Realtà, cronaca, giallo

Antonio Pagliaro è autore di romanzi prevalentemente gialli. In passato ho seguito la sua produzione letteraria sin dalla lettura de Il sangue degli altri (Sironi) perché ho una predilezione per il genere e perché ne ho sempre apprezzato la scrittura.

Con l’ultimo romanzo Morirono nella notte, Il mistero della White House Farm, Pagliaro conferma la sua vena indagatrice nell’ambito del true crime, storie di intrecci e delitti ispirati a fatti realmente accaduti.

E come nel romanzo precedente, Storia terribile delle bambine di Marsala (qui la mia intervista all’autore https://www.pangea.news/antonio-pagliaro-intervista-grandinetti/ ) che racconta la storia vera del terribile rapimento di tre bambine avvenuto a Marsala nel 1971 in cui l’autore costruisce un’opera a metà tra reportage e narrazione, anche Morirono nella notte si ispira a un fatto vero di cronaca: il 7 agosto 1985 Nevill e June Bamber, la figlia adottiva Sheila e i gemelli di sei anni Nicholas e Daniel, figli di Sheila, vengono trovati morti nella casa di campagna nell’Essex, uccisi a fucilate.

Cinque morti in quella casa di campagna chiusa dall’interno.

In un crescendo di fughe in avanti e flashback, l’autore ricostruisce i personaggi, i fatti, le fasi investigative, il circuito di sospetti sull’unico superstite della famiglia, Jeremy Bamber, anche lui figlio adottivo dei Bamber.

Ci sono storie che avvengono sotto i nostri occhi, terribili e drammatiche, che producono ciò che definiamo “il male”. Questa è una delle cose che apprezzo nei romanzi di Antonio Pagliaro, compreso quest’ultimo: la ricerca dell’assassino, della verità, delle connessioni criminali, è sempre un’indagine sulla natura umana in determinati contesti. Spesso celano misteri, qualcosa che si annida nel “non detto”, che rimane incompreso, che non permette di mettere i pezzi nel modo giusto.

In Morirono nella notte ci sono gli anni Ottanta con i pregiudizi, l’ipocrisia e la grettezza di una certa società inglese (che di recente è tornata di moda e agli onori della cronaca patinata con la morte della Regina e le vicende dei reali di Windsor)

C’è soprattutto il protagonista della vicenda, Jeremy Bamber, che Pagliaro tra realtà e finzione trasforma in un personaggio fragile e forte nello stesso tempo, sottoposto a una vicenda legale estenuante in cui i numeri fanno impressione: centoventidue. Sono le celle in cui ha dormito.

E’ lui il mostro che ha sterminato la sua famiglia? O è stata la sorella Sheila, fragile di nervi, schizofrenica, che molti tuttavia giurano in vita non avesse mai toccato un’arma? O qualcun altro è entrato senza lasciare tracce in quella maledetta casa la sera del 7 agosto?

Cos’è alla fine, quella che chiamiamo giustizia? Qual è la verità che cerchiamo a ogni costo?

Sheila giace nuda, si è sparata?

Ha scritto I hate this place, c’è una Bibbia con lei.

Il male è dunque sconfitto?

Il finale dei gialli non si svela mai, e in questo in particolare, anche perché, in definitiva, non è così importante: la cronaca ricostruita passo dopo passo, anno dopo anno, tesse un intreccio ricerche e indagini in cui compaiono investigatori talvolta superficiali che si susseguono e hanno teorie contrastanti. Una vicenda giudiziaria incredibile, avvincente e nel contempo crudele.

IL ROMANZO

Il 7 agosto 1985 Nevill e June Bamber, la figlia adottiva Sheila e i gemelli di sei anni Nicholas e Daniel, figli di Sheila, vengono trovati morti nella casa di campagna nell’Essex, uccisi a fucilate. Porte e finestre sono chiuse dall’interno; Sheila è morta arma in mano e una Bibbia a fianco. La polizia è stata avvertita da Jeremy, altro figlio adottivo di Nevill e June, svegliato nella notte da una telefonata del padre. Sembra un caso semplice di omicidio-suicidio, ma qualche mese più tardi, Jeremy, dopo indagini private condotte da familiari in lotta per l’eredità, è arrestato e in seguito condannato. Ancora in carcere nel 2023, si è sempre detto innocente, e forse lo è, come d’altra parte Sheila. Ma chi ha ucciso i Bamber? Morirono nella notte è una storia misteriosa di morte e crimini violenti, amore e tradimenti, vendette, fanatismo religioso e malattia mentale. Ci sono la lussuria degli anni Ottanta e l’omosessualità impossibile, la piccolezza della provincia inglese, la corruzione e l’errore giudiziario, molti soldi, armi e centoventidue celle di prigioni britanniche

Antonio Pagliaro

L’AUTORE

Antonio Pagliaro è autore dei romanzi Il sangue degli altri (Sironi, 2007; Laurana, 2022), I cani di via Lincoln (Laurana, 2010), La notte del gatto nero (Guanda, 2012), Il bacio della bielorussa (Guanda, 2015), e dei true crime Il giapponese cannibale (Senzapatria, 2010) e Storia terribile delle bambine di Marsala (Zolfo, 2020)

Tutto per i bambini

Vago tra gli scaffali della libreria: le farfalle il titolo e l’autrice, in questo esatto ordine, sono ciò che mi attrae di questo romanzo. Lo compro, lo leggo in pochissimi giorni.

Conoscevo Deplhine de Vigan, ho letto e fatto leggere negli anni in molte classi il suo Gli effetti secondari dei sogni e poi più di recente Niente si oppone alla notte, molto apprezzato, ma con questo sono andata d’istinto.

È un romanzo che si dovrebbe leggere al di là del suo valore letterario (lei però sa scrivere e bene) perché racconta con precisione millimetrica uno dei fenomeni social più scottanti, ovvero come nasce il bisogno di esposizione e a quali pericoli (oltre a quelli noti) si espongono gli adulti, ma soprattutto i bambini esibiti sui social.

Mélanie, la protagonista di questa storia, è una giovane madre cresciuta davanti alla TV a pane e reality. Lei stessa prova a entrare in un cast, vorrebbe provare l’ebbrezza della notorietà, ma l’esperienza risulta umiliante e non le conferisce l’agognata popolarità. Così Mélanie si sposa, e dopo il primo figlio smette di lavorare per fare la madre. Ma si annoia e comincia a trascorrere molto tempo su facebook, studiando il modo per ottenere apprezzamenti e visibilità.

Mélanie finisce per comprendere le potenzialità di mezzi quali You Tube e Instagram e in modo del tutto naturale, insieme ai suoi due bambini,  entra in una spirale quotidiana, crea un mondo al cui centro è la sua famiglia, trasmette su un canale, Happy Récré, che comincia ad avere migliaia prima e milioni dopo di followers che interagiscono con loro. Bambini felici di spacchettare ogni giorno merce diversa, bambini sorridenti che hanno imparato la direzione della telecamera.

