Su La Malasorte

Io stavo qui a rimuginare e mi sono detta: non pensare, scrivi.

Cosma non era in assoluto la protagonista del romanzo La malasorte, eppure, suo malgrado, lo è diventata. Il fantasma della ragazza con la gonna nera che corre per i vicoli di un paese ormai abbandonato è entrato nel cuore dei lettori molto più che le stesse protagoniste, Cettina e Tilde. Questo perché il suddetto fantasma ha posseduto me per prima e dunque in quanto figlia della mia immaginazione è sì prediletta. E traspare.

Un’amica in questi giorni mi ha detto: mi sono chiesta “ma perché questo richiamo al Verismo anche nel titolo, perchè questa immagine del sud, della Calabria, ancora vinta”?

La malasorte non è una storia di vinti, è una storia di violenze perdute e per me sta scritta nei paesi abbandonati, spopolati, senza più linfa.

E’ la storia di una fuga e di un ritorno (non il mio), di una resa dei conti con i fantasmi che aleggiano tra le pietre di muri diroccati, lasciati andare all’oblio.

Per chi lo ha letto la chiave è Tilde: è lei che mostra le bellezze di un luogo segreto a una Cettina stupita, lei – Tilde – che in una baracca sparita in quel luogo è stata partorita perché non si sapesse, figlia senza padre.

E Cettina, che pure lì è nata e cresciuta, di quel luogo non ha alcuna cognizione, di cosa si celi davvero dietro i vicoli e le strade, oltre i confini del visibile agli occhi, non sa nulla.

Il romanzo finisce una notte, quando le due donne si addormentano e anche Cosma, il fantasma che porta tempesta e malasorte, finalmente, può trovare la sua pace e, forse, smettere di correre.

Il sud, la Calabria ha bisogno di sonno. E di risveglio.

NOVEMBRE

novembre14

La malinconia per me non è un sentimento negativo,  arriva ogni anno su un vagone che si chiama Novembre. Ha la bellezza delle foglie un attimo prima che cadano, dei cieli tersi quando il tempo è sereno, della pioggia che ci racconta l’inverno che verrà.
Su quel vagone la malinconia ci conduce in un luogo dove siamo già stati e nel quale ci sentiamo al sicuro, lontani dal chiasso.
Quando ero bambina novembre era l’estate di San Martino. Nei miei ricordi ci sono giornate di sole e i giorni di vacanze, i biscotti che si mangiavano caldi, appena sfornati. Profumavano di zucchero e madre.
Il due di novembre, giorno dei morti, mi portava con sé al cimitero, andavamo innanzi tutto a trovare il nonno, suo padre. È stato così che ho fatto amicizia con la morte: andando su e giù per le tombe seguendo mia madre che lasciava fiori nei vasi già colmi. Non avevo ancora chiara la percezione di cosa significasse perdere qualcuno. Quando era morto mio nonno per me era un bel vecchio elegante,  mi portarono a vederlo e lei, mia madre, volle che gli dessi un bacio. Non mi piacque affatto baciare quella pelle fredda, ma non piansi. Credo pensai fosse normale che si potesse morire alla sua età.
Così di fronte alla sua foto sulla lapide stavo tranquilla, aspettando che mia madre pregasse. Invece ero invece attratta da ciò che succedeva intorno: donne anziane vestite di nero, molte si portavano una sediolina da casa e stavano sedute di fronte a una tomba. Piangevano, accarezzavano la foto e avevano grandi fazzoletti di cotone per asciugare le lacrime. Qualcuna recitava litanie così laceranti da spezzare l’aria in due, perfino troppo, almeno per me. C’erano fiori di ogni tipo e colore, profumi intensi e centinaia di candele accese. In alcuni vicoli al contrario regnava il silenzio, forse morti antichi che nessuno piangeva più.
Mia madre mi teneva per mano per timore che potessi perdermi nella confusione. Aveva fiori per ogni tomba dove ci fosse qualcuno da ricordare in quel giorno, ma quelli più belli erano per sua madre, che aveva perso da ragazza. All’epoca non capivo perché non stesse accanto a mia nonno, suo marito. Lei non l’ho conosciuta, è rimasta una foto ovale in bianco e nero, un viso ignoto che non ho mai collocato nello spazio e nel tempo.
Di ritorno dal cimitero, dove si andava a piedi lungo una strada di campagna, c’erano ancora biscotti e la tv dei ragazzi,  un giorno di festa come si deve.

Poi per molti anni, da ragazza e da adulta, ho smesso di andare al cimitero e novembre era solo novembre. Da bambina potevo essere amica della morte perché non la comprendevo. Crescendo l’idea del nulla dopo la morte non mi ha mai portato e cercare un contatto con il marmo freddo, unitamente a un certo rifiuto della ritualità.

