Daniela Grandinetti, scrittrice e attivista lametina, esce con la sua seconda pubblicazione La Malasorte in cui racconta le vicende di una terra oggi abbandonata e del suo popolo sofferente e speranzoso in una vita migliore. L’autrice stessa ha deciso di tornare alle proprie origini e di lasciare la Toscana, dopo anni di lavoro, per riappropriarsi della terra città natale, Lamezia terme.
Questa sera la ringraziamo perché con le sue parole ed in particolare con la storia di Cosma, protagonista de La malasorte, ci proietta in un mondo lontano e reale, rendendoci parte di una società di cui siamo testimoni.
Nei suoi scritti affronta tematiche di carattere sociale altamente formativo in cui i lettori sono protagonisti di un ideale che rispetti la dignità umana e personale.
Le storie di Daniela fanno sognare grazie alla penna delicata ed incantata della scrittrice che rende la semplicità di un gesto vera e propria poesia
Grazie, davvero
Daniela
(La targa, realizzata dal Maestro Maurizio Carnevali, è per me. I fiori sono per Cosma)
“… fino a quella mattina c’era il futuro che stava aspettando. Se l’era immaginato come una dama bianca che da lontano le stava venendo incontro, ed era ogni giorno più vicina. Aveva un fascio di fiori tra le braccia, lei li avrebbe presi, odorati e li avrebbe messi nell’acqua.”
Non si scrive mai per sé stessi, chi lo afferma dice una menzogna. Io l’ho fatto appena ho cominciato a praticare la scrittura più seriamente e non ne vado fiera.
Quando, come nel mio caso, si scrive perché da qualche parte ti si presenta un personaggio, una storia, uno stimolo, non sei salva fino a che non ha preso vita, forma e fattezze.
Se poi, sempre come nel mio caso, non si rincorre il famigerato quarto d’ora di celebrità accompagnato dall’ambizione di vedersi pubblicati, i concorsi sono un ottimo modo per mettersi in discussione, in gioco, per verificare se quella storia dice qualcosa, racconta qualcuno, arriva a destinazione.
Un attore non studia sette camicie per imparare una parte e poi salire su un palcoscenico senza avere pubblico davanti, sarebbe fatica inutile e sprecata. Se ha passione si prepara con scrupolo, non pensa a quanto numeroso sarà il pubblico che lo ascolterà. Uno o cento sarà lo stesso. Ma quell’uno deve esserci.
Ecco perché vincere un premio fa piacere e ogni premio ha una storia a sé nel proprio personale percorso. Ne ho vinti abbastanza e ognuno mi ha lasciato dentro qualcosa di nuovo e diverso.
Il premio che mi è stato conferito dall’Associazione I fili di Arianna di Marcellinara è per me significativo perché lo vinco in Calabria, nella mia terra, dove sono tornata a vivere.
Mi piace perché è un’associazione femminile molto attiva in questo piccolo comune calabro, che promuove la scrittura di genere e in generale la cultura delle donne e per le donne e per me, che di donne spesso scrivo, è essere a casa.
Stella non è il mio nome è il racconto con cui ho vinto, sentirlo leggere da Rosina Paonessa mi ha emozionato, e come sempre accade, non mi sembrava di averlo scritto. Mi ha però emozionato di più la motivazione, che racchiude davvero quello che ho cercato di raccontare.
Quando mi danno un microfono in mano per parlare di me, sento la mia voce arrivare da fuori e non riesco ad ascoltarmi, mi va in pappa il cervello, per questo, visto che non l’ho fatto, ringrazio qui l’Associazione I fili di Arianna, la sua Presidente Maria Francesca Donato e la Coordinatrice Silvana Scerbo che mi hanno accolto con calore e, infine, la presentatrice della serata, Donatella Soluri, che è stata bravissima. Grazie anche a Daniela Rabia che con il suo romanzo Matilde ha vinto la sezione Romanzi Editi, è una forza della natura, una persona così vitale che merita tutta l’attenzione.
Da ultimo vorrei segnalare, oltre alla bella cerimonia organizzata (senza trascurare il buffet che vi assicuro merita la menzione!), alcune coincidenze che continuano a seguirmi: il premio era dedicato alla Poetessa calabrese scomparsa Giusy Verbaro, era presente la famiglia che ha ritirato una targa; a lei hanno dedicato un breve filmato, lei che ha vissuto tra Firenze e Soverato, che ha amato la Calabria natia e la Toscana, sua terra d’adozione. Il mare calabrese e il Duomo di Firenze mi hanno detto: qui, adesso, lei, tu.
Per questo mi piace concludere con dei suoi versi, bellissimi.
L’ala ci sfiora piano.
Sarà nadir o zenit il punto in cui converge l’umano col divino?
Come farsi toccare, benedire da intelligenze alate,
da fuoco che non brucia se l’esilio del cielo ci condanna?
Ma gli angeli dispongono tra cielo e terra
strategie di incontri e armonie di tracciati.
Loro sanno di cuori più di quanto i cuori stessi sappiano.
E dei cuori misurano percorsi riconoscendo i baratri.
E sanno delle voci.
Ne conoscono l’eco, gli alfabeti segreti ed i segreti suoni
perché la millenaria storia umana è un grande libro aperto alla memoria.
Giusi Verbaro (Da Il vento arriva da uno spazio bianco)
Seconda classificata con il racconto: ELIDE E ARTURO – CAFFE’ IN FABBRICA
Sono circa le sei di una mattina qualunque di una metà di dicembre, un anno che non importa ricordare. Elide si sta svegliando abbracciata al suo cuscino mentre le sembra di sentire nell’aria l’aroma del caffè. Arturo è in cucina che sta alzando le tapparelle, ha aperto il rubinetto dell’acqua, sta preparando la colazione per lei. In camera da letto filtra una luce opaca dalle persiane, segno che sta facendo giorno e per lei è quasi l’ora di alzarsi.
Alle sei in punto suona la sveglia, Elide allunga una mano fuori dalle coperte e la spegne. Apre gli occhi, si tira su a fatica, fuori dalle coperte la investe il freddo umido che impregna l’aria. L’aroma di caffè non c’è, deve averlo sognato, sente solo quel freddo che odora di inverno. Guarda il posto vuoto accanto al suo nel letto. L’impulso sarebbe di rimettersi sotto le coperte e cacciare la testa sotto il cuscino.
Dalla strada le arriva il rumore del camion che svuota i cassonetti della spazzatura. Elide sta in ascolto fino a che il rumore si allontana e si perde fino a tacere, appena un’increspatura nel risveglio del quartiere, poi è di nuovo silenzio. Elide deve alzarsi o farà tardi.
Fino a qualche settimana prima al mattino presto l’odore del caffè per casa c’era davvero, Arturo di ritorno dal turno di notte lo preparava per lei prima di mettersi a letto, mentre lei si vestiva per andare a lavorare nella stessa fabbrica.
Adesso è lei che prepara il caffè, lascia due moka da sei tazze già pronte sul fornello dalla sera prima. Appena in piedi striscia in cucina per accendere il fornello, poi va a lavarsi mentre il caffè viene su usando l’acqua ben fredda sul viso per sentirsi nel mondo dei vivi. Torna in cucina ed è sveglia, prende il suo caffè e versa il resto in un thermos grande, ne avvita il tappo con cura perché si mantenga caldo e prepara altre due moka da sei tazze. Il caffè deve essere abbondante, deve bastare per tutti. Va a vestirsi, se per vestirsi si intende coprirsi, indossa una calzamaglia di lana, dei vecchi pantaloni di fustagno pesante, un maglione e la giacca a vento, incurante dei colori accozzati male. Infine si cala un berretto sugli occhi.