Si sente un’eroina Mélanie, sa di essere fonte di ispirazione, di consolazione per migliaia di madri come lei, così come sa che i suoi bambini Kim e Sammy sono amati da migliaia di coetanei che li seguono ogni istante della giornata: cuoricini, pollicini su, non dimenticate, bacini bacini. Tutte cose dalla banalità sconcertante ma che nella narrazione che ne fa la Degan restituiscono la misura delle insidie di questi fenomeni. Dell’esaltazione creata dai numeri all’insicurezza quando i numeri per qualche imprevedibile variabile scendono.

La storia poi si tinge di giallo: un pomeriggio, durante un raro gioco all’aperto (in casa le telecamere sono ovunque e Mélanie ha ormai costruito un impero economico che è un’impresa di famiglia nella quale lavora anche il marito) Kim scompare.

Qui entra in gioco un personaggio, una donna, Clara, che è l’esatto opposto di Mélanie: donna di testa e di ragione, una detective testarda che cerca di analizzare ogni piccola piega della misteriosa sparizione alla luce di quel mondo che non le appartiene, lontana com’è dai social e da tutto ciò che sta nella realtà virtuale.

Il romanzo ha una tensione narrativa che ci tiene sulla pagina, ma non si apprezza per la qualità del giallo o della narrazione, né credo questa fosse l’intenzione dell’autrice: è molto forte l’effetto che fa su chi legge l’intera storia, il suo evolversi, la conclusione disarmante. È molto forte assistere alla pericolosità di quello che appare poco più che un gioco sui bambini che crescono a telecamere accese e quanto sia psicologicamente devastante.

Da questo punto di vista Tutto per i bambini è un romanzo da leggere, accende i riflettori su un aspetto poco trattato: i baby influencer che hanno un’esistenza in vendita senza che possano dare il loro consenso. Merce tra la merce, Kim e Sammy, nel romanzo, pagano un prezzo altissimo.

Forse dovremmo leggerlo tutti e interrogarci, con buona pace di Ferragni e Fedez  che ci appaiono a tratti eroi innocui dei nostri tempi

Il romanzo

In questo nuovo romanzo Delphine de Vigan si avventura nell’universo dei social network, restituendo il ritratto di una società – la nostra – in cui non c’è niente che non possa essere messo in scena e in vendita. Persino, e soprattutto, la felicità. Primi anni Dieci del Duemila. Mélanie, che è cresciuta davanti allo schermo della televisione, ipnotizzata dai reality e dalle loro promesse di notorietà, ha un solo obiettivo nella vita: diventare famosa. Quando supera le selezioni per un nuovo show – seppur non tra i più noti – Mélanie è al settimo cielo. Ma quell’unica esperienza si rivela disastrosa. Il segno del fallimento è una ferita che non si rimargina. 2019. Moglie e madre modello, Mélanie vive in un lussuoso complesso residenziale nei sobborghi di Parigi e ha creato un canale YouTube di grande successo, Happy Récré, interamente dedicato alla vita quotidiana dei suoi figli, Sam, di otto anni, e Kim, di sei. La formula di Mélanie ha conquistato la rete: il prodotto di quest’anonima madre intraprendente è seguito, ammirato, amato da milioni di iscritti. Sponsor, promozioni, campagne: i bambini si prestano alle richieste delle aziende che passano per il filtro materno; Sam e Kim vivono una recita ininterrotta e le loro identità sono ormai un brand. Ma un giorno i riflettori del mondo di Mélanie fanno cortocircuito: Kim è scomparsa. Della squadra di polizia che conduce le indagini fa parte la giovane Clara, che si appassiona subito al caso. La piccola Kim ha lasciato poche tracce: incontro sbagliato, fuga, rapimento? Non si può scartare nessuna ipotesi, e Clara sospetta che la chiave di tutto sia nascosta dietro le quinte di Happy Récré. Scavando nell’universo dei baby influencer, Clara si rende conto allora che la felicità esibita dagli schermi è un’ingannevole illusione. Perché la realtà in cui si muovono i piccoli Sam e Kim, più che al regno fatato descritto da Mélanie, assomiglia a un vero e proprio inferno autorizzato.

L’autrice

Delphine de Vigan ha esordito come scrittrice nel 2001 con Giorni senza fame. Sono seguiti, tra gli altri, Gli effetti secondari dei sogni (Prix des Libraires al Salon du Livre 2008), Niente si oppone alla notte (Prix du roman Fnac, Gran prix des lectrices de Elle e finalista al Prix Goncourt 2011) e Da una storia vera (Prix Renaudot e Prix Goncourt des lycéens 2015). Einaudi ha pubblicato i romanzi Le fedeltà invisibili (2018 e 2019), Le gratitudini (2020 e 2021) e Tutto per i bambini (2022).

Cuori di nebbia

Quand’è che un romanzo “vale”? quando, come in questo caso, ti viene voglia di comunicare che nel mare dei libri per caso, c’è qualcosa di cui valga la pena parlare per fermare le impressioni e provare a restituirle a chi legge, fare da passaparola a chi  non vive nel mondo dei libri. Perché esiste un mondo al di fuori, eccome se esiste.

Io non amo la nebbia, l’ho conosciuta in Mugello dove ho vissuto per anni: quella coltre di umidità che penetra fin dentro le ossa e le rende doloranti, che ammanta le cose e ti fa perdere i contorni,  le definizioni.

Eppure ho amato questo romanzo in cui la nebbia è la protagonista che avvolge  vite piatte, comuni, esangui, nella “bassa” emiliana.

A rendere questo romanzo così autentico e bello sono i personaggi e il modo in cui è costruita la trama, che ho immaginato iscritta in una circonferenza: in quel pezzo di pianura sette personaggi dall’esistenza contigua, inconsapevolmente precipitano verso un centro che, in un modo o nell’altro, li inghiottirà.

Costruito come un noir nel quale ogni capitolo è un personaggio che si svela un pezzetto per volta a un lettore che mette insieme tessere di un mosaico verso lo svelamento finale, solo in apparenza le vicende non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra, al contrario sono intrecciate e anche laddove non lo fossero si sfiorano avvolte nella nebbia senza riconoscersi, senza toccarsi o toccandosi senza che il tatto riveli la sostanza di cui sono fatte.

Ciascuno percorre il proprio raggio, verso il centro, luoghi in comune, vagando a tentoni come in una mosca cieca.

Sette personaggi, sette anime che alla ricerca della felicità attraversano la campagna, la miseria, il lavoro bestiale per i soldi da mettere da parte, la statale dove corrono Tir che trasportano merci, ma merce sono anche i corpi, e noi lì a leggere quel pezzetto per volta e metterlo accanto all’altro, confusi dalla nebbia iniziale cominciamo piano piano a capire,  a vederci meglio. Fino al centro, fino al cuore della storia e della nebbia.