Invece un giorno ci sono tornata, in quello stesso cimitero dove andavo da bambina con mia madre. C’era il sole e la collina era rivolta verso il mare, una striscia visibile all’orizzonte tra gli ulivi. Credo però siano stati i ranuncoli gialli in fiore, avevano un’aria così festosa, come la primavera che stava per arrivare. La foto di mio padre mi sorrideva, quella l’ho scelta io perché è una delle rare foto in cui quel ragazzo diventato uomo troppo presto sorride. Al contrario di mia madre, che sorridente era di natura, ed è così che abbiamo voluto la vedesse chiunque arrivasse e portarle un saluto. Ha il rossetto rosso, il suo colore preferito ed è bella e vanitosa così com’era in vita.

Da quel momento al cimitero ci sono tornata spesso. Ho fatto pace con l’idea che loro abitassero lì. Talvolta sono andata a parlarci e quel marmo ogni volta era meno gelido. È vero che noi umani abbiamo bisogno di consolazione quando le persone care non ci sono più accanto. Ma è così che si fa, mi sono detta.
Ogni volta nel tragitto vago con lo sguardo tra le foto e le date, osservo la morte naturale nel suo ciclo di vita e quella implacabile senza possibilità di consolazione.
Quando vado via il sole e gli ulivi sembrano dire che quello in fondo è un bel luogo dove riposare. E mi dà un senso di pace.
E tutte quelle vite, decine, centinaia, migliaia di vite, sembrano sussurrare alle mie spalle: “Torna a trovarci qualche volta. Ti offriremo dei fiori, qualche ricordi e un caffè”. Anche se non sarà novembre.

 

La fiera della vanità

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Scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno (H. Murakami)

 

Il titolo di questo “articolo” avrebbe dovuto essere “posiamo le penne e riflettiamo”, ma stasera c’è Sanremo, quindi parlare di vanità cade a fagiolo.
Da quando mi occupo di libri (leggo da sempre, anche se ho aumentato notevolmente il ritmo) e di scrittura (non prendendomi sul serio) capita sempre più frequentemente di imbattermi in pubblicazioni ascrivibili alla fiera della vanità.
La vanità di per sé è un sentimento legittimo, così come è legittimo dare espressione di sé stessi. Comunicare è entrare in relazione con l’altro, è essere vivi.
Dare espressione di sé e far mostra di sé sono cose diverse. Nell’era del social network e di internet ci sono molti modi per dare espressione di sé senza nuocere a nessuno e se questo ci piace o ci gratifica niente di male.
Ma il fatto è che ormai tutti scrivono e pubblicano: c’è un pullulare di piccole e minuscole (quanto sconosciute) case editrici che campano proprio grazie alla fiera della vanità. Io scrivo, dunque pubblico, dunque sono (uno/una scrittore/scrittrice). In questo – come ormai in quasi tutto – basta (spesso) pagare.
È una cosa che aborro. Però siccome aborro non mi piace lo dico di pancia: mi fa abbastanza schifo.
Provo a spiegare perché: come per Baudelaire esiste un mondo di corrispondenze nel tempio della natura, così per me esistono le vibrazioni nel tempio della letteratura. Nella natura le colonne sono gli alberi, nella letteratura sono i libri. Gli Alberi impiegano un tempo lunghissimo a crescere, fortificarsi, infoltirsi. Sopravvivono a generazioni di uomini e in questo sta la loro sacralità.
Per i libri è la stessa cosa.
Non mi faccio illusioni, so che non è l’(A)rte a decidere (anche se decreterà la sopravvivenza per alcuni e l’oblio completo per altri) ma è il mercato. E non mi scandalizza più di tanto. Ma il libro, anche quando è oggetto di consumo, non è mai merce.
Quando leggiamo un libro c’è sempre qualcosa che finisce per sedimentarsi e restare, si crea un rapporto intimo tra chi scrive e chi legge.
Una delle cose che mi riempiono di meraviglia nelle interviste che conduco per la mia rubrica un libro in 3d su Youbookers è che ho realizzato quello che diceva Salinger nel Giovane Holden “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”
Beh, non è che posso chiamare tutti gli autori dei libri che mi lasciano senza fiato, ma ugualmente mi piace avere la possibilità di dar seguito al legame che il libro ha creato con lo scrittore, almeno con quelli che posso raggiungere. Posso dirgli/le grazie.
I libri non sono faccende serie, ma sono importanti, moltiplicano le potenzialità dell’esistenza, creano buchi neri e muovono onde gravitazionali nel microcosmo degli individui.
Credo profondamente nell’onestà (e come dice Guccini… fanculo tutto il resto). E allora, in tutta onestà, perché (in molti) chiedono di leggere le loro insulse storie? Perché scrivere (e pubblicare) senza curarsi di come si scrive? (male, troppo spesso) Perché si dovrebbe sottostare alla fiera della vanità?
Io credo che chiunque scriva (e pubblichi) dovrebbe prima di tutto farsi delle domande: racconto una storia che cambierà qualcosa nella vita di chi mi leggerà? La mia storia potrà cambiare il mondo o semplicemente spostare un mattone? Oppure va bene anche soltanto: divertirò chi mi legge?
Come per tutte le professioni per le quali si deve passare un esame, un concorso, un test, secondo me dovrebbe essere obbligatorio una sorta di questionario, tipo una lunga lista di libri fondamentali obbligatoria: se li hai letti (e per bene, che non vale ingurgitare, se no si vomita e il bluff viene a galla) sei ammesso. Altrimenti stop, sbarra, sei fuori. Il gioco ha le sue regole, tu non le hai rispettate, sei squalificato.
D’accordo, la mia è una solo una provocazione.

