Capita di sentirmi definire “una scrittrice” e io mi volto d’istinto per vedere chi c’è dietro di me. Non è finta modestia, è proprio sano pudore. Se penso alla parola scrittrice mi vengono in mente uno stuolo di nomi e il mio non c’è: Virginia Woolf, Simone de Beauvoir, Doris Lessing, Elsa Morante, Anais Nin, Clarice Lispector, per citare i primi che mi vengono in mente.
Io ho solo pubblicato un libro con un piccolo e dignitoso editore, quasi casualmente (avevano letto un racconto e si sono presi il libro). Scrivo su blog, ne ho uno mio, ho collaborato in passato con qualche rivista, ho vinto concorsi letterari, pubblicato qualche racconto in antologie. Ma a quanti succede? Resteremo a futura memoria? Non credo. Ecco, forse perché ho un rispetto quasi reverenziale per la letteratura, per me gli scrittori stanno in quel tempio. Quel che succede ai comuni amanti della scrittura come me è molto lontano.
Dunque che ci faccio qui? Anche questo è un tempio. Confesso non mi sento a mio agio. Forse la mia alla fine sarà solo una provocazione: quand’è che ci si può definire “scrittrici” o “scrittori”?
Io avrei una risposta: quando l’attitudine alla scrittura è totalizzante, viene davanti a tutto. E questo non è il mio caso, o meglio, non lo è stato finora nel mio mezzo secolo di vita. Pertanto offro qui il mio punto di vista e la mia esperienza.
La mia formazione di “scrittrice mancata” (ma ancora non è detto) è arrivata molto presto in modo esaltante e indolore: non ho conosciuto lacrime e sangue né vomito e ambienti malfamati anzitempo, ma sogno, immaginazione e mondi diversi dal mio. Cominciò a circa otto anni, quando mi fu regalato un piccolo libro del quale ricordo soltanto il titolo “Lodoletta”, poco più che una fiaba, ma era un libro rilegato e con molte pagine: quella consistenza tra le mani mi fece sentire grande. Non ricordo la storia, ma ricordo benissimo che iniziai a leggerlo di pomeriggio e al mattino, per poterlo finire, mi inventai di star male per non andare a scuola. Trascorsi la mattinata nel cucinotto di casa seduta su una piccola sedia impagliata con mia madre che sfaccendava intorno ed io immersa nella lettura. Ho alzato gli occhi dal libro solo quando arrivò la parola fine sull’ultima pagina.
Una volta spiato in quel mondo, io non ne sono più uscita. Ho ben stampate nella memoria certe avventure domenicali, quando in grigie giornate di pioggia mi sdraiavo sul lettone dei miei e le voci della mia numerosa famiglia diventavano un sottofondo alla lettura. Diamine come sono stata male quando ho finito I ragazzi della via Pal! (mi succede ancora oggi quando finisco di leggere un libro, soffro di una forma di jet lag, prima di passare a quello successivo, oltretutto mi sembra di tradire un libro con altro.)
Fuori da quel mondo comunque ero una bambina normale: allegra, creativa, un tantino iperattiva forse, piena di idee e iniziative, una di quelle che cerchi perché insieme ci trascorri bel tempo insomma. Scrivevo piccole poesie che la maestra elogiava, ma la cosa non mi lusingava affatto, anche perché non amavo quella donna severa.
Crescendo sono arrivati i libri seri, progressivamente più impegnativi. Leggevo di tutto, tanti, uno dopo l’altro, ingoiavo Tolstoj come i Gialli Mondadori, i neorealisti italiani come Agatha Christie. Eccetto Liala e la fantascienza che proprio non ho mai digerito, andava bene tutto, fumetti compresi, complici un padre e un fratello lettori.
Al liceo poi ci sono stati i grandi incontri. La letteratura con la L maiuscola, e cominciai anche a covare una certa predilezione per le autrici più che per gli autori, forse perché gli anni settanta qualcosa in eredità mi avevano lasciato. Tuttavia se mi chiedessero di spiegare l’esistenzialismo lo farei malissimo pur avendo letto a quindici anni La nausea di Sartre volando.
Questa è una caratteristica che ha influenzato la mia vita e il mio lavoro: sono una spugna. Mi immergo e mi impregno completamente fino a essere piena, salvo poi svuotarmi per essere di nuovo pronta a un’altra immersione. Non trattengo quasi mai nulla, o poco, di quel che leggo, per cui non saprei fare sfoggio della mia cultura, non potrei. Io passo prendo mangio e vado oltre, avida, curiosa di tutto, ma senza un obiettivo tranne che placare il mio pensare veloce, conoscere, dedurre, fare esperienza.
E dunque? La scrittura? C’è sempre stata, ho sempre scritto ma senza mai un ordine: lettere, temi scolastici per altri, manifesti (allora si chiamavano tazebao) storie improbabili. Ho sempre difettato in ambizione o voglia di espormi e ancor peggio, vincere. Io volevo vivere, la scrittura è sempre stata uno spettro in agguato: avevo il terrore che si impossessasse di me.