Ognuno in fondo alla ricerca della propria salvezza, ogni pezzetto guadagnato per sé e sé soltanto, i personaggi/paesaggi siamo anche noi: quello che siamo diventati.

Sette inconfondibili voci ve lo racconteranno fino a sbaragliare la nebbia lattea su eventi inattesi che sveleranno nel colpo di scena un’umanità infinitamente ingenua, dolce, egoista che l’autrice ha saputo rendere viva anche grazie a una  lingua parlata attraversi i corpi.

Un romanzo fisico, di parole scritte sulla pelle a sangue saliva e lacrime, tra casolari e fosse colme di letame nella pianura emiliana degli anni ’90. Come dire: oggi.

La rassegna stampa su TerraRossa Edizioni

https://www.terrarossaedizioni.it/negozio/cuori-di-nebbia/

Il romanzo

La pianura emiliana nei tardi anni ’90, avvolta dalla nebbia e dallo squallore: è qui che per un beffardo scherzo del destino si incrociano le esistenze dei protagonisti di questo noir senza redenzione. Filippo che va a puttane, sua moglie Mirella che se ne rallegra, Nicola che spia le coppiette, Natascia che ha fatto della menzogna e del suo corpo armi letali, Francesco e Patrizia che corteggiano la morte, Mirco che attraversa la notte con colpevole candore: ciascuno di loro ha un vizio o un’ossessione che lo condurrà senza rimorsi a confrontarsi con il lato oscuro del proprio cuore.

L’autrice

Licia Giaquinto

Licia Giaquinto è nata in Irpinia, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ora vive a Bologna. Ha esordito nella narrativa con Fa così anche il lupo (Feltrinelli 1993), a cui sono seguiti È successo così (Theoria 2000), Cuori di nebbia (Dario Flaccovio 2007, ora riproposto da TerraRossa Edizioni), La ianara (Adelphi 2010), La briganta e lo sparviero (Marsilio 2014). Ha scritto anche testi teatrali, l’ultimo è Carmine Crocco e le sue cento spose. È ideatrice e anima dell’associazione Aterrana – Ater Ianua che vuole contrastare il degrado e lo stato di abbandono del borgo storico di Aterrana (Av).

L’odore dell’arrivo

Resina e vinili: sono i profumi che emanano le pagine del romanzo di Gianluca Veltri L’odore dell’arrivo (Ferrari Editore).

Come una partitura musicale il libro, prima che in capitoli, è diviso in tre “tempi” (Pomeriggi di maggio, Educazione silana, La mia piccola patria), ovvero già nella struttura c’è uno stretto intreccio tra musica, grande protagonista della storia, e le parole.

Ho letto con piacere ed emozione le pagine di questo romanzo narrato in prima persona da un personaggio senza nome, una storia che si dipana tra sentieri della memoria, molto simile anche alla mia storia: la musica raccontata in queste pagine rimanda allo stesso universo musicale con il quale abbiamo conosciuto il “sistema del mondo” in cui lontano era anche vicino, perfino la guerra, quella lontana nel Vietnam, o le mamme in Plaza de Majo, e nel quale al primo posto stavano la relazione con sé, con ciò che avevamo intorno e le relazioni personali, le più variegate. Un tempo in cui la musica era un modus vivendi, non ti era imposta dal mercato, che – diciamo la verità – non avrebbe potuto scovarci negli anfratti dei boschi silani o nei nostri piccoli centri periferici. Non eravamo noi a scegliere la musica “ma era la musica che sceglieva noi” e qui non c’è contraddizione, è che una volta che ascoltavamo un disco, difficilmente quello ci avrebbe mollato.

Avveniva così, magicamente, e avviene altrettanto magicamente nel romanzo di Veltri sin dalle prime pagine, nelle quali si parla, ad esempio, di Nick Drake e la sua “capacità amniotica” (come non avrei potuto amare una storia che inizia con quel genio malinconico che mi segue da una vita), per poi passare a quelle straordinarie scoperte che venivano da altre galassie: gli Who, Joni Mitchell e tanti altri, fino ad arrivare agli zingari felici di Claudio Lolli. Un Circle game.

Capitalizzare i momenti di bellezza”, parafrasando l’autore: è quello che facevamo e che, per fortuna, abbiamo fatto, è il valore del tempo che scorre in questo romanzo.

Aggiungo anche che ho letto con ovvia commozione le pagine dedicate a David Crosby coincise con i giorni della sua scomparsa recente: “Crosby mi era parso un trampoliere del ripensamento, uno che giocava con i sentimenti ambivalenti perché era capace di gestirli; anzi, ne traeva il meglio, pescando nel pozzo delle proprie zone oscure per trasformarle in arte luminosa.

La narrazione, oltre che ruotare attorno alla musica, si intreccia con memorie personali e sportive di quegli anni scanditi da lunghe estati di ozio e compagnia, durante villeggiature in montagna, prima che il mare diventasse il must di molte famiglie e quei luoghi si spopolassero. Prima che il “sole rosso dentro il mare” si intromettesse tra il narratore e la “sua” Sila.

Le case: quelle prese in affitto ogni anno, estate dopo estate. “Cosa resta di noi nelle stanze che abbiamo abitato?”

Alce Nero: nonno Alce, “presenza premurosa e munifica, refugium peccatorum per l’intera famiglia”. Uno di quei personaggi che ti rimangono accanto quando chiudi il libro e continui a sentirne la presenza.

Un romanzo/non romanzo di vibrazioni positive (che cosa meravigliosa di questi tempi!) in cui l’autore non ha timore dei ricordi perché nei ricordi non deve necessariamente stare la melassa della nostalgia come comunemente si intende, quel sentimento che temiamo e ci crea soggezione perché legato al tempo che passa, e questo spaventa.

Invece no, niente di tutto questo: ricordi, profumi, case, dischi, musicisti, allenatori di calcio, coppe Davis e motociclisti lanciati nel vento di circuiti fatali, restituiscono armonia e respiro, gli stessi che provi camminando tra i pini altissimi dei boschi silani (cosa che ho fatto infinite volte).

In fondo la nostalgia è una forma di consapevolezza (e Gianluca Veltri l’ha sapientemente dosata), diventa forza della propria identità, una sorta di area di protezione che serve a mantenersi integri e saldi.

O forse, come fa dire a Toni Servillo Paolo Sorrentino ne La grande bellezza: “è l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro”.

Un romanzo che si legge ondeggiando su un’altalena tra due alberi, fra toni poetici, pagine che fanno sorridere (e a volte ridere), con una bellissima postfazione di Dario Brunori (che non svelo) e che fa bene leggere, proprio nel senso che restituisce benessere, grazie anche a una scrittura lineare e profonda.