Riempie il secondo thermos e infila tutto in una borsa termica dove ha sistemato delle fette di pane e due barattoli di marmellata. La marmellata è quella che ha fatto sua madre al paese, l’estate prima, con le prugne che maturano al sole sugli alberi intorno alla casa.
Quando arriva in fabbrica sono le sette passate, di solito sono già tutti in piedi, le notti là dentro sono lunghe a passare, difficile dormire su materassini a terra. Qualcuno è già fuori a fumare la prima sigaretta e saluta con sollievo il suo arrivo perché ormai lo sanno che lei al mattino porta il caffè per tutti e quel caffè è una delle poche cose buone della giornata. Le facce sono stanche, tirate, sono facce di chi non dorme ormai da giorni. C’è Romolo in un angolo che tossisce, ha una tossa secca e persistente, Valdo gli urla che dovrebbe andarsene a casa e farsi vedere da un medico, ma lui risponde che da lì non si muove, che piuttosto preferisce morirci. C’è aria di orgoglio in fabbrica, di rabbia, di voglia di dignità, inquinata solo a tratti da rivoli di stanchezza.
Al mattino, nello stanzone della mensa adibito a dormitorio con i materassi buttati alla rinfusa, c’è un’aria stantia. Elide per prima cosa va subito ad aprire uno spiraglio dal finestrone sul cortile per cambiare un po’ l’aria, mentre gli uomini si raccolgono a capannello attorno a un tavolo, chi seduto, chi in piedi. Qualcuno sfila i bicchieri di plastica da una sporta appesa a un gancio nel muro, qualcun altro tira fuori qualche pasticca da prendere al mattino a stomaco pieno e la posa sul tavolo. È freddo, hanno le mani intirizzite, strette nelle maniche dei giubbotti.
Elide sfila il thermos, l’odore inconfondibile del caffè si spande per la stanza e per un attimo illumina i volti, si capisce che quello del caffè è un rito che sa di casa, di risveglio nel posto giusto, di abitudini familiari che danno un senso, quando i bambini ancora dormono e gli adulti spettinati si aggirano per casa.
Elide versa il caffè caldo ben zuccherato nei bicchieri in fila e stende un tovagliolo di tela, ci mette sopra le fette di pane, la marmellata, un paio di coltelli per chi voglia mettere qualcosa nello stomaco, di solito quasi tutti. Bisogna dire che Elide è sempre la prima ad arrivare al mattino poiché a differenza da altre mogli non ha bambini da sistemare o un posto di lavoro da raggiungere. Il suo posto di lavoro è lì, in quella fabbrica, o meglio era, prima che arrivasse la lettera di licenziamento. Centonovantacinque lettere recapitate tre settimane prima per raccomandata a ciascuno di loro. Tre frasi lapidarie che erano risuonate come una sentenza di condanna.
«Oggi viene la redazione di un giornale nazionale con il delegato regionale del sindacato. Fanno pure delle riprese.» Dice Manlio addentando una fetta di pane.
«Speriamo sia la volta buona, sono già tre settimane che siamo chiusi qua dentro e ne parla solo la stampa locale.» Gli fa eco Valdo.
Arturo è silenzioso, si versa un altro caffè, Elide non può fare a meno di notare il suo sguardo malinconico e questo le provoca una morsa allo stomaco. Arturo si va a prendere quel caffè un po’ in disparte, Elide lo segue, lei lo sa che quando è in mezzo agli altri non gli piacciono le smancerie, ma se non il suo tocco, almeno ha bisogno di sentire il suo odore da vicino.
«Non hai dormito niente, vero?»
Arturo sorseggia il caffè soffiando sul bicchiere tra un sorso e l’altro come fa sempre.
«No.» Ha poca voglia di parlare.
«Forse potresti andare a casa a farti una doccia, magari dopo ti senti meglio.» Elide conosce già la risposta. Arturo è testardo.
«Sì, così magari vengono per le riprese quando non ci sono. E comunque se vengono io così voglio stare, con questa faccia, che almeno si veda cosa stiamo passando. Se nessuno ne parla è inutile stare qua a massacrarsi. Io voglio esserci e dire la mia.» Tira su l’ultimo sorso di caffè, facendo scivolare in bocca le lingue di zucchero dal fondo del bicchiere di carta.
Erano al ventesimo giorno di assemblea permanente, asserragliati in quella fabbrica da quando la proprietà al secondo giorno aveva fatto sapere che non c’erano margini di trattativa. Non aveva dato uno straccio di motivazione concreta per la chiusura dello stabilimento, ma tutti conoscevano la parola che stava a monte di quella decisione: delocalizzazione. Lo stabilimento era di proprietà di una multinazionale tedesca che produceva ruote e freni per macchine agricole, trasferivano la produzione in Romania dove la manodopera costava meno.
La lettera di licenziamento e l’occupazione avevano travolto i ritmi delle loro vite, prima la fabbrica era il posto dove lavoravano, adesso era diventata la loro casa. Ci dormivano in dieci, su materassini sistemati tra la mensa e i bagni. La prima notte era stata la peggiore, dopo l’assemblea che aveva votato all’unanimità l’occupazione della fabbrica erano rimasti in sei, barricati come in una trincea, in ascolto di ogni più piccolo rumore, preoccupati che arrivasse qualcuno a mandarli via con la forza. Poi si erano abituati, avevano cominciato a mettere a fuoco il senso della loro azione, avevano tratto forza dall’essere uniti in una battaglia comune.
Arturo era stato tra quelli che aveva preso da subito il suo compito come un dovere ultimativo, era rimasto in fabbrica giorno e notte, non si era voluto schiodare da lì neanche un minuto, attaccato a quel luogo come una piovra al pesce con il timore che, se avesse mollato, anche un solo momento di distrazione avrebbe potuto essere fatale, e il pesce se ne sarebbe scivolato via per sempre.
Elide pure si era offerta di restare, ma Arturo era stato irremovibile, erano l’unica coppia che lavorava in quella fabbrica, era una causa comune, dunque bastava lui, lei sarebbe stata più utile fuori. Così Elide si era dovuta rassegnare alla testardaggine di Arturo. Arrivava ogni mattina presto con il caffè per tutti e poi se ne stava lì con gli altri, a discutere, studiare proposte, iniziative, e aspettare.
Elide e Arturo avevano scelto di non farsi assegnare gli stessi turni di lavoro perché solo così riuscivano a incastrare qualche giorno di riposo in comune.
Il giorno in cui era arrivata la lettera raccomandata a casa c’era Elide. Quando avevano suonato al campanello stava caricando la lavatrice.
«C’è posta da firmare». Aveva detto la voce al citofono. Elide era scesa di corsa e il postino le aveva messo in mano due buste con lo stesso mittente e lo stesso timbro. Le gambe di Elide avevano cominciato a tremare, il cervello si era annebbiato in preda a un presagio oscuro. L’aria era fredda là fuori lei era uscita senza coprirsi, non si era mai abituata al freddo e alla nebbia di quel luogo.
Il postino l’aveva guardata con pena, i postini lo sanno sempre quando portano cattive notizie, con il loro mestiere imparano ad avere intuito. Ma non poteva star lì, doveva consegnare altra posta, quindi una volta avuta la sua firma sul registro delle consegne, aveva sfilato la penna dalla mano di Elide e se n’era andato, lasciandola sola davanti al portone, pallida e confusa. Per le scale Elide aveva aperto prima la sua lettera: un foglio bianco con l’indirizzo del mittente in alto e l’indirizzo del destinatario nel quale c’era il suo nome, poi due righe laconiche. Aveva messo subito a fuoco l’oggetto di quella comunicazione “cesserà il rapporto di lavoro a decorrere dal”.
