UN ROMANZO DI LUOGHI E PERSONE

Recensione

Questo romanzo, fatto di luoghi e di persone, racconta la nostra Calabria incastonata in una storia che evolve con essa nella trasformazione del territorio, nell’inevitabile fluire del tempo fatto di un “prima” (passato), di un “adesso” (presente) e di un “poi” (futuro). I luoghi della Calabria, dunque, fanno da cornice ai fatti raccontati e al tempo entro al quale si svolgono.

Il tempo del “prima”, risalente agli inizi del Novecento, porta con sé un racconto soffiato dal vento impetuoso di Sovara e srotolato, tra le generazioni, per dare testimonianza dei luoghi che, pur abbandonati, possiedono una storia che li preservano dalla morte.

Storie amare quelle di un tempo. Il tempo dei nostri contadini e pastori che, sotto il peso delle fatiche, vivevano di stenti e privazioni resi ancora più duri da una sorta di individualismo rafforzato nella nostra Calabria dalla montuosità del territorio e dalle sue terre non sempre generose.

Dal tempo del “prima” si appropria quello dell’“adesso”. Il tempo nostro dei luoghi, dei paesi che subiscono l’abbandono, come quello di Sovara, protagonista di uno spopolamento sempre più incalzante dei comuni montani del nostro Paese, diventati nel tempo dei veri e propri ghost town. Oltre questo tempo, si desume che all’autrice piaccia pensare a quello di un “poi”, speranza auspicabile di un ripopolamento dei paesi che, fra le altre cose, attraverso varie strategie politiche, sembra stia già avvenendo in borghi abbandonati, Pentedattilo o Laino Castello sono tra questi.

Un’impresa difficile ma non impossibile perché i luoghi vivono fino a quando le persone sono legate ad essi. E il ritorno è sempre cambiamento, una sfida verso il luogo natio che non è più lo stesso; lo sa bene Cettina, una delle protagoniste del racconto così come tutte quelle persone che guardano alle proprie radici indossando quegli occhiali che solo una vita trascorsa lontano dalle proprie origini ti può donare.

Le migrazioni di “prima” e quelle di “adesso” entrambe legate dalle medesime motivazioni di chi è costretto ad abbandonare luoghi “vivi” per un “altrove” che, pur benevolo, è privo di memoria, di legame fisico e affettivo; di chi ha voglia, dopo essere partito, di tornare, consapevole che pur nella rovina delle cose, a causa dell’abbandono, ha la possibilità di riconnettersi con un passato che dura attraverso le cose nel presente. Filo sottile teso dal ricordo dei padri.

Da questi luoghi carichi di senso, sgusciando, prendono forma le persone e tra queste due donne sono le protagoniste: Cosma e Cettina; vittime della povertà e di una cultura patriarcale che condanna il genere femminile, a ruolo di sottomissione, mediante la violenza fisica o psicologica.

E poi ci sono gli uomini, a mio avviso, i veri perdenti perché escono da questa vita nella maniera più triste che un essere umano possa affrontare, ossia quella della solitudine e dell’abbandono.
Questa sarà la sorte di don Natale che rimasto solo, dopo che la morte avrà falciato la sua intera famiglia, vivrà la sua estrema ora nel buio di una notte solitaria, in compagnia del suo solo fantasma che gli è sempre accanto, vigile a ricordare il male commesso e non lo lascerà fino al suo ultimo istante di vita. E quella del padre di Cettina, nonché marito di Elvira, che trascorre la sua esistenza a riempire con la forza e il potere il proprio serbatoio affettivo, ignaro che questi mezzi non ripagano con il calore dell’affetto, perché l’amore non lo si può ottenere attraverso la paura. Egli, infatti, trascorrerà gli ultimi anni della sua vecchiaia a brancolare nel buio della sua mente dopo aver fallito nel suo ruolo di marito e in quello genitoriale, condizionando fortemente la figlia Cettina nelle sue scelte di vita.