L’odore dell’arrivo. Perché, in fondo, non ce ne siamo mai andati da luoghi in cui abbiamo abitato qualcosa di molto simile alla felicità.

UNA CITAZIONE

Mi sentivo pienamente rappresentato da Alce, che stabiliva un ponte felicissimo tra la mia provenienza ancestrale, pre-moderna, alla quale non intendevo rinunciare, e l’omaggio dovuto a Nick Drake e alla sua musica.

Nick, in fondo, pur essendo un idolo pop-rock figlio della modernità, aveva un’anima antica; pur precorrendo i tempi con il suo talento innovatore, quei tempi non aveva saputo viverli.

Io ho sempre amato unire, connettere, anche a costo di qualche arditezza. Nick e Alce Nero avevano davvero poco in comune. Curiosamente, creavo adesso un paradosso, chiudendo un cerchio intimo tra una sorta di fratello, che sarebbe rimasto giovane per sempre, e un nonno che invece era già vecchio quando io iniziavo a ricordarmi di lui. Un giovane imprigionato per sempre nella sua gioventù, che non ha fatto in tempo a invecchiare; un avo che da giovane lo si può soltanto, a fatica, immaginare.

Il giovane Nick. Il vecchio Alce.

L’OPERA

Un romanzo narrato in prima persona, diviso in tre sequenze, che si dipana in più direzioni, tra paesaggi, sentimenti e personaggi che si completano in un’unica magica storia e concorrono a riprodurre vicende individuali e collettive, in scala ridotta (la voce dei ricordi, l’humus di una piccola città, un’orma sulla luna) o ingigantite (le atmosfere di un giorno qualunque, una vecchia casa nel bosco). Gianluca Veltri racconta così le risonanze e i rispecchiamenti dell’esistenza, attraverso gli occhi e le parole di un protagonista senza nome, stabilendo uno scambio dialettico tra il presente e l’irrealtà reale del passato. Un libro raffinato in cui la musica assume sempre il ruolo del contenuto, dell’essenza: è il racconto del mondo tra gli echi dell’altopiano silano, è la natura intesa come valore da vivere, è la memoria del tempo, è il diritto di dirci felici, è il rosario dei rimpianti, è l’odore dell’arrivo. La postfazione è firmata da Dario Brunori.

L’AUTORE

GIANLUCA VELTRI

Gianluca Veltri, scrittore, giornalista culturale, musicista, vive e lavora a Cosenza. Ha scritto di musica e letteratura su Mucchio selvaggio, Diario della settimana, Musica! Rock & Altro e altre testate. Collabora con Il Quotidiano del Sud, L’Osservatore Romano e il blog letterario Nazione Indiana. Ha curato alcune voci del “Dizionario della canzone italiana”. Diversi suoi testi sono presenti in volumi collettivi. Ha pubblicato “Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di Claudio Lolli” (2006), “Francesco Guccini. Fiero del mio sognare” (2010), “Le parole salvate” (2018).

Il mio omaggio all’autore per dire: grazie!

L’atomo inquieto

Il buon Alessandro Manzoni, che in materia di tecniche narrative aveva già inventato tutto, ci ha lasciato un principio della sua poetica di grande rilievo per chi scriva di fatti storici: il vero storico e il vero poetico che coloro che hanno reminiscenze scolastiche senz’altro ricorderanno: lo storico è colui che illustra i fatti, li enumera quasi, colloca i personaggi nel loro divenire oggettivo in un determinato contesto.

Il poeta o il romanziere invece, pur avvalendosi di quei fatti, va oltre la superficie degli avvenimenti per scovare (e raccontare) la verità che lo storico non potrà mai manifestare, ciò che esiste nella testa degli esseri umani che hanno scritto la storia. Questa verità aggiunge (e mai toglie) alla verità storica quel risvolto necessario alla comprensione più intima, più completa, più organica, di un evento o di un personaggio.

Mimmo Gangemi, con il suo ultimo romanzo, L’atomo inquieto, incentra la narrazione sulla storia di Ettore Majorana, uno tra gli scienziati di spicco del gruppo dei ragazzi di Via Panisperna riuniti intorno a Enrico Fermi.

Il racconto della storia di quest’uomo misterioso e tormentato si avvale di elementi di verità (sulla storia di Ettore Majorana e la sua scomparsa ci sono molte testimonianze, alcune avallate dai fatti, altre frutto di ipotesi) sapientemente miscelati nell’intreccio della finzione narrativa.

Nel romanzo Majorana ripercorre gli ultimi giorni della sua vita che Gangemi “vede” in una località dello Jonio, in Calabria, dopo le innumerevoli identità assunte e la definitiva scomparsa.

È un barbone, uno straccione che vive in solutine inseguito da una “voce” nella sua testa che definisce “la creatura”, una voce che lo incita e lo sostiene per non crollare nel nulla definitivo, lui, uno dei più grandi geni del Novecento, collocato da alcuni tra Einstein e Newton.

La solitudine di un uomo in fondo timido, che si è lasciato alle spalle le scoperte e la guerra, la perdita dell’unica donna amata e del figlio che portava in grembo, lui, anaffettivo e problematico come spesso accade alle grandi menti, rappresenta con la sua storia il divario tra la necessità della scienza nel suo incedere contrapposta all’etica delle scelte, nell’eterna oscillazione tra il bene e il male, la sete di conoscenza e i limiti dell’uomo.

“Lo eviti, lo specchio, eh? Guardati invece. Così ti rendi conto di come sei conciato. Hai cinquantaquattro anni e sembri di cento. Già eri brutto, con quel volto scuro da arabo, magro che ti si possono contare le ossa, con le spalle ricurve, l’altezza che ti difetta. Ci aggiungi la barba incolta che mi pari un cavernicolo, i capelli arruffati che chissà da quando non ci passa un pettine o una spazzola, e vestito peggio, da elemosinante, con i pantaloni di orbace in piena estate, la maglietta interna lacera, le ciabatte monacali con le stringhe rotte. Certo che ti prendono in giro, Tu vuoi essere preso in giro.”

Chi ha amato e conosciuto Mimmo Gangemi nelle sue opere precedenti forse potrebbe rimanere sorpreso da questa svolta che abbandona i temi che gli sono cari, ma troverà un romanzo solido, che si legge come un giallo, (genere al quale l’autore non è nuovo) nel quale fanno capolino note che inducono a una commozione partecipata per un uomo dall’accesa sensibilità, in cui, infine, non mancano i passaggi degni di un romanzo d’avventura.

Come sempre l’autore ci regala grande narrativa.

L’OPERA

Un mistero, sette vite, una storia capace di raccontare un uomo e un secolo.