Era rientrata in casa chiudendosi la porta alle spalle, l’incredulità non mollava la presa. Fino a dieci minuti prima Elide era giovane, adesso d’un tratto era vecchia. Com’era possibile che stesse accadendo?
Era andata a sedersi in cucina con le due lettere ben aperte sul tavolo, una accanto all’altra, fissava quei due fogli bianchi come se fossero le tessere di un mosaico incomprensibile, impossibile a incastrarsi.
“Cesserà”.
Il verbo al futuro.
“A decorrere dal”.
La data che decretava la fine del futuro.
Lo sguardo si muoveva dalla prima parola alla seconda cercando un senso che le collegasse.
La sera prima Elide era una giovane donna, avevano festeggiato il compleanno di Arturo in pizzeria con gli amici, erano contenti. Finalmente erano riusciti e mettere da parte quel poco di soldi che serviva per l’anticipo di un mutuo. Avevano visto un paio di appartamenti dignitosi e stavano progettando una nuova casa con una camera in più perché per loro era arrivato il momento di pensare a un figlio e andare via da quel buco di due stanze senza riscaldamento, con quella vecchia stufa a gas nell’ingresso che si bloccava di continuo.
Adesso quelle lettere, erano come un sasso che un ragazzino discolo scagliava contro una vetrata mandandola in frantumi senza un vero motivo, con cattiveria, solo per fare un dispetto. Elide stava annaspando in mezzo a quei pezzi di vetro frantumati.
“A decorrere dal”
«Devo avvertire Arturo – aveva pensato Elide – o forse lo sa già, saranno arrivate anche ad altri. O forse è meglio aspettare quando sarà a casa.»
Se ne stava seduta con la testa tra le mani senza sapere cosa fare. Dunque erano pratiche da sbrigare, un numero di protocollo in un contenitore a figli mobili. Era così che si sentiva Elide.
A un tratto si alzò, furente. Aveva bisogno di chiarirsi le idee, di muoversi. Doveva farsi un caffè nero, bollente. Afferrò il barattolo dalla mensola, l’odore forte del caffè le riempì la testa, affondò il naso nel barattolo per scompaginare l’ordine delle cose.
Si ricordò all’improvviso quando la domenica suo nonno arrivava per il pranzo elegante come sempre nei suoi abiti grigi, la cravatta in tono, il fazzoletto nel taschino, il bastone e, d’estate, la paglietta. Suo nonno arrivava puntuale a mezzogiorno come un ospite di riguardo, sembrava uscisse da un film in bianco e nero per poi tornarci alla fine del pranzo. Ai suoi occhi di bambina quell’uomo aveva un che di misterioso e di eroico, era diverso dai nonni che avevano gli altri. Aveva un vezzo, suo nonno, il caffè lo prendeva corretto all’anice. Sua madre ne teneva sempre una bottiglia nella credenza apposta per lui. A lei piaceva l’odore del caffè corretto all’anice, le sembrava un aroma elegante, come suo nonno, un nonno che aveva solo lei.
«Vieni, Elide che te lo faccio assaggiare.» Le diceva.
«Papà, per favore, è piccola per il caffè…» Cercava invano di protestare la figlia.
«Oh quante storie, che vuoi che sia.. ci si bagna appena le labbra».
Elide correva tra le gambe del nonno che le faceva assaggiare il caffè, la bevanda dei grandi. Il profumo dell’anice le arrivava dritto nel naso e la stordiva, ma le sembrava una delle cose più buone che avesse mai assaggiato. Un po’ forte forse, ma si sentiva grande nel sostenere quel gusto così deciso. Se avesse avuto una bottiglia di anice in casa, le sarebbe piaciuto risentire quell’odore che da bambina la stordiva.
Si preparò il caffè e se ne rimase lì, appoggiata ai fornelli, mordendosi le unghie in attesa che venisse su.
La notte prima Elide era ancora una giovane donna, avevano fatto l’amore, Elide e Arturo. Quando erano tornati a casa dalla pizzeria Arturo le aveva detto:
«Voglio il mio regalo.»
L’aveva spogliata in silenzio, lei era rimasta nuda nel letto e lui accanto a guardarla, come a volerla prendere con gli occhi ancor prima di toccarla. Era da tempo che non facevano l’amore in quel modo, lenti, delicati, quasi che quell’amplesso non riguardasse solo loro due, ma fosse già l’inizio di una nuova vita e bisognava trattarla con riguardo fin dal modo di concepirla. Si erano presi guardandosi negli occhi, con l’energia che si era concentrata nei loro sguardi incollati fino a che non avevano goduto insieme. Poi, dopo, si erano addormentati, sfiniti.
Ora la notte era lontana e il caffè aveva preso a gorgogliare sul fornello. Elide tornò con lo sguardo alle lettere, la mente attraversata da pensieri e sensazioni contraddittorie, così dense e cupe da impedirle perfino di farsi un bel pianto. Si versò il caffè, indugiò con la tazzina tra le mani per sentirne il calore sulle dita, il primo sorso bollente risvegliò la rabbia. Poi il resto, giù, tutto d’un fiato. Corse in camera dove il letto era ancora sfatto, con le sagome dei loro corpi impresse sul materasso tra le lenzuola aggrovigliate. Sì vestì e uscì di corsa per andare in fabbrica.
L’incubo era iniziato così.
Ed era duro vederne la fine.
Elide torna a casa tardi ogni sera distrutta. Le giornate in fabbrica sono lunghe, trascorse a discutere, scrivere testi per comunicati da inviare alle redazioni, fare continuamente il punto della situazione per averne il controllo. Spesso escono a fare volantinaggi davanti ai supermercati, alle scuole, per le strade. Raccontano la storia della fabbrica e la loro condizione. A volte i passanti si fermano ad ascoltare, qualcuno ha espressioni di solidarietà o di conforto. Altre volte hanno fretta, sono diffidenti, li evitano afferrando un volantino che stringono nella mano pronto per il primo cestino di carta straccia. In quei casi Elide avverte un senso di frustrazione lancinante e impotente, che la fa vacillare.
La sera quando si mette a letto si rannicchia su un fianco, chiude gli occhi e prova a immaginare il corpo di Arturo addosso al suo, a farle caldo. Si addormenta pensando che stanno facendo quello che va fatto, che non hanno altra scelta, ma in quel letto non può fare a meno di sentirsi sola come mai le è accaduto in vita sua. Ha le mani ruvide, screpolate, i piedi che formicolano, gonfi per la stanchezza. Avrebbe bisogno di una carezza, magari soltanto per essere rassicurata, ma da quando questa faccenda è iniziata Arturo si è come indurito, quasi le lascia intendere che non c’è tempo per le stronzate adesso, che la loro vita è cambiata, che ci sono priorità dalle quali dipende la vita futura, che forse la serenità non tornerà più. E loro saranno diversi.
Elide non può fare a meno di chiedersi dove andranno a finire, com’era potuto accadere, dove diavolo sarebbe finito il loro mondo fatto di piccole cose.
A volte la consola il pensiero delle domeniche in cui con Arturo si svegliavano insieme nel letto e si alzavano di buon umore a far colazione. Arturo preparava il caffè, Elide apparecchiava con le tovagliette americane, il pane, il burro, la marmellata, i biscotti, le tazze su cui avevano fatto stampare i loro nomi. Piaceva e entrambi fare colazione prendendosi tutto il tempo, sorseggiando il caffè senza fretta. Si sedevano uno di fronte all’altro, davanti alla loro tazza di caffè fumante a decidere cosa avrebbero fatto del tempo libero di quella domenica tutta per loro, una passeggiata al mercato rionale quando c’era bel tempo, o un film al cinema se pioveva. Adesso le sembra sia passato un tempo infinito, un secolo di frane che aveva prodotto cumuli di macerie.