Solo una provocazione?

“Ci si mette a scrivere di lena, ma c’è un’ora in cui la penna non gratta che polveroso inchiostro, e non vi scorre più una goccia di vita, e la vita è tutta fuori, fuori dalla finestra, fuori di te, e ti sembra che mai più potrai rifugiarti nella pagina che scrivi, aprire un altro mondo, fare il salto. Forse è meglio così: forse quando scrivevi con gioia non era miracolo né grazia: era peccato, idolatria, superbia. Ne sono fuori, allora? No, scrivendo non mi sono cambiata in bene: ho solo consumato un po’ d’ansiosa incosciente giovinezza. Che mi varranno queste pagine scontente? Il libro, il voto, non varrà più di quanto tu vali. Che ci si salvi l’anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa. (Italo Calvino)

Siete (siamo) davvero disposti a perdere l’anima?

Ho incontrato la morte e l’ho incenerita

Oggi ho toccato la morte. Non era fredda come la raccontano, al contrario, era calda e famelica. L’ho vista aggirarsi sorniona in cerca di carne giovane. Non sono riuscita a prenderla. Dunque, non sono riuscita a fermarla. Aveva filamenti sanguinolenti nell’informe fessura che doveva essere la sua bocca. Mi ha vista e si è dileguata in un vortice polveroso e maleodorante.

Prima che sparisse però l’ho fissata, volevo sfidarla con tutta me stessa, volevo che sentisse tutto il mio odio. Mi ha fissata a sua volta, è stato un secondo, ma l’ho incenerita.

Troppo tardi, tuttavia, aveva già consumato il suo pasto

Oggi c’era il sole, un bel sole caldo, c’era tanta gente per le strade e per i campi qui intorno. Erano tutti festosi e vivi. La folla si è riversata a sciami in ogni angolo. La osservavo e mi chiedevo da dove spuntasse, da dove venisse, così numerosa e ridente.

Io non ho niente contro quelli che si divertono, anzi, di solito mi piacciono. Quello che non mi piace oggi è che – dopo aver consumato il loro rito sotto un sole cocente-  se ne andranno a sciami così come sono venuti lasciando le loro tracce evidenti dappertutto. Ci saranno erba, grano, papaveri e rifiuti ovunque. Quello che non mi piace è pensare che ci stanno avvelenando a colpi di risate.

Quello che non mi piace oggi è la morte che si è portata via Uno. A quella folla non importa niente di Uno. Uno è uno tra i miliardi di esseri umani che siamo. Anzi, nell’economia della terra è una necessità.

Quella folla non lo conosceva, potevano dunque consumare il loro rito in tutta tranquillità, era nel loro pieno diritto fregarsene della morte che si è preso qualcuno che conoscevo io.

Così sono andata a cercare una pagina di un libro di Paul Auster che mi è rimasta impressa: “ alla fine tutti saremmo morti… ma nessun libro sarebbe stato scritto su di noi. Questo è un onore riservato agli individui celebri e potenti, a chi è dotato di qualità eccezionali, ma chi si degnerebbe di pubblicare le biografie della gente comune, senza fama, di tutti i giorni, che incontriamo per strada e non ci diamo neanche la pena di notare? La maggior parte delle vite svanisce. Una persona muore e a poco a poco tutte le tracce di quella vita spariscono…. (…) la mia idea era questa: costruire un’impresa che avrebbe pubblicato libri sulle persone dimenticate, mettendo in salvo storie, fatti e documenti prima della loro scomparsa e ordinarli nel racconto di una vita”

Sta’ tranquillo, Uno, ti racconterò. Dolce uomo strappato troppo presto. Giuro che prima o poi lo farò.

E allora anche quella folla dovrà fermarsi e sentire la mancanza di Uno. Uno solo.

In culo la morte, dirà.