«Non t’accorgi che adesso hai chiara ogni cosa, che ti si è restituito il passato, sai chi sei e chi sei stato, le vite che hai attraversato? Non ti va di ripercorrerli i ricordi dimenticati? E allora resisti e lotta.»
Uno straccione misterioso che abita in una baracca. Un incidente. Una notte tra la vita e la morte in cui riemerge il mistero di un passato inimmaginabile. Perché quell’uomo si è trovato, per decenni, al centro della storia. È stato un professore di fisica noto e reputato a Roma, ma scomparso in un giorno di primavera del 1938, presunto suicida. È stato uno scienziato al servizio di Hitler, in corsa contro il tempo per costruire l’arma definitiva, la bomba capace di vincere la guerra. È stato un paziente in un sanatorio altoatesino, precario rifugio per ex nazisti braccati. È stato un tecnico di laboratorio in Venezuela, dopo essere arrivato in Sud America in compagnia di Adolf Eichmann. E poi è tornato di nuovo in Italia, ha attraversato altri luoghi e altre identità, fino a non averne alcuna se non quella di un disperato che campa di poco e niente in terra ionica: come a voler espiare, facendosi fantasma in vita, i troppi errori di troppe reincarnazioni. Ettore Majorana, perché di lui si tratta, in quell’unica notte rende in prima persona la sua confessione: una vicenda di guerre e di intrighi, di amore e di pericolo, attraverso cui il filo rosso della scienza e del progresso corre tingendosi, a tratti, di sangue. Mimmo Gangemi riporta in vita una delle figure più interessanti ed enigmatiche del Novecento distillando dagli scarsi indizi e dalle molte congetture sulla sua scomparsa una sontuosa e avvincente narrazione. E ci restituisce un Majorana insieme fedele alla realtà storica e pienamente contemporaneo, nella tensione estrema tra scienza e morale che percorre la sua vita e nel dilemma tra dovere e libertà che segna anche il nostro tempo

MIMMO GANGEMI

Mimmo Gangemi è nato nel 1950 a Santa Cristina d’Aspromonte. Alterna la professione di ingegnere a quella di giornalista (collabora con «La Stampa») e di scrittore. Tra i suoi titoli Il giudice meschino (Einaudi 2009), La signora di Ellis Island (Einaudi 2011), Il patto del giudice (Garzanti 2013), Un acre odore di aglio (Bompiani 2015), La verità del giudice meschino (Garzanti 2015), Marzo per gli agnelli (Piemme 2019). Nel 2017 partecipa con un suo contributo alla raccolta di saggi Attenti al Sud, edito da Piemme.

ALCUNE RECENSIONI

https://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108603-la-recensione-l-atomo-inquieto-mimmo-gangemi-solferino-editore

https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/narrativa/2022/11/16/mimmo-gangemi-e-i-tormenti-dellatomo-inquieto_5d517594-4f3a-470c-a15d-234b44633661.html

OPERE (D’ARTE)

È difficile scrivere di questo libro di Marino Ciano Itinerario della mente verso Thomas Bernhard.

La domanda potrebbe sorgere spontanea: allora perché lo fai?

Risposta: per il bisogno di parlarne.

È un’opera indefinibile: non è un romanzo, non è un giallo, non è un saggio, non è uno studio critico ed è tutte queste cose insieme.  

Ho finito di leggere queste settanta intense pagine nel cuore della notte e sono rimasta intontita, come se qualcuno mi avesse preso per le spalle e scosso dicendomi: “svegliati”. E io lo guardassi dritto negli occhi con un punto interrogativo nelle pupille che invece chiedeva: “e adesso?”

Ho provato a razionalizzare i pensieri, a uscire dal fiume in piena del flusso delle parole dell’itinerario che avevo percorso senza mai un punto fermo, e confesso che ho avuto difficoltà ad emergere.

Credo perché non volessi uscire da quello stato di straniamento e non volessi in alcun modo riappropriarmi della dimensione reale degli oggetti: la lampada accesa sul comodino, le gocce che prendo per dormire, la coperta che tiene al caldo.

Tutto in aperta lotta e contraddizione con lo spirito del quale queste pagine sono intrise.

Così, in modo insolito, ho afferrato il cellulare e ho scritto un messaggio all’autore. Più che un messaggio era una richiesta: aiutami a uscire fuori da qui, ma anche dimmi come posso rimanere qui.

Dove tu mi hai portato.

Una vertigine, la stessa che si può provare di fronte a una scultura gigantesca e perfetta e tu sei lì, piccola, che ti chiedi com’è possibile che una mano umana abbia riprodotto quell’espressione dolente, vera, quelle pieghe della tunica, quel nitore accecante, tali da far tremare?

Non scrivo recensioni, non m’importa fare esercizio di erudizione e raccontare ciò che Martino Ciano ha raccontato in sole, ripeto, settanta pagine di altissima intensità.

Mi basta aggiungere tre parole:

ANTICONFORMISMO: un’opera gioiosamente sprezzante delle regole dell’architettura narrativa e delle leggi del mercato editoriale che confezione spesso centinaia di belle storie infiocchettate che bevi come una tisana per qualche minuto di fluttuante benessere e scivolano liquide senza lasciare traccia.

LIBERTA’: libertà di esprimersi secondo ciò che questo vuol dire per un autore capace di “creare” da un blocco informe e insignificante un’opera d’arte secondo la visionarietà che è propria dei grandi artisti.

SPERIMENTAZIONE: affine alla prima, ovvero non lasciare che a guidare la mano siano i gusti e le aspettative degli altri, ma la propria legittima (e sacra) visione della vita e soprattutto della scrittura.

Detto ciò auguro a quest’opera di Martino Ciano tutta l’attenzione che merita, per la sua leggerezza e profondità.

Lascio dei link per chi volesse leggere delle vere recensioni.

Io, rimango seduta nella stanza con il camino:

Eppure noi non siamo mai il nostro nome e il nostro cognome, ma siamo solo un passaggio vitale che ha bisogno di essere riconosciuto”.