È invecchiata Elide, è incredibile come sia accaduto così in fretta. Abbracciata al cuscino spesso la notte piange, non riesce a concepire di non poter più avere sogni o progetti. Odia la sensazione di panico che ora le provoca il pensiero del futuro e odia quelli che l’hanno derubata della sua innocenza e della sua voglia di ridere. E soprattutto odia il dolore del suo corpo che nel buio della notte l’avverte che per lei il tempo per essere madre sta ormai per scadere.
Allora allunga una gamba verso il posto dove di solito sta Arturo e cerca nella testa pensieri buoni che la conducano in un luogo diverso. Si addormenta pensando che tutto ha un inizio e una fine e così sarà anche per questa sventura. Bisogna solo resistere. Sperare. E soprattutto bisogna credere ad ogni costo che quel tempo ritornerà.
Motivazione della Giuria: “Attuale, senza pietismi, racconta una vicenda dei nostri giorni con una buona capacità di osservazione dei sentimenti, in un rapporto di coppia, messo in crisi dalla chiusura di una fabbrica che modifica le loro vite”
Quando ho inviato il racconto Tre volte al Concorso Racconti nella Rete pensavo fosse stata una scelta spericolata: essere nella mente di un uomo che calma le sue nevrosi (e “ama la grammatica che mette ordine nel caos“) ripetendo ogni frase per tre volte non era cosa facile da digerire. Non è un uomo qualunque, è un uomo che si misura tutti i giorni con il suo aspetto deforme.
Così quando ho avuto la notizia che il racconto era tra i 25 vincitori di questo particolare concorso letterario, alla contentezza si è unita la sorpresa che quel racconto fosse piaciuto.
Qualche giorno dopo un amico mi ha comunicato il suo apprezzamento per il racconto, soltanto – mi diceva nel messaggio – “avrei reso il personaggio più cattivo”.
Invece la mia scelta è voluta: lui non è arrabbiato col mondo, lo dice, comprende gli altri che hanno difficoltà ad avvicinarsi. E’ più semplice risolvere tutto con la cattiveria, oggi lo preferiamo. Invece il mio personaggio è un buono, nonostante tutto, e in questo volevo stesse la sua forza.
Quando ho finito di scriverlo, dopo averne avuto l’ispirazione (ebbene sì, anch’io “sento le voci“) nella mia mente si è aperto all’improvviso il ricordo di un film molto amatao, visto decenni fa: era Elephant Man di David Lynch. Chissà, in qualche angolo della testa doveva essersi depositato.
Non ho potuto – ahimé – partecipare alla Premiazione di LuccAutori, ma grazie a un regalo di chi c’era, ho vissuto una piccola emozione nell’ascoltare la bella lettura che ne ha fatto l’attrice Francesca Costantini.
Ringrazio dunque Francesca per l’interpretazione e Demetrio Brandi, instancabile Direttore del Premio.
* Il Racconto è pubblicato nell’antologia del Premio, edito da Nottetempo
Arriviamo a Modica in ritardo, abbiamo sbagliato strada e siamo arrivati facendo un tragitto lungo strade di campagne con chilometri di muretti a secco. C’è appena il tempo di cambiarsi, l’appuntamento è alle 18.
Quando arrivo nella hall dell’albergo ci sono già tutti, o almeno così mi pare perché è affollata. È un albergo piccolo, moderno e molto curato, un bell’ambiente. Mi guardo intorno e riconosco un viso soltanto: non ci conosciamo personalmente, ma ha un viso così bello, con due occhi verdi espressivi, è lei, Gaia, non c’è dubbio. Ci siamo conosciute su fb. Ci salutiamo cordialmente, siamo a condividere questa avventura.
Ci avvertono che il pullman che ci porterà al Centro Direzionale Moak è pronto, prendiamo posto e si parte. C’è uno strano silenzio. Modica mi sembra una città viva, c’è molta gente in giro e un bel traffico
Arriviamo in quella che di fatto è una fabbrica di caffè, Moak appunto, i cui proprietari “illuminati” (lei ha un sorriso bellissimo) promuovono iniziative culturali di vario genere. Il concorso, giunto alla XIV edizione e diventato un evento prestigioso, è appunto una di queste.
C’è un book shop, un bar, una sala dove è stata allestita la mostra dei lavori in concorso per la sezione fotografica. Girovaghiamo in attesa di entrare e iniziare.
Poi finalmente si aprono le porte dalla sala che ospiterà la cerimonia: è in penombra, al centro è illuminato il palcoscenico, intorno scaffali e sacchi di caffè, l’odore è buono e acre. Ci fanno accomodare. Noi finalisti in prima fila davanti, alle nostre spalle i giurati, dietro i posti riservati per parenti e amici e poi il pubblico, numeroso. Tutto si svolge con precisione ed efficienza.
È una cerimoni ufficiale e ha tutti i crismi dell’ufficialità e della forma, il che mi provoca una sensazione di disagio, non riesco a provare emozioni particolari, tranne la curiosità per un luogo così particolare per cui continuo a guardarmi intorno. A un certo punto realizzo che accanto a me ci sono facce sconosciute, così vedo Gaia e mi sposto accanto a lei, ci conosciamo appena, ma la cosa mi rassicura un tantino. Solo dopo mi accorgo di essere proprio nel centro esatto, di solito sono a mio agio quando sono defilata, qui sono nel posto sbagliato, ma ormai tant’è.
Entra Paola Maugeri, la presentatrice della serata, che è stata bravissima, visto che ha fatto viaggiare la serata per due ore e mezzo (non c’è niente di più noioso delle cerimonie di premiazione) a buon ritmo, senza appesantire troppo. Nessuno di noi ha idea di come si svolgerà la serata, è tutto a sorpresa.
Ci sono i siciliani VeiveCura, musica onirica che non saprei definire, molto d’atmosfera. Sul video scorrono immagini e colori. La testa è vuota. Il senso dell’attesa prevale su tutto, non so neanche bene di cosa.
Entra Alessandro Romano, un giovane attore. Comincia a leggere, alle sue spalle compare il nome Roberto Gerace, terzo classificato. È bravissimo. Roberto ha scritto un racconto in siciliano e Alessandro ne rende tutto il colore e la potenza. Bravo davvero.
Prosegue così: il premiato sul palco, i giurati. Si alternano musica e presentazione dei giurati. Il presidente della Giuria Mauro Covacich spiega la sua iniziale reticenza ad accettare la presidenza della giuria. Non so perché ma ho l’impressione che una certa perplessità ce l’abbia ancora addosso. Ma forse è solo la mia impressione.
Non so quanto tempo sia passato, sono in stato catatonico, quando rientra Alessandro e sento l’attacco del mio racconto….. Elide e Arturo. Balbetto… è il mio. Sono seconda dunque. Mentre ascolto provo una sensazione che ho già conosciuto: quelle parole che pure sono uscite dalla mia testa non mi appartengono più. Quella storia è una storia che ha vita propria e non dipende da me.
Applauso. Io resto ferma. Vengono chiamati i giurati e l’organizzatore del premio di cui non ricordo il nome. Io aspetto. Poi sento il mio nome, vengo invitata a salire sul palco. A premiarmi è Gian Luca Morozzi. Paola Maugeri legge la motivazione, non riesco a sentire una sola parola, strette di mano, targa e foto di rito. Vorrei scappare ma lei mi blocca, mi dice che mentre leggeva la motivazione io mi sono commossa, e a lei piacciono le persone che si commuovono. Mi chiede perché.
