La felicità

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Quella era la felicità.
A volte certi pensieri esplodono in testa senza che tu li abbia cercati, forse perché oggi, capodanno di un anno qualsiasi, è uno di quei giorni in cui le assenze si fanno sentire. E tu ricordi. Dev’essere per questo. E comunque, ora che ci penso, quella era la felicità.
Ti svegliava al mattino a un’ora impropria per capodanno, ti rigiravi nel letto imprecando perché avresti voluto dormire. Invece la musica invadeva le stanze (probabilmente anche quelle dei vicini, visto il volume del giradischi). Di solito erano intermezzi di opere liriche, sceglieva sempre lo stesso LP per risvegliare la sua casa nelle giornate di festa.
Ti buttava giù dal letto perché per mezzogiorno dovevamo essere pronte per uscire e c’era il pranzo da lasciare sui fornelli e la tavola da apparecchiare, tutto organizzato per mettere a tavola la famiglia al rientro.
Ti alzavi  avevi voglia di un caffè e invece c’era odore di ragù e di polpette, di pasta al forno messa a cuocere, di pollo e patate rosolati.
Lei era tutta un fermento, non era neanche triste: non molto tempo prima in quello stesso giorno sarebbe uscita con suo marito, sorridente ed elegante come le piaceva essere, al suo braccio. Vanitosa come poche. Ma dopo che lui si era ammalato e viveva su una poltrona e perfino dopo che se n’era andato, quella era la sua occasione speciale: il teatro, la gente che avrebbe incontrato, gli auguri, l’aria di festa, i suoi gioielli da esibire orgogliosamente, non quelli che si comprano,  ma noi, i figli.
Sempre, negli anni, quella era l’occasione in cui tornava la ragazza che aveva amato le feste, quella che avevano eletto “reginetta”, quella che amava la vita oltre ogni misura, che teneva a sé stessa.
Lo sguardo si accendeva di una luce particolare, lo specchio la rifletteva felice, l’armadio era lo scrigno da cui estrarre la chiave per decifrare la sua esistenza: un bel vestito cucito apposta come l’aveva voluto, il cappotto intonato, le scarpe e la borsa, i guanti di pelle. Tutto in bella mostra sul letto e tutto diceva: ebbene, caschi il mondo, questo è il mio momento e guai a chi si oppone.
La vestizione era una corsa tra la stanza e il bagno, la tua, la sua no, era già programmata fin nei dettagli.
Tu la lasciavi parlare, distratta, ti vestivi alla bell’è meglio e mai niente di quello che avevi addosso le andava bene, ti rimproverava perché non avevi portato niente di adatto all’occasione, (cosa che neanche avresti avuto a dire il vero, le idee sull’abbigliamento erano divergenti). Ti proponeva qualche casacca scintillante e tu scuotevi la testa finché lei non si rassegnava.
Poi, puntuali, uscivamo di casa, salutando lungo il corso fino all’arrivo in teatro, quando le luci si spegnevano in platea e si accedevano sul palcoscenico, dove l’orchestra era pronta.
Lei continuava a sorridere e non smetteva finché la marcia di Radetzky non aveva esalato l’ultima nota a suon di battimani, ai quali lei partecipava come una bambina entusiasta.
Ecco.
Mia madre, al concerto di Capodanno, era la felicità.

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