Il romanzo è reso ancora più intenso dall’utilizzo della tecnica del flashback che, intrecciando il presente con il passato, dà al lettore la possibilità di comprendere vite lacerate, percorsi di crescita segnati da paure e conflitti che ostacoleranno per sempre la possibilità di un vivere sereno.
Ciononostante, non bisogna darsi per vinti. Commuovente è il ritorno della protagonista al suo paese. La sua esperienza di violenza psicologica e fisica avrà un impatto notevole sulle sue scelte di vita che la renderanno un personaggio resiliente poiché, mettendo insieme i frammenti della sua anima, sarà in grado di gestire le sue emozioni con una forza di volontà tale da intraprendere un nuovo cammino, quello del ritorno.

Ed è questo un ritorno obbligato anche per tutti coloro che vanno alla ricerca di sé stessi, di verità profonde, parti preziose dell’io che a volte gli uomini perdono nell’oscurità della notte, ritrovandosi esseri fragili a causa delle miserie umane.

Di grande significato è il romanzo di Daniela Grandinetti, la sua lettura ci mostra le “acrobazie” della vita nella notte buia, ma anche il desiderio di profumi e colori naturali che riportano al meraviglioso mondo dell’infanzia, mentre gli occhi rimangono impigliati tra il luminoso chiarore della luna.

Teresa Sinopoli (Docente di Lettere)

Fadia: un romanzo d’amore e di viaggi

Com’è una storia d’amore che non ti aspetti? È quella che racconta Sandro Gioffré nel suo ultimo romanzo Fadia tra un “mulo” e una novizia.

I “muli” sono i figli di una terra, la Calabria, che per fare strada devono scalciare, masticare polvere, erba e veleno, ma in quanto muli sono testardi e mirano al riscatto, tirano dritto senza contare le volte che hanno dovuto battere la testa, piangere di dolore e di rabbia. Figli non riconosciuti dai padri e non desiderati da madri costrette. Sono coloro che si imbattono nelle regole del tu vieni dopo, per ultimo, perché non sei nessuno e devono ingoiare fiele per fare quello che desiderano, nel caso del protagonista, il “mulo di questa storia, il medico.

Con un sapiente espediente letterario il romanzo inizia da una fine, perché è quando stiamo per perdere tutto che lottiamo ostinatamente per tenerci la vita, i sogni, i desideri, le illusioni, tutto ciò che è rimasto insoluto e inappagato. E forse solo così la vita torna.

Il “mulo” è Andrea Bisi il quale anche grazie a un insegnante dall’esistenza complessa che, come un marchio, gli lascia in eredità la storia di una passione (quella tra la principessa Spinelli e il compositore Giavanbattista Pergolesi) diventa medico nonostante il baronato.

Andrea trova la sua principessa, bellissima e inafferrabile: Fadia. Se ne innamora, lei è promessa a Dio, è una novizia cattolica in terra siriana. La perde.

Nel perderla Andrea perde anche il mondo che intimamente cerca, le voci della grotta dov’è cresciuto lo raggiungono anche quando sono lontane nel tempo e nello spazio, quando avrebbe dovuto e potuto dimenticarle. Ma non si cambia la sostanza di cui siamo fatti.

Andrea cercherà Fadia, tornerà in Siria (che l’autore conosce bene per esserci stato) ricca di bellezze, di monumenti e fascino religioso, là dove ha conosciuto Boulos Yazigi, arcivescovo di Aleppo: la ritroverà martoriata e succube di una guerra feroce, le cui atrocità non risparmiano nessuno.

Riuscirà a trovare Fadia?

Ho letto il romanzo di Santo Gioffrè rapita non solo dalla storia, ma anche dalle descrizioni di luoghi e situazioni che mi sono resa conto conosco molto poco. Sono partita in viaggio con Andrea Bisi, il protagonista.