Non posso rispondere che non avevo ascoltato una sola parola così balbetto qualcosa su Calvino, il mio racconto è un omaggio a Calvino, è la prosecuzione ideale de L’avventura dei due sposi. In realtà vorrei dire che sono contenta di aver vinto un premio con una storia che parla di operai, ma forse il mio inconscio mi suggerisce che non è il caso di mettersi a fare l’idealista in questo momento, e magari chissà se i giurati se lo ricordavano questo racconto di Calvino, io penso sempre che tutti sanno tutto se fanno certe cose, ma magari non è così, è che ho la tendenza a sottovalutare quello che so io…. Insomma ho una tale confusione in testa che taglio corto e dico che il tema mi stava a cuore. Saluti. Finalmente scendo dal palco.
Proseguono le premiazioni, i fotografi e da ultimo la prima classificata. Ascolto il racconto: è un’idea originale, ma a me non piacciono gli esercizi di stile e questo tale mi sembra, non emoziona.
Insomma si arriva alla fine di una bella serata: un buffet leggero, la fila per il caffè… ma ognuno se ne sta con chi è. Non so, forse mi sarei aspettata più interazione, meno formalità. I giurati sembrano un élite a parte, continuano a stare per conto loro. Così mi prende una sorta di impeto. Prendo il libro “Assaggi di caffè” dove ci sono i racconti finalisti e mi presento lì…. Dico che sto per fare una cosa molto adolescenziale (che in realtà non è proprio da me) chiedo che mi firmino la mia copia. Solo uno risponde sorridendo, l’altra mette il nome e chissà cosa pensa. Mauro Covacich è perplesso, lo so, non vorrebbe farla questa cosa così stupida. Ma la mia è una provocazione. A pelle non mi è simpatico. Ora posso dirlo. Magari non è spocchia la sua, sarà timidezza, o stanchezza o chissà che.
Ce ne torniamo, in autobus lo stesso silenzio.
La sera prima di dormire leggo il racconto di Gaia Gentili, Chicchi sotto la lingua, lo trovo molto bello. Delicato. Mi piace, mi emoziona.
Al mattino faccio colazione con fichi d’india e latte di mandola, poi prima di andare faccio i complimenti a Roberto, il terzo classificato…. E ci mettiamo a parlare. Finalmente.
Parliamo, parliamo. Lui è giovanissimo, bravo, studia a Pisa… mi dice un sacco di cose e capisco che avevamo lo stesso pudore di fare il primo passo. Parliamo di Calvino e di progetti. Ci salutiamo sorridendo.
Mi sento meglio, sono contenta.
Adesso mi posso godere il risultato: su oltre trecento autori sono arrivata seconda. Io non ho il senso della competizione, ho sempre difettato di ambizione, sono fatta così, non è falsa modestia, è proprio un marchio di fabbrica.
Elide e Arturo: come cambia la vita di due giovani sposi dopo aver ricevuto una lettera di licenziamento. In fondo sono loro ad aver preso il premio, non io. Io adesso voglio godermi Modica, che è bellissima.
Nevica. La neve scende lenta, copiosa, rallenta ogni forma di vita, ogni facoltà .
“Chi c’è in corridoio zia?”
Nevica, fuori. La memoria diventa un mare calmo, disteso, sorgono i ricordi come il sole all’alba, appena ne torna uno alla mente, trascina con sé altri ricordi. Si dispongono in fila come sentinelle. Li cataloghiamo per non perderli.
Sandra è dietro i vetri, guarda la neve posarsi.
“Chi c’è in corridoio zia?”
“Hai visto l’arcobaleno Delia?”
Fuori continua a nevicare. È più naturale fermarsi, è un gioco che ti prende con delicatezza. Sandra ha la neve negli occhi e un arcobaleno in testa.
“Chi c’è in corridoio zia?”
“Hai visto l’arcobaleno Delia?”
“Sta suonando ‘quella’ musica”
I ricordi sono vuoti a rendere, anelli perfetti nella catena degli eventi della nostra esistenza.
“Chi c’è in corridoio zia?”
“Hai visto l’arcobaleno Delia?”
“Sta suonando ‘quella’ musica”
“Parti subito Sandra”
Erano passati sei anni da quando alle cinque del pomeriggio, mentre la macchina stava portando via sua madre, Sandra aveva alzato la testa e aveva visto un arcobaleno tra i tetti, nitido nei suoi sette colori. Aveva cercato sua sorella Delia tra la folla all’uscita della chiesa. Le aveva fatto un cenno e a sua volta Delia l’aveva visto. Si erano guardate commosse mentre la macchina si allontanava. Era una sorta di prodigio, l’ultimo di quei giorni.
Sua madre, che in vita era stata una roccia, che sembrava invincibile, che aveva vinto battaglie, sconfitto malattie, se n’era andata.
Anche quell’ultima volta avevano pensato si sarebbe ripresa.
«Parti Sandra – le aveva invece detto Delia – non è come sempre.»
Sandra aveva preso il primo treno. Nel giro di qualche giorno il quadro clinico si era aggravato, avevano deciso di riportarla a casa e di avvertire Mauro, il fratello che viveva all’estero. Sua madre sembrava essere alla fine.
Le notti, quando nel silenzio della casa il respiro affaticato portava con sé un carico di apprensione senza rimedio, furono la parte più dura da sopportare. Sandra tentava di accarezzare sua madre eppure lei sembrava rifiutare quel contatto, scuoteva il corpo con un sussulto, come se non volesse essere sfiorata. Era in coma, ma comunicava. E Sandra comprese che non stava morendo, piuttosto aveva deciso di morire. Voleva che la lasciassero andare.
In quei giorni la casa era stato un viavai faticoso, le stanze erano invase di gente, parole e odore di caffè. Fu una di quelle mattine, mentre era in cucina, che Sandra a un tratto sentì qualcosa che le bloccò le gambe. Era una musica, ma non una musica qualunque, era proprio “quella” musica. Quella che suo fratello Mauro si era sempre rifiutato di suonare alla madre che la chiedeva insistentemente nelle rare occasioni in cui lui tornava a casa. Mauro in risposta rideva e diceva di no. Lei allora lo canzonava dicendogli “accidenti a te! me la suonerai quando sarò morta.” E ora Mauro era lì, accanto al letto. E stava suonando.
Note attente, curate, implacabili e bellissime. Sua madre stava morendo e lui la stava accompagnando. Con quella musica.
Un’energia indecifrabile si mosse tra le stanze, un brivido potente che immobilizzò chiunque si trovasse in quella casa. Ognuno rimase muto e sospeso in un fermo immagine per il tempo che durò quella musica. Non era solo la forte commozione, era molto di più. Quella non era la morte. Era la vita nel suo senso struggente.
Insieme erano rimasti a vibrare come le corde di quella chitarra che stava suonando e solo quando l’ultima nota li aveva lasciati, Sandra si era accorta che stava piangendo. Ma fu certa che la stessa cosa stava accadendo anche agli altri, sparsi tra le stanze, così quelle lacrime non furono vero dolore. Dopo, nessuno disse niente, perché non c’era niente da dire.
Il pomeriggio di quel giorno ci furono gli ultimi arrivi, la famiglia era ormai al completo. Tutti riuniti, persi, fecero insieme l’unica cosa che restava da fare: aspettare.
Alle sette di sera arrivò il medico per un controllo. Disse che quella donna aveva tempra e cuore forti, che si preparassero a una lunga agonia perché non era ancora alla fine. Era quasi ora di cena, ma nessuno aveva voglia di preparare un pasto qualsiasi, così ordinarono delle pizze: quattordici per l’esattezza.