In compenso – so che è difficile crederci – la mia scrittura ha contribuito a “salvare” persone (amici, parenti, fidanzati, amanti) da crisi, da angosce, da dubbi, da insicurezze o semplicemente dalla noia, difficile che parlassi troppo, in compenso scrivevo. Ho scritto centinaia di lettere. Quando ci penso adesso mi dà quasi fastidio che tanti pezzi di me siano sparsi in giro. Herzog, il protagonista del romanzo di Saul Bellow, passa la vita a scrivere lettere che poi non invia. Io non sono stata abbastanza furba da conservarle e farci un romanzo epistolare, e, quel che è peggio, io quelle lettere le ho recapitate tutte.
Potessi riaverle sarebbero un libro e perché no? Un manuale per giovani e saccenti psicologi “Come non farsi prendere per i fondelli dai propri pazienti e porre un limite alla propria onnipotenza”.
La scrittura era là, una donna implacabile con lo sguardo duro di Marlene Dietrich che mi aspettava, lo sapeva, lei, che avrei smesso di avere gambe e le avrei appese al cervello.
Tra i manuali per aspiranti scrittori ho letto tutto quello che c’era da leggere (o quasi) per desistere: Amos Oz, Vargas Llosa, fino a un piccolo libriccino di Erri De Luca dall’illuminante titolo “Tentativi di scoraggiamento (a darsi alla scrittura)”.
Una cosa mi ha colpito, strano me la ricordi per una che non trattiene niente: Amos Oz nel suo “La vita fa rima con la morte”, descrive uno scrittore in sosta a un piccolo caffè dove arriva a servirlo una cameriera. L’uomo, che sta per recarsi a una conferenza letteraria, dapprima osserva la donna e ne fissa i particolari che la definiscono. Poi passa a sentire gli odori, sudore e sapone. Poi la esplora sotto gli abiti finché la donna non si rende conto del suo sguardo lascivo e gli lancia un’occhiata torva. Così lui abbassa lo sguardo e riprende la sua aria educata. Ordina, ma comincia a immaginare il primo amore di questa cameriera, la vede a sedici anni, e vede lui, il portiere di una squadra di non so bene cosa. Avrete capito insomma, la storia aggancia altre intuizioni e diventa altre storie…. La conclusione che si può leggere è: “Vede lui forse cose che noialtri non vediamo ancora?” (lo scrittore, questo guardone…)
Questa è stata una pietra ti mi ha colpito dritto in testa: è un vizio che ho sempre avuto quello di osservare, posso perfino sembrare maleducata. Io guardo guardo… al ristorante, sul bus, per strada, a volte non mi rendo neanche conto, e in questo caso la spugna assorbe il libro del mondo, come lo chiamava… chi era? Goldoni?
La scrittura è arrivata con la maturità, quando quell’ombra implacabile alle mie spalle ha cominciato ad allungarsi tanto da offuscarmi. Così ho dovuto affrontarla: va bene, vuoi che ti dica che hai vinto? E sia! La chiudo quella maledetta porta, mi siedo in questa stanza, contenta? L’ho fatto. Vuoi proprio spingermi in questo baratro solitario? Eccomi allora.
Accontentata! Ma bada, io non la faccio quell’attività di ragioniere che fanno gli scrittori, ho avuto ed ho una vita tumultuosa io!
Macché. La donna sta lì, affatto spaventata dalle mie minacce, sorniona. Lei lo sapeva meglio di me quel che sarebbe accaduto.
Ho cominciato a scrivere.
Il magma messo insieme nell’arco della mia esistenza costituiva la tela, ciò che dovevo fare era smettere di ascoltare e cominciare a parlare.
Così è nato il mio primo libro, Il mistero della casa del vento, una bella idea trattata male, e poi il secondo, che ho appena finito di scrivere. Io non ho il vuoto della pagina bianca, io non invento i personaggi, sono loro che vengono a cercarmi e mi raccontano la loro storia. Io scrivo di getto e velocemente. Quello che faccio davvero è rileggere e revisionare. Su questo lavoro molto.
Da ultimo, una sola cosa voglio aggiungere a questo anomalo intervento fuori dal coro: il mio primo romanzo sono storie di donne, pecca di ingenuità, come mi ha detto qualcuno, ne sono sempre stata consapevole. Ma una soddisfazione l’ho avuta: oltre agli apprezzamenti inaspettati che mi sono arrivati, dal romanzo è stata tratta una drammaturgia che è andata in scena. Io ero spaventata: teatro di parola? E chi lo regge? Ma dopo la prima replica con tutto esaurito, ne abbiamo dovuto programmare altre.
Poiché sulla scena il testo non mi apparteneva più, quello che ho pensato – sulla scia delle vibrazioni di un pubblico attento – è stato: ma chi lo dice che le belle parole annoiano, o non piacciono? Chi lo dice che se non si parla di morti ammazzati e umanità sbandata non si possano raccontare storie di ordinaria follia puntando non solo e non tanto sulla trama ma sull’intensità del linguaggio? La risposta stava in quelle facce, che non sono elementi del mercato editoriale ma persone in carne ossa e sangue.
Uscendo, la sera dello spettacolo, un uomo che non conoscevo mi ha ringraziato, e un altro mi ha detto: “è stato come entrare in un mondo di donne e conoscerle, ci sono cose sulle quali non avevo mai riflettuto.”
Mi ha resa felice.
Sono una scrittrice? Davvero non lo so.