Su tutto (la storia di riscatto, di ricerca, l’amore vero, quello autentico e passionale come la vita, come le scelte che ci conducono alle nostre “voci”, alla nostra sostanza) c’è anche la mancata storia d’amore tra un Oriente dalla storia millenaria in preda agli scenari di guerra dei quali si tace, a scapito di altre guerre che ci sembrano più “nobili” perché c’è in ballo il nostro Occidente: un filo spezzato tra due mondi che corrono distanti verso l’autodistruzione e non conoscono la comprensione, la storia, ciò che lega un uomo e una donna e un mondo all’altro mondo.

“In quella grotta, la sua grotta, trascorreva le notti di tempesta: le pecore, come in un’immagine sacra, gli fornivano il tepore necessario. Fantasticava su tutti gli incomprensibili segni incisi su quelle pareti. Quando era stanco, trovava conforto nel passare il dito indice su quelli che nella sua ingenuità chiamava semplicemente disegni (..) pensò perfino che un altro bambino, prima di lui, avesse abitato in quella grotta disegnandone le pareti. (..) quando entrava in quella grotta, ed era triste, il suo umore cambiava. C’era una sorta di protezione benevola, la sensazione di una pace antica voluta da esseri di altri mondi”

Un romanzo denso, intriso di spiritualità mai retorica, scritto con una prosa altrettanto densa e appassionata, che ho letto vivendo e viaggiando:

“Ora, nel momento dell’abbandono, sento le cicale cantare tra gli alberi d’ulivo, dove mi raccontavi che sta la sacra grotta. Sento i loro friniti e le vibrazioni delle ali, il canto che esprime la rinascita tra un ciclo naturale che si rinnova sempre, mentre io mi annullo. Come me, anche loro hanno vissuto una sola stagione, nell’estate più torrida. Loro si accoppiano e danno vita, morendo. Io nemmeno quella sono riuscita a dare.”

Fuori, mentre chiudevo le pagine di questa storia così bella e intensa, c’era il silenzio della notte, ma ugualmente ho ascoltato frinire le ciccale in questa strana estate che sembra non arrivare mai, anche se se ne sta lì, fuori dalla finestra.

Oltre il fragore della guerra, della malattia, delle vite spezzate, alla ricerca di quella intersezione con l’unico punto che ci può darci la sostanza di umani che amano e si toccano.

SANTO GIOFFRE’, FADIA, CASTELVECCHI EDITORI, 2022

SANTO GIOFFRÈ

Medico e scrittore calabrese, è stato consigliere nel suo comune di origine, Seminara, e assessore alla Cultura della provincia di Reggio Calabria. Nel 2015 è commissario straordinario dell’Asp reggina. È autore, tra gli altri, di Artemisia Sanchez (Mondadori, 2008) da cui la Rai ha tratto una fiction televisiva di grande successo. Castelvecchi ha pubblicato il romanzo L’opera degli ulivi (2018) e il saggio Ho visto. La grande truffa nella sanità calabrese (2020). Nel 2020 ha vinto il Premio CRONIN, mentre nel 2021 è stato proclamato Medico Scrittore dell’Anno e ha vinto il Premio Internazionale “Tulliola-Filippelli” per la letteratura.

aMalavita, la vita è quella che puoi amare dove è dato nascere

Antonio Cannone è giornalista e scrittore nato e vissuto a Lamezia Terme, in Calabria, ed io che leggo sempre volentieri quello che scrivono i miei conterranei per interesse personale, non potevo mancare l’appuntamento con il suo ultimo romanzo aMalavita, Edizioni Città del Sole.

Coincidenza è stata che ho iniziato a leggere il romanzo quando è uscita la famigerata intervista di Pietro Castellitto, diventata virale sui social per l’infelice affermazione di “Roma nord come il Vietnam”, sintesi e premessa della narrazione dell’adolescenza difficile del pargolo contenuta nel suo romanzo.