Come ai vecchi tempi, davanti ai cartoni di pizza, qualcuno cominciò a raccontare qualche barzelletta e accadde che avevano preso a ridere, la pizza aveva un buon sapore ed erano tutti affamati. A turno ogni tanto qualcuno andava a controllare la madre, che ormai non aveva più reazioni, se ne stava con gli occhi chiusi e chissà dov’era.
«Chi c’è in corridoio zia?» Le aveva chiesto Mara.
Sandra si era guardata intorno e aveva contato con lo sguardo.
«Nessuno Mara, siamo tutti qui.»
Mara si era alzata senza dire niente ed era uscita dalla stanza. Poi era rientrata perplessa.
«Sei andata a dare un’occhiata alla nonna?»
«Sì, sembra tranquilla. Strano, m’era sembrato di vedere qualcuno in corridoio»
Mara si sedette e dopo un secondo dimenticò qualsiasi cosa avesse visto un attimo prima. Continuarono a ridere, a chiacchierare, a gonfiarsi la bocca di pizza calda. Era da così tanto tempo che non stavano così, tutti insieme.
Poi Delia si alzò, andò in camera da letto e dopo qualche secondo arrivò. Un grido stridulo. Temuto. Una parola soltanto. Corsero tutti.
Lei, la grande regista, la madre, se n’era andata. Li aveva diretti in quell’ultima scena: li aveva aspettati, uno dopo l’altro, tutti, e lei in quel letto con gli occhi chiusi, senza mai una parola, i medici che ti dicono che non sente niente. Li aveva lasciati lì, insieme, a ridere. Loro ridevano e lei moriva.
Si chiama coincidenza? Noi abbiamo un nome per tutto.
Ma l’arcobaleno, il giorno seguente: altra coincidenza? Proprio nel momento in cui lei se andava per sempre, cessava la pioggia del pomeriggio e un arcobaleno si apriva in quell’angolo tra la chiesa e il cielo.
Per quanto l’intelletto indaghi e spieghi, esistono fenomeni imponderabili, come la morte, come la vita, come il modo di vivere e di morire. Come le cose che non comprendiamo.
Chi fosse quell’ombra, ad esempio. Mara ne rimase sconvolta per giorni. Lei, che aveva una laurea in scienze, era abituata a pensare che tutto ha un’evidenza e può essere spiegato. Eppure era sicura. Aveva visto un’ombra chiara poco prima che sua nonna morisse, era passata rapida nel corridoio buio. Non era stata una visione, lei non credeva alle visioni, lei stava ridendo insieme agli altri, mangiava come gli altri, era presente come gli altri, era nella realtà che li teneva insieme come gli altri. Eppure quell’ombra era comparsa. Lei l’aveva vista. Un uomo, vestito di chiaro.
La neve scende e si posa. Imbianca gli angoli e li arrotonda, addolcisce gli spigoli e il cuore. Il passato è passato, non esiste, ma ricordo dopo ricordo, scriviamo la storia della nostra vita in una sequenza di attimi che non accadono più, ma sono là, incastonati nella nostra mente in uno spazio e in un tempo che ci appartiene.
E in quella trama, tutto, perfino la morte, finisce per avere un senso.
Come il testamento di sua madre quella sera. Vi lascio così, vi voglio così.
Sandra richiude la porta. Nevica dolcemente adesso.
Dedico questo racconto a Lino, Lilia, Virginia e Maurizio, ma anche a Carmelo, Paolo, Doretta, Edo, Emanuela, Cristina, Emilio e Giulia, insieme a Giampiero, Aldina, Consuelo e Massimo. A quelli che sanno e che c’erano
Quando ho letto un bando per un’antologia di racconti sul tema della birra, l’idea mi è sembrata simpatica. La scadenza era prossima, ma lo stesso ho scritto velocemente questo racconto e mi piace l’idea che sia stato selezionato.
“Scott sono a casa! Sei pronto?”
“Un minuto e arrivo, prendi tu le birre?”
“Prese. Ti aspetto in macchina”.
Era uno dei suoi momenti preferiti. Il venerdì sera, quando tornava a casa dal lavoro, lui e Scott se ne andavano a bordo di una Chrysler Sebring decapottabile per le strade vuote che salivano verso la montagna. Lui amava guidare, le macchine erano le sue amanti, gli avevano dato i brividi della vita che ti brucia dentro e ha bisogno di esplodere. Nessuno più di lui comprendeva i motori, il loro linguaggio.
All’epoca lui e Scott avevano entrambi i capelli lunghi. A entrambi piaceva la velocità e il vento. Quei venerdì sera guidava come piaceva a lui, assecondando le curve, alternando le marce, aumentando la velocità sui rettilinei fino a sentirsi la fronte e le guance fredde e umide.
Quando decidevano di fermarsi di solito era già buio. Le stelle si vedevano nitide su a Taylors Ville. Là c’era aria e silenzio. Se chiude gli occhi gli sembra ancora di respirare l’aria pulita che profumava di abete.
Partiva il tappo della prima birra, mandavano giù i sedili e puntavano il naso per aria. A volte se ne stavano lì a sorseggiare la birra che aveva il sapore del riposo del fine settimana che stava per cominciare, altre volte parlavano fitto bevendo a gran sorsi agitati. Quello era il loro momento. Avrebbero potuto essere due buoni amici, se non fossero stati padre e figlio.
Era stato in uno di questi momenti che Scott, che allora aveva ventun anni, gli aveva confessato che Abby era incinta. Era innamorato di un’altra – gli disse – era stato un maledetto incidente, ma sentiva di essere diventato padre, la sensazione sembrava piacergli, era confuso.
Così lui per la prima volta gli aveva raccontato come aveva sposato sua madre. Quando l’aveva incontrata suo fratello Jimmy aveva tre anni e a lui piaceva quella donna che si prendeva cura di suo figlio da sola. Poi una sera al suo arrivo Jimmy si era messo a correre e lui istintivamente aveva aperto le braccia, gli si era buttato addosso con un tale slancio che lui l’aveva stretto a sé e aveva sentito che Jimmy l’aveva scelto. In quello slancio c’era tutta la fiducia nella sua presenza. Si diventa padri in molti modi, e quello fu il suo. Non era innamorato, per lo meno non come comunemente si intende l’amore, ma con quell’abbraccio Jimmy gli aveva fatto una richiesta che non avrebbe potuto ignorare. Così aveva sposato quella donna, e se la lealtà era stato un buon sentimento essere un buon padre era stato quanto aveva cercato di fare.
Quella sera – dopo che ebbe finito il suo racconto – la birra aveva avuto il sapore del sollievo, perché la verità confessata da suo padre aiutò Scott e dissipare tutti i dubbi su quanto doveva fare. Aveva stappato la verità anche per lui. Così Scott sposò Abby nel giro di qualche settimana e iniziò la sua nuova vita.
Ma padre e figlio non rinunciarono alla loro abitudine al venerdì sera. Ci furono altre birre e altre serate, con sapori diversi.
Come quella volta, qualche anno dopo, una sera in cui a guidare era stato Scott. Aveva guidato in preda a un demone, quasi non vedesse l’ora di fermarsi. Poi aveva preso a scolare nervosamente la sua birra, come potesse lavare un’intima oppressione. Gi aveva confessato di avere un’amante, una donna più grande di lui, una che con il sesso ci sapeva fare, che gli faceva dimenticare di avere una moglie fragile e un figlio a cui pensare. Aveva ventiquattro anni.
Lui beveva la sua birra lentamente osservando il figlio e ascoltando le parole che venivano fuori come un fiume, aveva riflettuto a lungo prima di dire le sue. Era un uomo tutto d’un pezzo, sapeva che Scott temeva il suo giudizio.