A Paolo, di cui continuo a sentire la voce gentile, con amore.

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50 SFUMATURE DI ROMEO E GIULIETTA (vietata la lettura ai maggiori di 18 anni)

romeo-and-juliet-nuovo-trailer-prima-locandina-e-35-immagini-per-il-film-di-carlo-carlei-33-620x350Il 12 febbraio al cinema escono in contemporanea due film: Romeo e Giulietta di Carlo Carlei e 50 sfumature di grigio di Sam Taylor Johnson. Una strana accoppiata che mi ha fatto pensare.

Nella storia di Romeo e Giulietta si parla di colpo di fulmine, è una passione che scoppia e divora e della quale non si può fare a meno, purtroppo proibita. L’unica amica dei due giovani innamorati è la notte che regala loro le ombre.

Entrambi appartengono, com’è noto, a due ricche e potenti famiglie e dunque il sentimento che li unisce è osteggiato a causa della rivalità per il potere, per il dominio. Le leggi dell’amore contro quelle del potere, la passione contro la ragionevolezza, un tema antico iniziato con l’Antigone di Sofocle.
Nonostante il tempo trascorso da quando Shakespeare scrisse questa tragedia, Romeo e Giulietta rappresenta nel nostro immaginario l’amore con la A maiuscola, quello che tutti sogniamo di incontrare almeno una volta nella vita, e questo indipendentemente dall’esito della vicenda che è legata a loro tempo.
Shakespeare mescola i toni del tragico a quelli della commedia, ma la bellezza del testo sta nella poesia.
Mi sono divertita a cercare alcune frasi: quante volte le avrete usate nell’infinito gioco delle citazioni sui social network? Eccone solo alcune.

Chi sei tu che avvolto nella notte inciampi così nei miei pensieri?

Romeo: “io giuro il mio amore sulla luna.” Giulietta: “Non giurare sulla luna, questa incostante che muta di faccia ogni mese, nel suo rotondo andare!”

Amore corre verso amore, così come gli scolari lasciano i loro libri, per contro, amore lascia amore con volto corrucciato con cui gli scolari vanno a scuola.

Ahimè, perché l’amore, di aspetto così gentile è poi, alla prova, così aspro e tiranno?

Io desidero quello che possiedo; il mio cuore, come il mare, non ha limiti e il mio amore è profondo quanto il mare: più a te ne concedo più ne possiedo, perché l’uno e l’altro sono infiniti.

L’amore è bensì una nebbia sollevata con il fumo dei sospiri e se questa si dissipi è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti e se sia contrariato non è che un mare nutrito dalle lacrime di quegli stessi amanti. E che cos’altro può mai esser l’amore se non una follia molto segreta, un’amarezza soffocante e una salutare dolcezza.

E adesso, lo ammetto, provocatoriamente, vi propongo un gioco: quante ne avete mai usate o lette tratte dal “best seller” 50 sfumature di grigio (nero e rosso?)

Se andate a ricercare le citazioni, la prima pagina che compare è quella della pubblicità del film su fb che avverte che potrebbero urtare le persone con “elevato senso del pudore”. Non c’è neanche bisogno di riportarle (i termini succhiare, orgasmo, duro – e qui mi fermo – la fanno da padrone). Ammetto che leggendo frasi come Lui geme e la mia dea interiore è euforica…. mi sono messa a ridere, esiste quel famose limite che separa l’erotismo dalla pornografia, la poesia della carne dalla volgarità.
Qui non c’è amore, si tratta di Dominio e Sottomissione, una donna che asseconda un uomo malato per “redimerlo”; lo straordinario successo commerciale di questa trilogia non è dovuto certo alla trama, ma all’esplicito erotismo del testo che risponde al  voyeurismo presente in ciascuno di noi.

Mi ricordo già qualche anno fa Melissa P. che fu imposta da un circo mediatico con il suo 100 colpi di spazzola, romanzo e film, proprio agli adolescenti e lo so perché i miei allievi (che di certo non divorano libri) erano tutti a leggerlo. Così l’ho letto, giusto per capire. Non era volgare, era brutto, una brutta storia scritta male, un’adolescente che la dava al primo che passava e questo passava a sua volta per una sorta di anticonformismo. C’era in quel libro una quadro veramente deprimente degli adolescenti, basso. Una volta in classe mi sono solo sentita di dire: ma davvero pensate di essere così come vi descrive?
Dare in pasto volgarità da due soldi è sempre stata la cosa più facile del mondo per “fare” i soldi, quelli veri. In fondo tutto può diventare merce di scambio, il corpo come il romanzo come il film e i messaggi che veicolano per far sì che fruttino danaro.