La cosa dapprincipio mi ha fatto sorridere, come del resto a molti, ma sulla scia della lettura delle pagine di aMalavita confesso mi ha fatto (lo dico) incazzare. Il motivo è presto detto: nel romanzo di Antonio Cannone c’è la storia di un’infanzia in Calabria dove Totò, il protagonista, cresce in un quartiere della città vecchia e qui ha le sue prime esperienze amorose, i suoi amici fedeli, la sua famiglia, ma soprattutto scopre quanto in certe realtà la vita diventi una questione di scelte indotte, mai veramente libere: quando la delinquenza è la tua vicina di casa è inevitabile che l’amico cresciuto con te, che pensavi immune, cada nella trappola.

Totò la ‘ndrangheta che altri leggono sui giornali la respira, la vede, la conosce nella sua evoluzione: sa come gli uomini affiliati si muovono, tessono relazioni, incidono sul territorio e comandano muovendo i fili delle vite altrui.

Totò cresce con mille domande in testa e nessuno che dia le risposte, così lui se le cerca da solo, lui, che pure ha una famiglia alle spalle con una storia diversa da quelle che lo circondano, vuole capire, sperimentare, indagare (diventerà giornalista da grande?)

Così accade che in questi quartieri, cresci con il figlio del medico e del professore e con il figlio della povertà che si lascia abbacinare dal potere e dai soldi e quindi dalla malavita: sono tutti allo stesso nastro di partenza ma non sono e non saranno uguali.

Esemplare è la storia di Rosa, figlia di Annina (e padre sconosciuto) prostituta per necessità che fa prostituire Rosa stessa, una ragazza sveglia e ribelle che potrebbe creare problemi al manovratore e viene mandata via, finisce in un convento, a vivere sofferenze indicibili proprio nel luogo dove al contrario avrebbe dovuto trovare “protezione”.

Un romanzo di formazione che non fa sconti a nessuno, Chiesa e politica, la cui lettura è stata scandita dall’emozione di vivere una storia ambientata nella mia città, in quei vicoli dove io stessa sono cresciuta e ho maturato convinzioni ed esperienze su cosa sia l’emarginazione.

La storia di Totò (scritta con uno stile rapido e fluido) è la storia di Antonio Cannone e di molti della mia generazione che quei luoghi e quei tempi li hanno vissuti con percezioni diverse a seconda del “quartiere in cui sono nati”, molti probabilmente non ne hanno neanche contezza, cresciuti in nidi dorati lontani da quelle realtà.

“Ehi, che vuoi fare la rivoluzione? Occupi le scuole, fai sciopero contro la guerra, la mafia, protesti di qua e di là. Che vuoi fare l’intellettuale dei miei coglioni? Quelli come te non sanno un cazzo della vita reale. Ricordati che quegli amici sono persone perbene. Hanno un codice d’onore e sono gente di rispetto. Qui lo sai che non cambierà mai niente e che le cose si sistemano solo se appoggi determinate persone anche in politica. Solo loro, quelli che tu sai, possono farci vedere un po’ di luce di paradiso. Qui il lavoro lo dà solo chi sappiamo. Anche quelli che tu reputi puri si rivolgono ai mafiosi, come li chiami tu. Sei un ingenuo caro mio. Non hai capito niente. Se non c’è lavoro che c’entra la legalità? Qua la legalità la facevano solo i morti, per questo non ci sono più.”

Parole di Franchino, che a differenza di Totò, non si salva (o si salva a modo suo) in un mondo a dimensioni ridotte nel quale aMalavita ha un duplice significato, e non a tutti è consentito di amarla, la vita (o magari la ama a modo suo).