Lui che, pur non avendo mai amato sua madre, non l’aveva mai tradita. Mai, nemmeno quando ne aveva avuto l’opportunità. Così gli disse che era il caso di smettere di vedere quella donna se il turbamento che provocava superava il piacere che sapeva dargli. Scott dopo si fece un’altra birra, bevendo più lentamente. Né lui né Scott erano tornati sull’argomento, ma comprese dai fatti che suo figlio l’aveva ascoltato.
Adesso lui sta sorseggiando una birra italiana, a distanza di tanto tempo, mentre guarda la collina e le stelle e dice che qui tutto ha dimensioni diverse, ridotte. Il cielo d’America è immenso, se solo lo guardi da certi posti, può farti perdere. Parla spesso di Scott, sa che è arrabbiato con lui perché se n’è andato lontano, ma stavolta era lui ad essersi innamorato, e per questo non aveva esitato a lasciare l’America.
Forse suo figlio pensava avrebbe dovuto fare il nonno, alla sua età. Invece lui aveva deciso che era arrivato il momento di dare quel morso alla vita che non aveva mai dato, la velocità sulla strada non gli bastava più.
Adesso ogni sera si fa una birra e ogni sorso ha il sapore della nostalgia dei suoi figli, delle corse con Scott a Taylors Ville. Ma è felice e sa di meritarsela questa felicità. Anche la nostalgia è un buon sentimento.
Ha più di quanto avrebbe potuto chiedere alla vita. Gli occhi brillano ancora di luce giovane, la stessa delle corse in macchina con suo figlio su una decapottabile con i capelli al vento e le birre sui sedili al venerdì sera.
Father and son.
I know, I know. But I have to go.
E così eccomi a presentare una piccola creatura che ha vinto al Concorso La parola alle donne – Le donne che ridono (Promosso dall’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Noale, VE)
L’ho scritto velocemente seguendo l’idea, o meglio, una fissazione: far amare Leopardi. E credo infatti che più per il suo valore sia piaciuta l’idea. E se per una volta Giacomo ha fatto sorridere, ne sono felice.
Ma Leopardi rideva?
“Sia benedetto chiunque fosse a farti ridere in quel modo”.
Rita parlava al telefono e non si era accorta di Francesco alle sue spalle, lui era il tipo che diceva cose così.
“Ridere fa bene Francesco – rispose Rita – la chimica del corpo ne ha bisogno.”
Era un uomo a farla ridere dall’altra parte del filo, ma la cosa più incredibile non avrebbe potuto confessarla a Francesco: non erano le battute a farla ridere, lui era americano, come avrebbe potuto capirlo? Rita conosceva a mala pena un po’ di inglese, ma quell’uomo aveva una risata contagiosa. Bastava che lui ridesse e lei cominciava a fare altrettanto. Una telefonata intercontinentale praticamente per ridere.
Una cosa da adulti scemi, ma a Rita invece questa cosa della risata contagiosa piaceva .
Contagiare di norma è una parola che si usa in medicina: vuol dire trasmettere una malattia a un individuo sano. Qui si trattava di una cosa diversa: trasmettere un beneficio a un individuo malato.
“Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo”. Diceva Leopardi. Era così che di solito Rita cominciava a parlare di Leopardi ad adolescenti il cui commento iniziale nella migliore delle ipotesi era: “Oh no, il gobbo sfigato!”. Era difficile spiegare ai ragazzi che Leopardi, più di ogni altro poeta al mondo, è quello che ha incitato alla felicità. Ecco perché iniziava in quel modo una lezione alla quale aveva sempre tenuto in modo particolare: voleva riuscire a far amare Leopardi tanto quanto lo amava lei.
“Ma voi pensate che una persona dotata della sensibilità di Leopardi non conoscesse il senso della risata o della felicità? Solo gli stupidi possono pensarlo, chi lo conosce poco, o chi non ama vivere, o chi amerebbe vivere ma non vive. Altro che dolore e pessimismo. Leopardi diceva anche: “Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa.” E così Rita spiazzava quegli adolescenti scettici e svogliati . Era un buon inizio.
Così come era rimasta spiazzata lei alla risata al telefono la prima volta che le era venuto da ridere senza motivo.
Certo non avrebbe potuto spiegare a giovani studenti la scoperta che stava cambiando la sua esistenza, anche se i ragazzi sono dei ricettori incredibili. Tu pensi sempre di valutare il loro grado di partecipazione, ma in realtà sono loro che valutano la tua. Quando partecipi ti ascoltano. Quando ti entusiasmi, si entusiasmano. Quando non ti annoi non si annoiano. Quando li ami ti amano.
Ma di certo ai ragazzi non poteva dire che si era innamorata della risata di un uomo, per giunta per telefono, per giunta dall’altra parte del mondo. Sarebbe stata una follia, quella cosa lei non avrebbe potuto raccontarla a nessuno.
Però i ragazzi si accorsero che Rita aveva una luce diversa, perché quando scrisse la frase alla lavagna e cominciò la sua lezione su Leopardi, nessuno osò commentare, ascoltarono attenti.
Lei quell’uomo poi non lo conosceva, o meglio, non l’aveva mai incontrato, aveva visto solo delle foto. Era stata Rita stessa, un giorno, che gli aveva chiesto il numero di telefono: “Per sentire la voce”. Aveva detto.
Un gesto irrazionale, ma a volte sono proprio questi gesti che ti aprono mondi, non fosse altro perché scopri di essere ancora capace di compierli.
La vita col tempo diventa una gabbia di tristezza e consuetudini, tanto che ti dimentichi che forse può ancora accaderti qualcosa di buono, di diverso, qualcosa che ti restituisca a te stessa. Alla spensieratezza di quand’eri bambina. Alla poesia della vita.
Così, un pomeriggio – mentre guardava dietro i vetri un cielo pulito di aprile pensando che era un pezzo che non le sembrava contenesse promesse – d’istinto aveva afferrato il telefono e aveva composto quella lunga sequenza di numeri.
“Hello”. Dall’altra parte la voce dell’uomo era robusta, affabile.
“I am Rita”. Lei riuscì a pronunciare soltanto il suo nome, le parole non venivano, parlare era più difficile che scrivere.
Lui disse qualcosa che lei capì a malapena, ma si sentiva che era contento. E poi rise.
A quella risata qualcosa si spostò nella testa di Rita: era una risata rotonda, pulita, sincera, appassionata. Una rivelazione, raccontava più di mille parole.
Risero, insieme, e quando Rita riattaccò, sentì all’improvviso che alla sua vita mancava un’allegria qualsiasi, una disposizione a ridere senza una ragione, la disponibilità ad accogliere. C’era un vuoto, creato dalla ripetizione quotidiana di gesti che ti mettono al sicuro da qualsiasi eccesso. Nessun dolore, nessuna gioia.
Cresciamo e diventiamo adulti pensando che il corso dell’esistenza è il normale svolgimento delle mansioni che ti vengono attribuite o che scegli. Anche per l’amore alla fine è così: una scelta responsabile. Ti insegnano che nella vita avviene una volta e una soltanto. Ti dicono che è l’affidabilità, la posizione sociale, magari perfino quella economica, ma nessuno in quella lista ha mai scritto una delle cose davvero essenziali: scansate chi non vi fa ridere. Se non ridete insieme fatevi delle domande, perché forse non sarete in grado di essere felici. Magari vi accontenterete della serenità e potrà perfino andar bene. Ma sappiate che la felicità è un’altra cosa.