A questo punto una domanda: c’era bisogno di un altro film su Romeo e Giulietta dunque? Io non ho visto il film ovviamente, ma mi sono presa la briga di leggere le impressioni di alcuni insegnanti che hanno assistito a un’anteprima a Roma in dicembre.  E ne ho avuto l’impressione che sì, è una buona idea.
Mostrare la bellezza, esaltare la delicatezza di un sentimento forte e definito, maturo e incosciente che parla un linguaggio che fa quello che la poesia e le immagini devono fare, quella catarsi di cui abbiamo un disperato bisogno (e dio solo sa quanto gli adolescenti ne abbiano bisogno) circondati come siamo dalla volgarità mediocre che svende qualsiasi lacrima, qualsiasi sentimento, qualsiasi piacere.
Per questo penso che un film che racconti “veramente” la storia di Romeo e Giulietta può riconciliare con quel filo che abbiamo perso e forse essere un’operazione molto più rivoluzionaria del sesso ostentato e malato, per il quale è inutile un biglietto del cinema o il costo del libro. Basta andare nei bagni degli autogrill. Almeno quelle scritte hanno il pregio di essere, a volte, perfino divertenti.

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La pubblicità del film dice che My Grey è pronto a ricevervi. Sarebbe bello sbattergli la porta in faccia e dirgli salvati da solo.

In Romeo e Giulietta, non dimentichiamolo, si tratta di Shakespeare. Dunque, ragazzi (e non solo) siete avvertiti.

Sono una scrittrice?

snoopy06Capita di sentirmi definire “una scrittrice” e io mi volto d’istinto per vedere chi c’è dietro di me. Non è finta modestia, è proprio sano pudore. Se penso alla parola scrittrice mi vengono in mente uno stuolo di nomi e il mio non c’è: Virginia Woolf, Simone de Beauvoir, Doris Lessing, Elsa Morante, Anais Nin, Clarice Lispector, per citare i primi che mi vengono in mente.
Io ho solo pubblicato un libro con un piccolo e dignitoso editore, quasi casualmente (avevano letto un racconto e si sono presi il libro). Scrivo su blog, ne ho uno mio, ho collaborato in passato con qualche rivista, ho vinto concorsi letterari, pubblicato qualche racconto in antologie. Ma a quanti succede? Resteremo a futura memoria? Non credo. Ecco, forse perché ho un rispetto quasi reverenziale per la letteratura, per me gli scrittori stanno in quel tempio. Quel che succede ai comuni amanti della scrittura come me è molto lontano.
Dunque che ci faccio qui? Anche questo è un tempio. Confesso non mi sento a mio agio. Forse la mia alla fine sarà solo una provocazione: quand’è che ci si può definire “scrittrici” o “scrittori”?
Io avrei una risposta: quando l’attitudine alla scrittura è totalizzante, viene davanti a tutto. E questo non è il mio caso, o meglio, non lo è stato finora nel mio mezzo secolo di vita. Pertanto offro qui il mio punto di vista e la mia esperienza.

La mia formazione di “scrittrice mancata” (ma ancora non è detto) è arrivata molto presto  in modo esaltante e indolore: non ho conosciuto lacrime e sangue né vomito e ambienti malfamati anzitempo, ma sogno, immaginazione e mondi diversi dal mio. Cominciò a circa otto anni, quando mi fu regalato un piccolo libro del quale ricordo soltanto il titolo “Lodoletta”, poco più che una fiaba, ma era un libro rilegato e con molte pagine: quella consistenza tra le mani mi fece sentire grande. Non ricordo la storia, ma ricordo benissimo che iniziai a leggerlo di pomeriggio e al mattino, per poterlo finire, mi inventai di star male per non andare a scuola. Trascorsi la mattinata nel cucinotto di casa seduta su una piccola sedia impagliata con mia madre che sfaccendava intorno ed io immersa nella lettura. Ho alzato gli occhi dal libro solo quando arrivò la parola fine sull’ultima pagina.
Una volta spiato in quel mondo, io non ne sono più uscita. Ho ben stampate nella memoria certe avventure domenicali, quando in grigie giornate di pioggia mi sdraiavo sul lettone dei miei e le voci della mia numerosa famiglia diventavano un sottofondo alla lettura. Diamine come sono stata male quando ho finito I ragazzi della via Pal! (mi succede ancora oggi quando finisco di leggere un libro, soffro di una forma di jet lag, prima di passare a quello successivo, oltretutto mi sembra di tradire un libro con altro.)
Fuori da quel mondo comunque ero una bambina normale: allegra, creativa, un tantino iperattiva forse, piena di idee e iniziative, una di quelle che cerchi perché insieme ci trascorri bel tempo insomma. Scrivevo piccole poesie che la maestra elogiava, ma la cosa non mi lusingava affatto, anche perché non amavo quella donna severa.
Crescendo sono arrivati i libri seri, progressivamente più impegnativi. Leggevo di tutto, tanti, uno dopo l’altro, ingoiavo Tolstoj come i Gialli Mondadori, i neorealisti italiani come Agatha Christie. Eccetto Liala e la fantascienza che proprio non ho mai digerito, andava bene tutto, fumetti compresi, complici un padre e un fratello lettori.
Al liceo poi ci sono stati i grandi incontri. La letteratura con la L maiuscola, e cominciai anche a covare una certa predilezione per le autrici più che per gli autori, forse perché gli anni settanta qualcosa in eredità mi avevano lasciato. Tuttavia se mi chiedessero di spiegare l’esistenzialismo lo farei malissimo pur avendo letto a quindici anni La nausea di Sartre volando.
Questa è una caratteristica che ha influenzato la mia vita e il mio lavoro: sono una spugna. Mi immergo e mi impregno completamente fino a essere piena, salvo poi svuotarmi per essere di nuovo pronta a un’altra immersione. Non trattengo quasi mai nulla, o poco, di quel che leggo, per cui non saprei fare sfoggio della mia cultura, non potrei. Io passo prendo mangio e vado oltre, avida, curiosa di tutto, ma senza un obiettivo tranne che placare il mio pensare veloce, conoscere, dedurre, fare esperienza.