In una notte insonne, io ho visto un uomo seduto in una stanza con il camino, un individuo che aveva le mie sembianze, sembianze che erano simili alle tue, ho sentito delle voci e ho avuto delle visioni, e ho messo insieme le cose e le ho scomposte in parole, e poi ho sentito il bisogno di bruciare tutto ciò che avevo scritto e di lasciare che fossero i miei pensieri a tormentarmi, perché una volta trascritti essi non mi tormentano più, e siccome io amo il tormento più della quiete, più della felicità, più dell’amore, ho scelto di pensare e di astenermi dalla scrittura”.  

https://corrierefiorentino.corriere.it/notizie/cultura-e-tempo-libero/22_dicembre_19/un-percorso-che-e-nella-testa-dello-scrittore-e-del-lettore-760776eb-160b-4fd4-b2ca-cbba9b167xlk.shtml

https://glicineassociazione.com/itinerario-della-mente-verso-thomas-bernhard-martino-ciano/

L’AUTORE

MARTINO CIANO

 

Martino Ciano (1982) è giornalista e direttore responsabile di DigiesseNews, testata giornalistica dell’emittente radiofonica Radio Digiesse di Praia a Mare. Vive a Tortora, primo paese dell’alto Tirreno cosentino. Scrive di letteratura e filosofia sulle webzine L’Ottavo, Zona di Disagio, Gli amanti dei Libri, Suddiario, Libroguerriero e sul suo blog BorderLiber. Nel 2018 il suo esordio letterario con Zeig, cui ha fatto seguito Oltrepassare

L’OPERA

Descrizione

Una famiglia che vive nei propri incubi. Un uomo che dialoga con il suo Thomas Bernhard immaginario. Un mondo che inizia e finisce tra le pareti di una stanza con il camino. La vita esiste anche oltre la vita, suggerisce il narratore, colui che inventa e che fa incontrare i suoi personaggi, che giustifica e falsifica le proprie emozioni… e poi quando nulla esiste per davvero, tutto è perfetto e senza macchia… proprio per questo motivo ogni itinerario verso la salvezza è possibile, così come ogni vita non è del tutto confessa bile… d’altronde noi siamo veri nei nostri segreti e nei nostri silenzi.

Vien voglia di stare in silenzio

Torna in libreria L’assedio, di Rocco Carbone per merito dell’Editore calabrese Rubbettino. Il romanzo era stato pubblicato nel 1998, l’autore (nato a Reggio Calabria e morto a Roma) è scomparso prematuramente, lasciando una produzione riscoperta grazie e Emanuele Trevi che ne ha raccontato la biografia in Due vite (Premio Strega 2021)

Dopo aver letto L’assedio vien voglia di dire: zitti tutti, posate penne, tastiere, idee, convulsioni e aspirazioni di fama e leggete.

Il silenzio: è ciò che a me ha suggerito la lettura di queste pagine perfette nelle quali si racconta che all’improvviso sulla città di R. comincia a cadere una polvere bianca dal cielo, uno strano fenomeno meteorologico, che nessuno sa spiegarsi. E mentre la città si ricopre di polvere e gli abitanti sono costretti a riparare nelle case, assediati dalla sabbia, i soccorsi non arrivano e l’isolamento della città è totale, fino alla lotta per la sopravvivenza.

La città di R., incastonata tra montagna e mare, forse è una città che conosciamo e che magari conosceva anche l’autore: una città difficile, lontana, dove si è lasciati alla sorte senza che nessuno manifesti uno straccio di volontà vera di una spiegazione qualsiasi di ciò che sta accadendo, o di un aiuto.

Ma la città di R. è anche una condizione, la nostra: “l’esterno” sempre meno raggiungibile se non a costo di rischiare la vita, quella luce gialla che avvolge ogni cosa, lo strato di sabbia che giorno dopo giorno si alza fino a ergere barriere impraticabili, nessuno può sottrarsi all’inevitabile.

Per certi versi profetico: venticinque anni fa Rocco Carbone ha descritto la nostra natura braccata, quella che oggi – tra guerra, crisi energetica, crisi climatica – stiamo vivendo sulla nostra pelle. Siamo esseri umani ormai disorientati, con sempre meno appigli, ricoperti da un senso di impotenza, come la polvere gialla che ricopre quell’imprecisato luogo geografico.

E poi l’umanità descritta nei personaggi: alcuni che nel bene hanno sempre agito e continueranno ad agire fino allo stremo, coloro che scelgono l’umanità, personaggi di fronte ai quali ci si commuove. Altri che approfitteranno per mettere in atto, armi alla mano, strategie criminali di sottomissione e seguiranno la via del cinismo.

Non sai di cosa sono capaci le persone, quando si tratta di sopravvivere”.

Scrive Emanuele Trevi nella Prefazione: «una splendida occasione di riscoperta di un autore tra i più originali e coinvolgenti nel panorama narrativo italiano fra tardo Novecento e inizi del nuovo millennio»

Sono rimasta “esterrefatta” dallo scorrere naturale delle parole, messe una dopo l’altra per permettere a chi legge di entrare nelle pieghe della narrazione senza sforzo, come solo la grande narrativa sa fare:

Alla fine del terzo giorno della fitta pioggia di sabbia, poco prima dell’alba, si levò dal mare un vento fortissimo, che batté per molte ore la città in ogni suo quartiere. La polvere bianca che si era accumulata per terra, nelle strade ormai impraticabili, a ridosso delle pareti degli edifici e che era già arrivata, in molte parti, a più di un metro e mezzo d’altezza, fu sollevata da un soffio inarrestabile che la trascinò via nel suo percorso verso ovest, in direzione delle colline. (…) Poco dopo mezzogiorno la bufera diminuì d’intensità, e in breve abbandonò quel luogo, lasciandolo in una pace innaturale.

Per certi aspetti questo romanzo me ne ha ricordato un altro letto di recente (così come il suo autore, Nicola Pugliese, anche lui prematuramente scomparso) altrettanto potente e con una storia simile: Malacqua, nel quale è la pioggia incessante su Napoli a determinare gli eventi.

A volte si ironizza sui romanzi indispensabili o necessari: talvolta però accade di incontrarne uno.

Il romanzo

L’assedio (Prefazione di Emanuele Trevi)

Sulla città di R., stretta fra le montagne e il mare di una geografia imprecisata, si abbatte un’inspiegabile e insistente pioggia di sabbia. La popolazione, impreparata a tale evento, si ritrova assediata dalla coltre terrosa che cade incessantemente. Le autorità non riescono a prestare soccorso e dopo pochi giorni i contatti con l’esterno si interrompono, l’isolamento è totale, nessuno può più allontanarsi o accedere allo spazio urbano. Tra chi rimane serpeggia l’esasperazione e lo sconforto, ed è già lotta per la sopravvivenza. «Ma cosa bisogna fare per resistere dentro quel muto teatro di sabbia e continuare a essere uomini: obbedire alla propria missione, religiosa o laica che sia, come padre Retez e il medico Damiano? Oppure saltare il fosso del cinismo come il giovane Demetrio? O ancora, come Saverio, cercare una via “umana” alla battaglia contro il male, esponendosi così al dubbio, all’ambivalenza delle emozioni, ai tracolli della ragione?». Con la riproposta di questo romanzo, premonitore e lancinante come pochi, torna finalmente ai lettori Rocco Carbone, tra i più umbratili e affilati autori della narrativa contemporanea, «interprete così acuto e spassionato della condizione umana».

