La malinconia per me non è un sentimento negativo, arriva ogni anno su un vagone che si chiama Novembre. Ha la bellezza delle foglie un attimo prima che cadano, dei cieli tersi quando il tempo è sereno, della pioggia che ci racconta l’inverno che verrà.
Su quel vagone la malinconia ci conduce in un luogo dove siamo già stati e nel quale ci sentiamo al sicuro, lontani dal chiasso.
Quando ero bambina novembre era l’estate di San Martino. Nei miei ricordi ci sono giornate di sole e i giorni di vacanze, i biscotti che si mangiavano caldi, appena sfornati. Profumavano di zucchero e madre.
Il due di novembre, giorno dei morti, mi portava con sé al cimitero, andavamo innanzi tutto a trovare il nonno, suo padre. È stato così che ho fatto amicizia con la morte: andando su e giù per le tombe seguendo mia madre che lasciava fiori nei vasi già colmi. Non avevo ancora chiara la percezione di cosa significasse perdere qualcuno. Quando era morto mio nonno per me era un bel vecchio elegante, mi portarono a vederlo e lei, mia madre, volle che gli dessi un bacio. Non mi piacque affatto baciare quella pelle fredda, ma non piansi. Credo pensai fosse normale che si potesse morire alla sua età.
Così di fronte alla sua foto sulla lapide stavo tranquilla, aspettando che mia madre pregasse. Invece ero invece attratta da ciò che succedeva intorno: donne anziane vestite di nero, molte si portavano una sediolina da casa e stavano sedute di fronte a una tomba. Piangevano, accarezzavano la foto e avevano grandi fazzoletti di cotone per asciugare le lacrime. Qualcuna recitava litanie così laceranti da spezzare l’aria in due, perfino troppo, almeno per me. C’erano fiori di ogni tipo e colore, profumi intensi e centinaia di candele accese. In alcuni vicoli al contrario regnava il silenzio, forse morti antichi che nessuno piangeva più.
Mia madre mi teneva per mano per timore che potessi perdermi nella confusione. Aveva fiori per ogni tomba dove ci fosse qualcuno da ricordare in quel giorno, ma quelli più belli erano per sua madre, che aveva perso da ragazza. All’epoca non capivo perché non stesse accanto a mia nonno, suo marito. Lei non l’ho conosciuta, è rimasta una foto ovale in bianco e nero, un viso ignoto che non ho mai collocato nello spazio e nel tempo.
Di ritorno dal cimitero, dove si andava a piedi lungo una strada di campagna, c’erano ancora biscotti e la tv dei ragazzi, un giorno di festa come si deve.
Poi per molti anni, da ragazza e da adulta, ho smesso di andare al cimitero e novembre era solo novembre. Da bambina potevo essere amica della morte perché non la comprendevo. Crescendo l’idea del nulla dopo la morte non mi ha mai portato e cercare un contatto con il marmo freddo, unitamente a un certo rifiuto della ritualità.
Invece un giorno ci sono tornata, in quello stesso cimitero dove andavo da bambina con mia madre. C’era il sole e la collina era rivolta verso il mare, una striscia visibile all’orizzonte tra gli ulivi. Credo però siano stati i ranuncoli gialli in fiore, avevano un’aria così festosa, come la primavera che stava per arrivare. La foto di mio padre mi sorrideva, quella l’ho scelta io perché è una delle rare foto in cui quel ragazzo diventato uomo troppo presto sorride. Al contrario di mia madre, che sorridente era di natura, ed è così che abbiamo voluto la vedesse chiunque arrivasse e portarle un saluto. Ha il rossetto rosso, il suo colore preferito ed è bella e vanitosa così com’era in vita.
Da quel momento al cimitero ci sono tornata spesso. Ho fatto pace con l’idea che loro abitassero lì. Talvolta sono andata a parlarci e quel marmo ogni volta era meno gelido. È vero che noi umani abbiamo bisogno di consolazione quando le persone care non ci sono più accanto. Ma è così che si fa, mi sono detta.
Ogni volta nel tragitto vago con lo sguardo tra le foto e le date, osservo la morte naturale nel suo ciclo di vita e quella implacabile senza possibilità di consolazione.
Quando vado via il sole e gli ulivi sembrano dire che quello in fondo è un bel luogo dove riposare. E mi dà un senso di pace.
E tutte quelle vite, decine, centinaia, migliaia di vite, sembrano sussurrare alle mie spalle: “Torna a trovarci qualche volta. Ti offriremo dei fiori, qualche ricordi e un caffè”. Anche se non sarà novembre.
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