Ho letto il romanzo di Alessandra Sarchi con la rapidità con la quale si leggono i bei libri che hanno una scrittura che stilla gocce toniche nell’anima: intensa, precisa, tagliente, efficace. Lo so, sono troppi aggettivi, ma mi occorrevano tutti.
Eppure il romanzo ha punti cardinali quasi al limite del banale: lei, lui, l’amante di lui, l’amante di lei. Un dramma borghese a tratti irritante nella sua prevedibilità.
La storia è narrata in brevi capitoli, ciascuno con la voce narrante dei protagonisti: Laura, Davide, Mia, Fabrizio, ma anche Bettina e Violetta (figlie), e infine Giovanna (amica ed ex sessantottina).
Tutto è “normale”: l’amore, l’adulterio, la rottura degli equilibri, le cause e le conseguenze.
Nel romanzo di Alessandra Sarchi ci sono tutti gli ingredienti “classici” del romanzo amoroso ai nostri tempi: lui e lei sono una coppia benestante, professionisti realizzati con due figlie adolescenti; c’è una prova dura da superare (il cancro al seno di lei), poi il tradimento di entrambi: lei con un suo ex che l’aveva mollata in gioventù, lui una ragazza più giovane (e bella).
Dove sta dunque il “di piu’” che tiene inchiodati alle pagine?
Intanto il ritmo: è una partitura lenta, ogni parola, ogni singola frase ha una cadenza e un peso, niente è superfluo: “.. presto saranno tornati a preoccuparsi non del perché sono, o di che cosa sono in assoluto, ma cosa possono essere nelle vite limitate, nei giorni finiti che li aspettano, che ci aspettano ad ogni alba del mondo.” (Giovanna)
Ma non è solo la bella scrittura.
Mi sono chiesta se la chiave del romanzo non fosse in una frase di Davide, di professione medico, che rende i personaggi quasi cellule di un organismo e come tale soggette a leggi fisiche “le cellule quando invecchiano smettono di replicarsi, badano solo a conservarsi. Succede perché i telomeri del DNA si accorciano e non sono più in grado di garantire un corredo completo alla divisione successiva, a quel punto le cellule smettono di darsi da fare. Quando giungono la stabilità, la pace, in realtà di predispongono a morire. Un meccanismo interno le avverte di un limite raggiunto.”
Il limite degli esseri umani è la fragilità: la paura della malattia, la paura delle ferite che ci portiamo addosso, la paura di invecchiare, la paura di non aver più niente da dire, la paura di morire.
Questo l’amore “normale”. Una condanna.
Nel finale ci sono madre e figlia che si parlano “fuori dai ruoli” in una grotta, là dentro c’è “il bisogno della luce del sole” “il bisogno di lasciare quei fantasmi neri là dove devono stare, al buio e in pace”.
Poi la mano della figlia si intreccia per pochi attimi a quella della madre ed è lei che la spinge verso “l’azzurro fuori”.
E quando lascia quella mano, “liberandosi”, le dice : “mi è passata tutta la paura”. E si incammina.
L’amore è la vita, e non può finire; qualora così fosse, smetteremmo di respirare. E respirare è la normale condizione per vivere.
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