E dunque? La scrittura? C’è sempre stata, ho sempre scritto ma senza mai un ordine: lettere, temi scolastici per altri, manifesti (allora si chiamavano tazebao) storie improbabili. Ho sempre difettato in ambizione o voglia di espormi e ancor peggio, vincere. Io volevo vivere, la scrittura è sempre stata uno spettro in agguato: avevo il terrore che si impossessasse di me.
In compenso – so che è difficile crederci – la mia scrittura ha contribuito a “salvare”  persone (amici, parenti, fidanzati, amanti) da crisi, da angosce, da dubbi, da insicurezze o semplicemente dalla noia, difficile che parlassi troppo, in compenso scrivevo. Ho scritto centinaia di lettere. Quando ci penso adesso mi dà quasi fastidio che tanti pezzi di me siano sparsi in giro. Herzog, il protagonista del romanzo di Saul Bellow, passa la vita a scrivere lettere che poi non invia. Io non sono stata abbastanza furba da conservarle e farci un romanzo epistolare, e, quel che è peggio, io quelle lettere le ho recapitate tutte.
Potessi riaverle sarebbero un libro e perché no? Un manuale per giovani e saccenti psicologi “Come non farsi prendere per i fondelli dai propri pazienti e porre un limite alla propria onnipotenza”.

La scrittura era là, una donna implacabile con lo sguardo duro di Marlene Dietrich che mi aspettava, lo sapeva, lei, che avrei smesso di avere gambe e le avrei appese al cervello.
Tra i manuali per aspiranti scrittori ho letto tutto quello che c’era da leggere (o quasi) per desistere: Amos Oz, Vargas Llosa, fino a un piccolo libriccino di Erri De Luca dall’illuminante titolo “Tentativi di scoraggiamento (a darsi alla scrittura)”.
Una cosa mi ha colpito, strano me la ricordi per una che non trattiene niente: Amos Oz nel suo “La vita fa rima con la morte”, descrive uno scrittore in sosta a un piccolo caffè dove arriva a servirlo una cameriera. L’uomo, che sta per recarsi a una conferenza letteraria, dapprima osserva la donna e ne fissa i particolari che la definiscono. Poi passa a sentire gli odori, sudore e sapone. Poi la esplora sotto gli abiti finché la donna non si rende conto del suo sguardo lascivo e gli lancia un’occhiata torva. Così lui abbassa lo sguardo e riprende la sua aria educata. Ordina, ma comincia a immaginare il primo amore di questa cameriera, la vede a sedici anni, e vede lui, il portiere di una squadra di non so bene cosa. Avrete capito insomma, la storia aggancia altre intuizioni e diventa altre storie…. La conclusione che si può leggere è: “Vede lui forse cose che noialtri non vediamo ancora?” (lo scrittore, questo guardone…)
Questa è stata una pietra ti mi ha colpito dritto in testa: è un vizio che ho sempre avuto quello di osservare, posso perfino sembrare maleducata. Io guardo guardo… al ristorante, sul bus, per strada, a volte non mi rendo neanche conto, e in questo caso la spugna assorbe il libro del mondo, come lo chiamava… chi era? Goldoni?