L’autore

ROCCO CARBONE

(Reggio Calabria, 1962 – Roma, 2008), dopo gli studi a Roma e a Parigi, ha esordito nel 1993 con Agosto, cui hanno fatto seguito Il comando (1996), L’assedio (1998), L’apparizione (2002), Libera i miei nemici (2005). Sono usciti postumi Per il tuo bene (2009) e Il padre americano (2011). Ha pubblicato numerosi saggi e interventi su riviste come «Nuovi Argomenti», «Linea d’ombra», «L’indice», «Paragone», e collaborato con vari quotidiani tra cui «la Repubblica», «l’Unità» e «Il Messaggero»

Pensa il risveglio

Questo romanzo è arrivato in un momento di stasi: nelle ultime settimane prima di iniziarne la lettura ero demotivata, ho iniziato e lasciato dopo poche pagine diversi libri.

Ai lettori famelici come me questa cosa può far venire l’ansia, perfino un senso di malessere, e sai che non dipende dalla qualità dei libri che approcci, ma da una sorta di indigestione (capita anche per la qualità delle letture), quasi si provasse il bisogno di “purgarsi” dalle scorie prima di ricominciare.

E siccome, almeno per me, la lettura è ormai un piacere irrinunciabile, ti muovi frenetica tra le pagine alla ricerca del colpo di fulmine che ti faccia innamorare un’altra volta.

E’ stato questo romanzo, il mio colpo di fulmine.

Molte volte (al netto di recensioni di chi è in grado di offrire una prospettiva critica, con mezzi adeguati) chi come me parla di libri definisce un romanzo “bellissimo” e nell’usare quest’aggettivo si finisce per sentirsi banali. L’ultimo libro letto che abbiamo amato è sempre bellissimo.

Ma nel caso di questo straordinario romanzo è diverso: la bellezza è così densa, fitta, intrecciata che da lettori ci si muove come guerrieri muniti di falce per farsi strada nella foresta, alla ricerca di un significato, di una visione possibile nei mondi che ti sono dati di esplorare. Il bene e il male, il mondo di sopra e quello di sotto, il risveglio dell’umanità e la responsabilità delle scelte.

Terrarossa Edizioni regala sempre perle da scoprire e ha questa cosa bella che per ogni romanzo indica “il lettore ideale”

Nel caso di Pensa il risveglio questo sarebbe: “chi ha provato il desiderio di scomparire, di sottrarsi alle proprie responsabilità; chi subisce il fascino delle rovine; chi sa che le ideologie e i regimi non si sconfiggono mai una sola volta e per sempre; chi ama farsi continuamente sorprendere dalla letteratura

Ecco, sono stata la perfetta lettrice ideale.

Per il resto vi lascio qui il link della pagina delle recensioni, di chi sa scriverle meglio di me. Io posso solo chiudere dicendo che sono lieta di questo “colpo di fulmine” con una storia nella quale ogni singola parola evoca possibilità nuove e diverse, quando si dice: i libri che davvero valgono sono quelli che cambiano la prospettiva e ti costringono a “ripensare” e “ripensarti”.

https://www.terrarossaedizioni.it/negozio/pensa-il-risveglio/

La trama:

Lorenzo è scomparso quando le riprese del suo film sono quasi terminate; il narratore ne segue le tracce e, mano a mano che passa il tempo, si impossessa della sua vita. Lorenzo potrebbe essere morto, ma la sua presenza si insinua nella coscienza degli altri personaggi, con la sua ombra sinistra. Nel frattempo c’è qualcosa che non funziona, continuano ad aprirsi delle crepe nella realtà di questo mondo, a riproporsi frammenti di vita e visioni, a ritornare i nomi di Albert Speer, architetto del Terzo Reich e confidente di Hitler, e di Josef Mengele, il medico assassino di Auschwitz. Quando il narratore scoprirà della gravidanza della compagna di Lorenzo, Cate, la storia prenderà un’accelerazione che lo porterà a compiere scelte di cui non sembrava capace. Un romanzo intenso e politico che ci interroga continuamente sulla responsabilità di essere al mondo.

L’autore

Alessandro Cinquegrani (Treviso 1974) è professore di Letteratura comparata all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È autore di diversi volumi di critica letteraria tra cui Solitudine di Umberto Saba (Marsilio, 2007) e Il sacrificio di Bess. Sei immagini su nazismo e contemporaneità (Mimesis, 2018). Ha esordito nella narrativa nel 2012 con il romanzo Cacciatori di frodo (Miraggi), finalista al Premio Calvino e candidato al Premio Strega, da cui è stato tratto lo spettacolo teatrale omonimo (regia di Giuseppe Emiliani, protagonista Stefano Scandaletti), e che è ora in corso di traduzione in Francia. Collabora con importanti riviste di critica letteraria e cinematografica. Ha scritto la drammaturgia Medea per il Teatro Bresci, selezionata nel Circuito Off del Teatro Stabile del Veneto.

Malavuci soffiate nel vento da una cantastorie

Molto tempo fa nel secolo decimonono, Honoré de Balzac diede alle stampe “La signorina Cormon”, titolo originale “La vieille fille” che letteralmente significa “La zitella”.

Storia  esilarante di  Rose-Marie-Victorie Cormon, attempata quarantenne, corpulenta e ingenua, discendente di una ricca famiglia borghese che cerca marito. Inutile dire che i pretendenti mirano al suo patrimonio, più che alla povera Rose-Marie. Il romanzo, crudele e grottesco, nel quale sono frequenti doppi sensi a sfondo erotico,  forte per quei tempi, è considerato un capolavoro del romanzo moderno, anche se non è molto conosciuto.

Con Malavuci di Antonella Perrotta, La signorina Cormon non ha molto a che fare per trama o stile, ma nel leggere l’opera di Antonella ho ripensato a questo romanzo di Balzac che lessi molto tempo fa, e questo credo dica già molto.

L’abilità narrativa, il tenere insieme la storie e le storie, il creare personaggi a tutto tondo pur nei rapidi tratteggi, il restituire l’atmosfera di un piccolo paese pettegolo, San Zefiro, dove le chiacchiere viaggiano con il vento e soffiano malamente sulle vite di uomini e donne, mi ha ridato il piacere di una lettura che non provavo da tempo, un po’ come sedersi accanto a un ruscello che scorre e trovare il piacere della frescura lontano dall’afa, sotto l’ombra di fronde mosse dal vento.

In un panormara letterario che ci offre eccellenze, ma spesso anche storie pretestuose, pseudo-intellettuali, che talvolta nascondono l’incapacità di costruire degnamente una storia, una trama, dei luoghi, Malavuci, nei suoi toni che virano sapientemente dall’ironico al drammatico, possiede quella narrazione che crea un affresco, geografico, fisico e umano, come avviene nei “grandi” romanzi.

Pagine ironiche, talvolta comiche, altre volte tristi da far velare gli occhi: le reazioni di chi legge si snodano su un solido filo narrativo che suscita empatia e antipatia, ma sempre coinvolgimento.