Antonio Cannone, aMalavita, Città del Sole Edizioni

Antonio Cannone, giornalista professionista e scrittore. È stato caposervizio delle pagine di cronaca, economia e politica del quotidiano “il Domani della Calabria”; nonché coordinatore editoriale del settimanale “il Domani del Lunedì”. Autore e regista di numerose inchieste televisive sociali, politiche e sulle minoranze etniche calabresi. È stato redattore del Tg calabrese di Vuellesette Cinquestelle. Ha fondato il primo Centro Informagiovani della Calabria, ricoprendo il ruolo di esponente del Coordinamento nazionale sistemi informativi giovanili-Area Sud. Esperto in Piani di comunicazione e consulente sui temi della legalità per produzioni televisive e convegni. Collabora con giornali e tv. Ha scritto romanzi e saggi ottenendo numerosi riconoscimenti. Per Città del Sole Edizioni ha pubblicato “Gli Intrusi. Fascino mortale” (2014) per il quale ha ricevuto il Premio Letterario internazionale Holmes Awards Napoli 2018 per l’Alto Merito Narrativo. Ha inoltre ricevuto la menzione d’onore del Premio Letterario internazionale Metamorfosi 2020 per l’opera inedita “aMalavita”.

Link di presentazione del romanzo in cui si parla dei ragazzi di strada

https://www.youtube.com/watch?v=lWmCKCSoTS4&ab_channel=cristianpalaia

Su La Malasorte

Io stavo qui a rimuginare e mi sono detta: non pensare, scrivi.

Cosma non era in assoluto la protagonista del romanzo La malasorte, eppure, suo malgrado, lo è diventata. Il fantasma della ragazza con la gonna nera che corre per i vicoli di un paese ormai abbandonato è entrato nel cuore dei lettori molto più che le stesse protagoniste, Cettina e Tilde. Questo perché il suddetto fantasma ha posseduto me per prima e dunque in quanto figlia della mia immaginazione è sì prediletta. E traspare.

Un’amica in questi giorni mi ha detto: mi sono chiesta “ma perché questo richiamo al Verismo anche nel titolo, perchè questa immagine del sud, della Calabria, ancora vinta”?

La malasorte non è una storia di vinti, è una storia di violenze perdute e per me sta scritta nei paesi abbandonati, spopolati, senza più linfa.

E’ la storia di una fuga e di un ritorno (non il mio), di una resa dei conti con i fantasmi che aleggiano tra le pietre di muri diroccati, lasciati andare all’oblio.

Per chi lo ha letto la chiave è Tilde: è lei che mostra le bellezze di un luogo segreto a una Cettina stupita, lei – Tilde – che in una baracca sparita in quel luogo è stata partorita perché non si sapesse, figlia senza padre.

E Cettina, che pure lì è nata e cresciuta, di quel luogo non ha alcuna cognizione, di cosa si celi davvero dietro i vicoli e le strade, oltre i confini del visibile agli occhi, non sa nulla.

Il romanzo finisce una notte, quando le due donne si addormentano e anche Cosma, il fantasma che porta tempesta e malasorte, finalmente, può trovare la sua pace e, forse, smettere di correre.

Il sud, la Calabria ha bisogno di sonno. E di risveglio.

