Un po’ di tempo fa chiacchieravo con una persona che avrebbe – forse – dovuto essere l’editor del romanzo che stavo scrivendo. Riconosco che uno dei miei difetti (che erroneamente di solito è considerato un pregio) è l’umiltà, che equivale a riconoscere i propri limiti e spesso si traduce in insicurezza, far finta con se stessi di non essere all’altezza. Nel mio primo romanzo c’erano delle grandi ingenuità e pensavo che avrei potuto correggerle con l’aiuto di un occhio esterno e freddo, così avevo pensato che me ne sarei avvalsa per il secondo. Sebbene resti convinta che la scrittura è un atto solitario(uno dei motivi per cui ci sono arrivata con l’età matura) mi intrigava l’idea di un rapporto dialettico che servisse da pungolo e stimolo nell’approfondimento, nel mantenere la visione d’insieme che, navigando tra la parole, mi fa diventare vascello nelle maree, poiché subendone il fascino tendo a perdermi. Dunque era importante trovare una persona con la quale avere feeling e con quella persona c’era.
Poi qualcosa mi ha frenato. Un evento inconscio credo, che solo successivamente ho compreso, dal momento che è poi l’intuito che mi governa è quello che sceglie per primo. Il “mio editor” insisteva sul fatto che io dovevo avere un piano di scrittura, dovevo prima delineare bene la storia, avere un’idea dei capitoli con relativi avvenimenti e, soprattutto, un’idea precisa dei personaggi, perché dovevo essere io a guidarli e non lasciare che essi avessero il sopravvento. Ed io, con la mia umil natura, ascoltavo attenta (ma l’attenzione per me è finzione, un lusso che la velocità dei miei pensieri, mio malgrado, non mi concede). Mi convincevo che aveva ragione, che l’atto creativo non basta, ci vuole tecnica.
Però poi,visto che sono una falsa insicura, dopo averci provato ho lasciato perdere e il dannatissimo intuito mi ha portato in un’altra direzione: dritta al centro del mio pensiero anarchico, nel magma del sentire dal quale fuoriescono ombre e storie.
Oggi per caso mi è capitato di leggere un pensiero di Calvino “Nell’ideazione d’un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. Nell’organizzazione di questo materiale che non è più solo visivo ma anche concettuale, interviene a questo punto anche una mia intenzione nell’ordinare e dare un senso allo sviluppo della storia. Nello stesso tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta: prima come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo. Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle dietro”.
Che dire? forse dovrei cominciare a prendermi sul serio. Quando la sera, in modo particolare, prima di andare a letto mi chiudo in bagno, ebbene, quello è il luogo dove perdo la cognizione del tempo, dove il pensiero si assenta e le giornate con i loro carichi si azzerano. E ho scoperto che non è una mia stranezza “Inoltre il bagno deve essere sempre libero. Il bagno è un luogo sacro per pensare e riordinare appunti” (dal blog minima@moralia, L’arte della guerra di carta e inchiostro, di Cosimo Argentina). Meno male!
Nell’ultimo periodo mi hanno fatto visita un pensionato in una sala d’aspetto di un ambulatorio medico, una donna di mezz’età artista della bugia e tre ombre ancora poco chiare: un’aspirante suicida alle prese con due uomini morti suicidi (ma dialogano ironicamente in un luogo surreale)
Lascio a loro il compito di farsi strada e impossessarsi di me, io mi limiterò a seguirli e, quando non ne potrò più e dovrò liberarmene, ne scriverò.
L’immagine è Ivan Aivazovsky, Ship in the Stormy Sea, (1887)
A proposito del bagno-pensatoio, leggendo il suo scritto, mi è venuta in mente la frase famosa di Dino Risi: “Felicità è star solo d’estate, nella città deserta, sulla tazza del cesso con la porta aperta”. Come vede è un luogo particolarmente prediletto dagli artisti perché è nella catarsi del bagno, e non in poltrona o nello studio, che si ingraziano le Muse.