Questo non te lo dice nessuno. Invece la felicità è un attimo di esplosione in cui ti viene voglia di correre invece che di camminare. E non importa l’età o il momento, se è opportuno o no. Le opportunità si perdono quando si rinuncia. E si sa, la rinuncia è la lezione che più si insegna, soprattutto alle donne.
Di quell’attimo in cui il sole ti brucia dentro e tutta la vita è lì, condensata in un unico istante, non si dice mai niente. Solo ai poeti sta il compito di ricordarlo, come un inutile monito.
Rita si innamorò prima di tutto di quella risata, poi si innamorò di sé stessa e della sua risata. Si piaceva.
“È la diffidenza il nostro peggior nemico ragazzi, quando pensiamo di doverci difendere, quando vediamo il pericolo ovunque. Certo bisogna imparare la cautela, ma poi esistono l’intelligenza e l’esperienza. Dobbiamo imparare a fidarci, prima di tutto di noi stessi, del nostro istinto, della persona che ci sta accanto, come di quella che vive dall’altra parte del mondo. Perché non sappiamo chi e cosa potrà mai sorprenderci.”
Il giorno in cui Rita fece quella lezione erano i primi di giugno, l’inizio di una stagione che portava promesse. Quel pomeriggio aveva un aereo da prendere. Non aveva detto a nessuno che sarebbe partita. Non le importava cosa stava lasciando e non le importava verso cosa stava andando. Voleva fare quel viaggio.
E mentre sull’aereo socchiuse gli occhi durante il decollo, sentì di aver fatto la cosa giusta. Quando li riaprì era in mezzo alle nuvole: avvertì al centro del petto un senso doloroso di amore per la vita. Ci stava volando in mezzo. Sorrise. Le venne in mente Milani, il ragazzino strafottente sempre pronto a sfidarla con le sue battute:
“Prof, ci racconta tutte ste’ belle parole, ma secondo lei, Leopardi sapeva ridere?”
“Non lo so Milani – pensò Rita guardando le nuvole – non lo so se Leopardi sapesse ridere o meno, se ridesse oppure no. So per certo però che ha detto che L’Infinito è un mare dolce in cui naufragare, un po’ come quello in cui mi trovo in questo istante. So anche che diceva che la felicità è la cessazione momentanea del dolore con il quale si nasce, per natura. E che bisognerebbe far durare quell’attimo di cessazione più a lungo possibile. Questo diceva. Forse quando torno te lo spiego meglio Milani, magari un giorno viaggerai anche tu nell’infinito.
Cara mamma,
per me le parole non sono mai state facili: sono chiusa, un’ostrica con le valve serrate. È stata dura vivere con questa me stessa. Tu sai però che non sono così, o almeno non più da quando c’è Maria Sole. Mentre scrivo lei è lì, placida, beata nella sua culla, sta facendo un sonnellino. Spero anche un sogno meraviglioso. Ne approfitto per scrivere una lettera che non ti darò mai. O forse sì. Chissà. Mentre guardavo mia figlia, quella parte di me che altro non desidera che svestirsi dai luoghi comuni dei giudizi altrui vorrebbe gridare. E ho deciso di scrivere quello che vorrei gridare. In fondo è una sola parola: GRAZIE.
Grazie perché so quello che non voglio per Maria Sole.
Grazie perché so che sarò una buona madre.
Grazie per la determinazione che sento come un marchio a fuoco.
Grazie perché so che non dovrà vivere quello che ho vissuto io. Non sono sicura che i bambini sognino, ma so che non dimenticano. Gli adulti lo pensano. Io so che non è così. Io non ho dimenticato, niente.
Nemmeno quella ciocca di capelli rimasta nelle mani di mio padre quando avevo tre anni. Strano vero? Può una bambina di soli tre anni avere ricordi così nitidi? Eppure ricordo tutto. Ho vissuto temendo il rumore delle porte che sbattevano: avevo imparato che quello era il segnale. Perfino adesso non sopporto le porte che sbattono. Sapevo che quando il babbo sbatteva una porta qualsiasi era nervoso e quando era nervoso la sua rabbia montava e quando la sua rabbia montava quasi sempre seguiva un pretesto qualsiasi. E dopo le botte. E il tuo silenzio.
Ecco: quel silenzio è stato il pozzo nel quale sono sprofondata. C’ho annaspato dentro per tante notti, al buio, da sola, cercando favole.
Le botte invece non le sentivo, avevo imparato mille trucchi per proteggermi da quel suono. Non volevo sapere, non volevo immaginare, non volevo capire. Mio padre sapeva farmi ridere. E io volevo che quello fosse mio padre: l’uomo che mi faceva ridere. Quell’altro, quello che una sera ho visto con una ciocca dei tuoi capelli tra le sue dita, era qualcuno che non conoscevo.
Se il giorno dopo scorgevo i segni era con te che ero arrabbiata. Era con te che ce l’avevo, mamma.
Tu l’hai fatto per me di restare, era il tuo inferno, ti sei illusa fosse il tuo personalissimo inferno. E pensavi di salvarmi. Sbagliavi mamma, perché era anche il mio.
L’amore. No. L’amore non c’entra. L’amore non giustifica tutto. L’amore non ha niente a che fare con la paura. Non ci può essere amore in un uomo che sfoga la rabbia sulla donna che ha scelto, la madre di sua figlia. L’amore può finire. Era finito. Quello che non finiva erano i giochi al massacro per nascondersi ognuno dalle proprie fragilità. Di questo si trattava mamma. Fragilità. E maschere.
Non m’importava di vedervi sereni, sapevo che quando c’erano, le carezze erano false. Era un’ipocrita condivisione della vita come se la vita fosse la casa dove seppellirsi. E io il pretesto per quella morte.
Avremmo potuto andarcene. Io e te. Magari avrei visto mio padre solo quando mi avrebbe fatto ridere. Potevamo essere libere. Io e te.
Potevo crescere senza quella paura eterna delle porte che sbattono, dei vetri che tremano, dei tonfi che uccidono dentro il diritto alla felicità di una giovane vita qual’era la mia.
Hai aspettato fossi adulta per andartene. Ma non c’è niente di eroico nell’aver atteso tanto tempo. Gli uomini bambini che odiano la donna diventata adulta nonostante loro non hanno niente di eroico, devono essere lasciati soli davanti allo specchio. Lì, a guardarsi. Forse lo avrei amato di più, mio padre, forse non avrei dovuto faticare sempre nel dover dividere il padre che rideva dal mostro che sbatteva le porte e si avventava su mia madre: un essere dolce, fragile, una delicata farfalla che dipingeva girasoli e volti di donne tristi. Tanto erano pieni di luce gli uni, tanto erano ombrosi gli altri.
Io non sapevo come difenderti, non sapevo come e per chi dovevo soffrire. E crescendo ho avuto paura d’amare.
Io e te. Libere. Mamma. Sarei cresciuta più allegra, sorridente. Ho faticato a fidarmi di un uomo da amare, a concedere il mio corpo alla vita che poteva avere. Ho faticato ad essere una persona solare, quale dentro sentivo di essere.
Maria Sole mugugna: si sta svegliando. Muove i suoi minuscoli pugni chiusi come se volesse spingere l’aria e dire: eccomi, ci sono. Piagnucola, reclama la mia attenzione. Quindi ti lascio mamma.
Grazie per aver abbandonato quell’uomo.
Grazie perché mia figlia non dovrà mai avere paura.
Grazie perché ora so che l’uomo nero esiste solo nelle favole peggiori e quella mia figlia non la conoscerà mai. Ne avrà altre.
Tante. Belle. Infinite. E io con lei.
* Questo scritto è stato premiato al concorso nazionale Premio Mimosa 2013, I classificato ex aequo