La scrittura è arrivata con la maturità, quando quell’ombra implacabile alle mie spalle ha cominciato ad allungarsi tanto da offuscarmi. Così ho dovuto affrontarla: va bene, vuoi che ti dica che hai vinto? E sia! La chiudo quella maledetta porta, mi siedo in questa stanza, contenta? L’ho fatto. Vuoi proprio spingermi in questo baratro solitario? Eccomi allora.
Accontentata! Ma bada, io non la faccio quell’attività di ragioniere che fanno gli scrittori, ho avuto ed ho una vita tumultuosa io!
Macché. La donna sta lì, affatto spaventata dalle mie minacce, sorniona. Lei lo sapeva meglio di me quel che sarebbe accaduto.

Ho cominciato a scrivere.

Il magma messo insieme nell’arco della mia esistenza costituiva la tela, ciò che dovevo fare era smettere di ascoltare e cominciare a parlare.
Così è nato il mio primo libro, Il mistero della casa del vento, una bella idea trattata male, e poi il secondo, che ho appena finito di scrivere. Io non ho il vuoto della pagina bianca, io non invento i personaggi, sono loro che vengono a cercarmi e mi raccontano la loro storia. Io scrivo di getto e velocemente. Quello che faccio davvero è rileggere e revisionare. Su questo lavoro molto.

Da ultimo, una sola cosa voglio aggiungere a questo anomalo intervento fuori dal coro: il mio primo  romanzo sono storie di donne, pecca di ingenuità, come mi ha detto qualcuno, ne sono sempre stata consapevole. Ma una soddisfazione l’ho avuta: oltre agli apprezzamenti inaspettati che mi sono arrivati, dal romanzo è stata tratta una drammaturgia che è andata in scena. Io ero spaventata: teatro di parola? E chi lo regge? Ma dopo la prima replica con tutto esaurito, ne abbiamo dovuto programmare altre.

Poiché sulla scena il testo non mi apparteneva più, quello che ho pensato – sulla scia delle vibrazioni di un pubblico attento – è stato: ma chi lo dice che le belle parole annoiano, o non piacciono? Chi lo dice che se non si parla di morti ammazzati e umanità sbandata non si possano raccontare storie di ordinaria follia puntando non solo e non tanto sulla trama ma sull’intensità del linguaggio? La risposta stava in quelle facce, che non sono elementi del mercato editoriale ma persone in carne ossa e sangue.
Uscendo, la sera dello spettacolo, un uomo che non conoscevo mi ha ringraziato, e un altro mi ha detto: “è stato come entrare in un mondo di donne e conoscerle, ci sono cose sulle quali non avevo mai riflettuto.”
Mi ha resa felice.

Sono una scrittrice? Davvero non lo so.

L’amore è il cuore di tutte le cose

1507613_670067606382846_1106588751_n1959406_670067569716183_951223568_nDashiel Hammett e Lillian Hellman: storia d’amore e di impegno di due americani scomodi

Entrambi americani, lui è uno scrittore giallista che diventò popolare come sceneggiatore ad Hollywood negli anni Trenta, lei scrittrice che vinse un premio Pulitzer con Piccole volpi nel 1939, scrisse soprattutto per il teatro prima e per il cinema poi, testi avventati per quegli anni.
Negli anni Trenta inizia la loro relazione, durata trent’anni, segnata per entrambi dall’impegno letterario ma soprattutto dall’attivismo politico che causerà loro non pochi problemi. Siamo infatti negli anni della commissione del senatore Joseph McCarthy: nel 1951 Hammett viene imprigionato per essersi rifiutato di fare i nomi di amici e colleghi iscritti al Partito Comunista americano. L’anno successivo toccherà anche alla Hellman, la quale però, pur rifiutando di fare nomi, verrà rilasciata. Tuttavia Hollywood chiuse loro le porte e vissero per un lungo periodo tra difficoltà economiche e di lavoro. Di fede più radicale lui di lei, Dashiel spesso era polemico con Lillian, perché una donna che non si sarebbe mai ”impegnata” si trovava davanti a un uomo che lo era. Per Hammett la fede socialista era un modo di vivere:

“Lilly, quando saremo all’angolo tu dovrai fare la tua scelta sul fatto che io me ne devo andare per la mia strada. Tu per me sei stata, più di… più di qualcosa di ‘positivo’ o altro, ma ora io sono nei guai e per te sono un peso. Non avrà mai niente da rimproverarti se ora te ne vai. Ma se non lo fai, allora questo tipo di conversazione non deve più ripetersi.” Quando arrivammo all’angolo io cominciai a piangere e anche lui sembrava sul punto di farlo. Non ero capace dì parlare, cosi lui mi toccò sulla spalla e se ne andò. Stetti ferma su quell’angolo finché non lo scorsi più e poi cominciai a correre. Quando lo raggiunsi, mi disse: “Non penso a bere da anni. Ma ora ne ho proprio voglia. Comunque andiamo, che ti offro da bere.”(da Una donna incompiuta di L. Hellman)

Dashiel Hammet morirà di cancro nel 1961, Lillian Hellman nel 1984.