Ambientato a San Zefiro, un piccolo borgo calabrese immaginario, siamo nel 1919 e dopo la guerra arriva ad ammazzare pure la Spagnola , che alcuni credono si mandi via con gli scongiuri perché causata da qualche magara. La magara è una ragazza, Lela, colpevole di essere forestera: è lei  la strega della quale liberarsi (ah! i pregiudizi!)

Poi c’è Sasà, figlio di Antonio e Caterina Bellosguardo, famiglia di carriamorti (ovvero proprietari dall’agenzia di pompe funebri, Il Trapasso) che sulle labbra dei paesani diventa  la fimminella di cui sparlare, con grande rabbia della madre che farà di tutto per sfatare questa malavuce (ah! i pregiudizi!)

Un intreccio di vite che l’autrice ci racconta in veste di “cantastorie” e che in un momento di pausa dalla lettura ho preso in mano perché la sera prima di dormire devo comunque guidare la mia insonnia con qualche pagina al letargo della mente e del corpo, ma che invece mi ha catturato completamente, tenendomi sveglia, e mi ha fatto scoprire una narratrice di stoffa! (devo recuperare Giuè, il primo romanzo, che pure ho)

Non ultimo vorrei segnalare la grande cura grafica ed estetica di questo romanzo e voglio dirlo, visto che mi sta capitando di leggere romanzi di accreditate case editrici con refusi e impaginazioni penose. Ecco, l’ho detto.

Antonella Perrotta, Malavuci, Ferrari Editore

Antonella Perrotta nasce in Calabria, dove vive e lavora. Laureata in giurisprudenza, appassionata da sempre di storia, scrittura e letteratura. Suoi racconti sono presenti in volumi collettanei. Collabora, inoltre, con riviste e blog culturali. “Malavuci” è il suo secondo romanzo, dopo “Giuè.

Il tempo: qualche ora o qualche anno d’attesa è lo stesso, quando si è perduta l’illusione di essere eterno…

… scriveva Jean Paul Sartre ne Il muro: il tempo è protagonista del nuovo romanzo di Simone Innocenti, nel quale un gruppo di amici si ritrova per Capodanno nella villa sul mare di Giulio e Francesca, in Toscana, dove il naturale ritmo delle onde sembra essere lontano e a tratti irraggiungibile, pur essendo semplicemente “davanti”, e la montagna incombe “dietro” con la sua oscurità e gli antri segreti che a non conoscerli possono rivelarsi trappole fatali.

Ricchezza, eleganza, ipocrisia, traumi, segreti: ogni capitolo narra in terza persona la storia dei personaggi (tra gli altri un notaio, una modella, un commercialista disonesto, un insegnante di tennis, un’assicuratrice, un poliziotto, un rappresentante di lampadine, una donna in carriera) ognuno alle prese con il proprio demone: c’è chi ha appena saputo di avere un cancro, chi ha il vizio del gioco, chi è animato dal desiderio di rivalsa, chi ha aspirazioni omicide, chi si consuma d’invidia per la ricchezza degli altri, chi tradisce il proprio partner, chi spia, chi ricatta.

Nessuno di loro sembra essere mosso da umana comprensione: si sono trovati insieme sulle spiagge della Versilia quando erano adolescenti e insieme hanno percorso un pezzo di esistenza senza mai avvicinarsi davvero l’uno all’altro.

Il tempo domina la narrazione: una mano invisibile e fredda che decreta le azioni, il loro scorrere e il loro divenire durante un Capodanno che non sai mai se è l’inizio del nuovo o la fine del vecchio, che è realtà e finzione nello stesso tempo, quando siamo tutti a recitare sullo stesso palcoscenico, che è passato e futuro senza essere presente, che è il mare che non puoi prendere e il buio della montagna che invece può prenderti.

È la clessidra palindroma, perfettamente simmetrica nel suo andare e tornare, nei granelli che scorrono da una cavità trasparente all’altra e sono sempre gli stessi, inesorabilmente di ugual numero.

Capodanno è la “festa” della malinconia del passato, della lotta tra vecchio e nuovo, che in questo romanzo diventa una resa dei conti incastonata da una narrazione che procede per quadri intersecati con un ritmo pulito, asettico, drammatico, come il tempo che ci abbandona ad ogni secondo di attesa sprecato.

Simone Innocenti, dopo il felice esordio con l’originalità jazzistica dei sui racconti A puntazza (L’Erudita) che ho amato molto, il mare che mai penseresti possa esserci a Firenze (Firenze Mare, Giulio Perrone) e soprattutto Vani d’ombra, Voland,  ci regala un romanzo stilisticamente perfetto come un film di Luchino Visconti con la stessa ossessiva e appassionata ricerca di perfezionismo; disegna una ricca e media borghesia senza identità, alle prese con i suoi tormenti decadenti, tanto da essere, ciascuno nella propria esibizione, il riverbero dell’altro, in un affresco dipinto da un occhio esterno che a tratti svela la crudeltà di uomini e donne capaci di insospettabili azioni violente, con corpi voluttuosi che esprimono una sessualità morbosa e prepotente, rapporti lacerati da odio malcelato e invidia.

Un affresco dell’individualismo imperante in una storia impeccabile ed elegante.

Ho sempre pensato che il talento di uno scrittore si manifesta laddove costui è capace di sperimentare nuovi registri, nuovi percorsi narrativi e stili diversi: in un panorama letterario nel quale spesso accade che di un autore letto un romanzo equivale ad averli letti tutti, Simone Innocenti mantiene il suo occhio critico capace di guardare da punti di vista molto diversi ed essere nuovo e diverso ogni volta. In una parola: sorprendente.

Il romanzo di un cavallo di razza insomma: non lo dico io, da lettrice quale sono, ma il fiume di recensioni e attenzioni rivolte a questo romanzo.

La clessidra, ma come non averci pensato prima? È un oggetto palindromo perfetto, vive di vita propria, poco importa se tu la giri o meno; solo in quel momento – con quel gesto – la clessidra diventa una clessidra. E a rigirarla – cioè a farla tornare clessidra – quella fa sempre il solito percorso. È esattamente andata e ritorno al tempo stesso, la vita che non si ferma e che torna indietro.


Simone Innocenti, L’anno capovolto, Blu Atlantide

Simone Innocenti 

è nato  a Montelupo Fiorentino nel 1974, ha scritto Vani d’ombra (Voland), la guida letteraria Firenze Mare (Perrone), dopo aver esordito con Puntazza (Erudita). Suoi racconti sono apparsi in varie antologie. Si occupa di cronaca nera e giudiziaria e ha scritto per Il Corriere, La Nazione, Il Giornale della Toscana, Avvenire, L’Espresso e Sette. Attualmente lavora al Corriere Fiorentino, dorso regionale del Corriere della Sera e collabora con La Lettura.

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