonostante loro non hanno niente di eroico, devono essere lasciati soli davanti allo specchio. Lì, a guardarsi. Forse lo avrei amato di più, mio padre, forse non avrei dovuto faticare sempre nel dover dividere il padre che rideva dal mostro che sbatteva le porte e si avventava su mia madre: un essere dolce, fragile, una delicata farfalla che dipingeva girasoli e volti di donne tristi. Tanto erano pieni di luce gli uni, tanto erano ombrosi gli altri.
Io non sapevo come difenderti, non sapevo come e per chi dovevo soffrire. E crescendo ho avuto paura d’amare.
Io e te. Libere. Mamma. Sarei cresciuta più allegra, sorridente. Ho faticato a fidarmi di un uomo da amare, a concedere il mio corpo alla vita che poteva avere. Ho faticato ad essere una persona solare, quale dentro sentivo di essere.
Maria Sole mugugna: si sta svegliando. Muove i suoi minuscoli pugni chiusi come se volesse spingere l’aria e dire: eccomi, ci sono. Piagnucola, reclama la mia attenzione. Quindi ti lascio mamma.
Grazie per aver abbandonato quell’uomo.
Grazie perché mia figlia non dovrà mai avere paura.
Grazie perché ora so che l’uomo nero esiste solo nelle favole peggiori e quella mia figlia non la conoscerà mai. Ne avrà altre.
Tante. Belle. Infinite. E io con lei.
* Questo scritto è stato premiato al concorso nazionale Premio Mimosa 2013, I classificato ex aequo
Bellissimo…
Quante donne si riconosceranno in questo racconto!
L’ha ribloggato su Camminando a parole….