“Oggi ne so poco sulla natura del’amore romantico, quando a 18 anni, ma conosco la gioia profonda di un interesse costante, l’eccitazione di voler far sapere cosa un altro pensa, farà o non farà. La corta funicella che gli anni trasformarono in un grosso cavo e che nel mio caso penzola ancora qui, sciolta, tanto tempo dopo la sua morte.” (da Una donna incompiuta di L. Hellman)

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Audrey Hepburn e Shirley Mc Laine in The children’s hour di L. Hellman

L’AMORE E’ IL CUORE DI TUTTE LE COSE

andreLettera a D. (Storia di un amore): André e Dorinne

Dopo la storia di Majakovskij e Lili Brik, anche questa storia termina con un suicidio: dunque l’amore che anima le esistenze è destinato ad essere tragico? NO, perché prima dell’atto estremo, quella vita e quella storia hanno avuto un percorso e quindi vita. Hanno dato ispirazione, coraggio, condivisione, gioia e dolore . Quindi vita. Hanno reso quelle esistenze eccezionali. Quindi vita. Hanno dato perfino alla morte un senso. Quindi, vita.

gorzLettera a D. è un piccolo libro pubblicato da Sellerio in cui il filosofo contemporaneo Andrè Gorz (uno dei profeti del Maggio francese) ripercorre il lungo legame con la moglie Dorinne, per riconoscere all’amore il primato di sostanza e verità. Dunque, vita.
Andrè è morto suicida nel 2007 insieme alla moglie Dorine, affetta da malattia degenerativa, e Lettera a D. è la sua ultima opera:

“Hai appena compiuto ottantadue anni. Sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Recentemente mi sono innamorato di te un’altra volta e porto di nuovo in me un vuoto divorante che solo il tuo corpo stretto contro il mio riempie. La notte vedo talvolta la figura di un uomo che su una strada vuota e in un paesaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Sei tu che il carro trasporta. Non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri (…) Spio il tuo respiro, la mia mano ti sfiora. Ci siamo spesso detti che se per assurdo avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme. (21 marzo-6 giugno 2006)

La risata sanizza di Annarella

foto_toto_33Il 26 settembre 1973 moriva Anna Magnani. Io che non sono granché con i numeri ho dovuto fare il calcolo per dedurre che sono passati già 45 anni, tanti.
Lo dico con tristezza, perché certi talenti mancano più di altri. Se mi fermo a pensare alle attrici italiane, non mi viene in mente un’attrice che almeno un po’ abbia qualcosa della sua grandezza. Appaiono tutte icone frigide, bravine a interpretare loro stesse.
E la malinconia cresce se penso che ai libri si dedica comunque uno spazio perché non muoiano nella nostra memoria, piccolo o grande quanto si vuole, mentre invece certi giganti con il trascorrere delle generazioni non trovano eco.
Nel mio piccolo ci provo – a scuola – a proporre ogni tanto qualche film, Bellissima di Visconti ad esempio o Roma città aperta. Ma mi piacerebbe ad esempio far vedere Risate di gioia, un film del 1960 di Mario Monicelli in cui la Magnani è nientepopodimeno con Totò, unico fil girato insieme, una commedia.
Annarella stava tutta  nella sua risata e in quella risata lei era bella, femmina, sensuale. Non mi viene in mente la risata di un’attrice altrettanto potente ed espressiva.
Ad Anna Magnani ho dedicato il mio primo romanzo, Il mistero della casa del vento, e non solo perché la protagonista si chiama Anna (avevo bisogno del palindromo) ma perché il libro, che racconta storie di donne, eroine nel loro quotidiano, si conclude con una risata. Le due protagoniste Anna&Anna alla fine semplicemente ridono.
È esattamente a lei che ho pensato, tanto che quando l’ho presentato cercavo un aggettivo per definire quella risata, ma me ne veniva solo uno, un termine dialettale calabrese: SANIZZA.
Sanizza è intraducibile, si avvicina al significato di sanguigna, sana, saporita, evoca che so… un paninazzo che vi lascia soddisfatti in pieno, per intenderci.

Insomma, il 26 settembre per me è un giorno un po’ triste per un motivo strettamente personale ma quando ci penso, penso anche a lei, come se mi mancasse una di famiglia.

Vincenzo Cerami

602998_555944801130388_117380924_n-2«Uno scrittore non può fare a meno di attingere a questa zona muta dei suoi personaggi. In fondo il suo mestiere è proprio questo: far emergere in superficie quanto gli uomini rimuovono. Il suo sembrerebbe quasi un ruolo terapeutico. L’umanità racconta i suoi segreti solo attraverso l’arte».

Vincenzo Cerami, “Consigli a un giovane scrittore”, Torino, Einaudi, 1996, p.115

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