- Scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno (H. Murakami)
Il titolo di questo “articolo” avrebbe dovuto essere “posiamo le penne e riflettiamo”, ma stasera c’è Sanremo, quindi parlare di vanità cade a fagiolo.
Da quando mi occupo di libri (leggo da sempre, anche se ho aumentato notevolmente il ritmo) e di scrittura (non prendendomi sul serio) capita sempre più frequentemente di imbattermi in pubblicazioni ascrivibili alla fiera della vanità.
La vanità di per sé è un sentimento legittimo, così come è legittimo dare espressione di sé stessi. Comunicare è entrare in relazione con l’altro, è essere vivi.
Dare espressione di sé e far mostra di sé sono cose diverse. Nell’era del social network e di internet ci sono molti modi per dare espressione di sé senza nuocere a nessuno e se questo ci piace o ci gratifica niente di male.
Ma il fatto è che ormai tutti scrivono e pubblicano: c’è un pullulare di piccole e minuscole (quanto sconosciute) case editrici che campano proprio grazie alla fiera della vanità. Io scrivo, dunque pubblico, dunque sono (uno/una scrittore/scrittrice). In questo – come ormai in quasi tutto – basta (spesso) pagare.
È una cosa che aborro. Però siccome aborro non mi piace lo dico di pancia: mi fa abbastanza schifo.
Provo a spiegare perché: come per Baudelaire esiste un mondo di corrispondenze nel tempio della natura, così per me esistono le vibrazioni nel tempio della letteratura. Nella natura le colonne sono gli alberi, nella letteratura sono i libri. Gli Alberi impiegano un tempo lunghissimo a crescere, fortificarsi, infoltirsi. Sopravvivono a generazioni di uomini e in questo sta la loro sacralità.
Per i libri è la stessa cosa.
Non mi faccio illusioni, so che non è l’(A)rte a decidere (anche se decreterà la sopravvivenza per alcuni e l’oblio completo per altri) ma è il mercato. E non mi scandalizza più di tanto. Ma il libro, anche quando è oggetto di consumo, non è mai merce.
Quando leggiamo un libro c’è sempre qualcosa che finisce per sedimentarsi e restare, si crea un rapporto intimo tra chi scrive e chi legge.
Una delle cose che mi riempiono di meraviglia nelle interviste che conduco per la mia rubrica un libro in 3d su Youbookers è che ho realizzato quello che diceva Salinger nel Giovane Holden “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”
Beh, non è che posso chiamare tutti gli autori dei libri che mi lasciano senza fiato, ma ugualmente mi piace avere la possibilità di dar seguito al legame che il libro ha creato con lo scrittore, almeno con quelli che posso raggiungere. Posso dirgli/le grazie.
I libri non sono faccende serie, ma sono importanti, moltiplicano le potenzialità dell’esistenza, creano buchi neri e muovono onde gravitazionali nel microcosmo degli individui.
Credo profondamente nell’onestà (e come dice Guccini… fanculo tutto il resto). E allora, in tutta onestà, perché (in molti) chiedono di leggere le loro insulse storie? Perché scrivere (e pubblicare) senza curarsi di come si scrive? (male, troppo spesso) Perché si dovrebbe sottostare alla fiera della vanità?
Io credo che chiunque scriva (e pubblichi) dovrebbe prima di tutto farsi delle domande: racconto una storia che cambierà qualcosa nella vita di chi mi leggerà? La mia storia potrà cambiare il mondo o semplicemente spostare un mattone? Oppure va bene anche soltanto: divertirò chi mi legge?
Come per tutte le professioni per le quali si deve passare un esame, un concorso, un test, secondo me dovrebbe essere obbligatorio una sorta di questionario, tipo una lunga lista di libri fondamentali obbligatoria: se li hai letti (e per bene, che non vale ingurgitare, se no si vomita e il bluff viene a galla) sei ammesso. Altrimenti stop, sbarra, sei fuori. Il gioco ha le sue regole, tu non le hai rispettate, sei squalificato.
D’accordo, la mia è una solo una provocazione.
Solo una provocazione?
“Ci si mette a scrivere di lena, ma c’è un’ora in cui la penna non gratta che polveroso inchiostro, e non vi scorre più una goccia di vita, e la vita è tutta fuori, fuori dalla finestra, fuori di te, e ti sembra che mai più potrai rifugiarti nella pagina che scrivi, aprire un altro mondo, fare il salto. Forse è meglio così: forse quando scrivevi con gioia non era miracolo né grazia: era peccato, idolatria, superbia. Ne sono fuori, allora? No, scrivendo non mi sono cambiata in bene: ho solo consumato un po’ d’ansiosa incosciente giovinezza. Che mi varranno queste pagine scontente? Il libro, il voto, non varrà più di quanto tu vali. Che ci si salvi l’anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa. (Italo Calvino)
Siete (siamo) davvero disposti a perdere l’anima?
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