CAMMINARE A SUD

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Esci e hai voglia di riempirti gli occhi e il cuore, c’è un sole così pieno e discreto che camminare sarà una festa.
Il rumore dell’acqua del ruscello giunge allegro , è acqua che discende scaricando la sua forza a valle, argentata, con la sua impetuosità montanara.
Viene quasi voglia di tuffarsi in quell’acqua limpida, camminarci dentro, sui sassi lisci, puliti, levigati.
I balconi qui sono quadri dipinti, così fioriti, ricchi, colorati di tutti i colori che hanno i fiori nella loro stagione migliore.
Cammini e ti senti di visitare un mondo che sfiora la perfezione, è così come lo vorresti: tutto ti restituisce armonia, perfino il tè che prendi prima di metterti in cammino, così intenso e profumato, come la marmellata, che ha la giusta consistenza. Per fortuna che esistono posti così, posti nei quali sentirsi bene, umani, adeguati.
I sentieri poi sono segnati, puoi procedere tranquilla, le facce che incontri sorridono come la tua, ti salutano e tu rispondi, perché così si usa tra viaggiatori in cammino sui sentieri di montagna.
Molti usano le seggiovie o le funivie per andare in quota e godersi il sole, io preferisco sempre camminare, non amo le diavolerie come queste. Le apprezzo, ma non le amo. Non ho la smania di arrivare in vetta, di mettermi alla prova, le mie gambe fanno quello che sentono di fare e stop, quando non reggo mi fermo, mi siedo, mi guardo intorno, respiro, mi sento viva, avvisto, osservo i fiori e le piante spontanee. Guardo le cime maestose e mi sembra di essere appena un gradino sotto a D’io, che deve essere là, oltre quelle nuvole che squarciano un cielo cristallino, mollemente sbuffanti e così piene che pensi che lui da là osserva e sta comodo. Sì, D’io – se c’è – deve abitare qui e sorride paterno alle nostre ingenue fatiche di camminatori.
Quando la settimana in alta montagna è al termine, sei ritemprata e il tuo corpo ti ringrazia, tutto quassù è perfetto, hai speso bene i tuoi soldi, ovunque tu sia andato sei stato un turista soddisfatto.

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Invece camminare a sud è diverso, praticamente un altro mondo. Non è solo l’ambiente naturale che è differente, perché questo è assolutamente normale.
Il ruscello scorre sonnolento a valle, chiede acqua, eppure ti parla di freschezza nella sua ombrosità disordinata. Le sue parole sono prive di una qualsiasi articolazione regolare, è anarchico, dipende dal caso della pioggia, come del resto tutto qui.
Non ci sono nuvole immense, ma un cielo striato di un bianco puro che ti fa desiderare le nuvole, quelle vere, tonde e grasse. C’è una natura parsimoniosa intorno e ti arrabbi perché ne vedi l’abuso. Qualche rifiuto in giro, ad esempio, che ti dice che qui non ti vendono nessun quadro, nessun sentiero, nessuna merce di scambio.
007Qui se vuoi te la devi cavare, devi camminare e trovare la strada, magari perderti per poi ritornare.
Qui camminare richiede fatica, il respiro ha la difficoltà dell’ansia di qualcosa che sta lì in agguato pronto a colpirti: un cane randagio, un colpo di fucile, un sentiero sconnesso, perché è questo che ti raccontano del sud, tanto che ti si appiccica alla pelle e quando cammini è il tuo respiro che te lo racconta.
Qui camminare è “all’improvviso”. All’improvviso il bosco si distende e ci sono alberi le cui cime – e non tu – dialogano con D’io, tanto sono alti.
All’improvviso le felci sublimi e robuste sono un reticolato di tenero verde che riceve i raggi del sole così distintamente che tu quei raggi li puoi contare mentre si posano a baciare le piante, è un ordito di trine intessuto da mani di angelo che restituisce pace al respiro.
All’improvviso il ruscello è più prepotente e ti chiama, ti invita a ballare con lui, a levarti le scarpe e percorrerlo amico o magari tenertele e arrampicarti bagnandoti di dolcezza di acqua fresca e leggera.
All’improvviso gli alberi si fanno sculture, giganti diffidenti che valutano gli uditi attenti e perspicaci e custodiscono antichissimi segreti.
All’improvviso ti accorgi che hai camminato per ore senza incontrare un umano e neanche te ne sei accorto.
All’improvviso.
Qui devi saper conquistare, non c’è niente che ti venga offerto così, solo perché tu viandante passi da lì. Devi esplorare bestemmiare e incazzarti, perché qui D’io non c’è, non è come in quell’altro mondo a sorridere bonario e invisibile. Qui lo devi chiamare urlando e imprecando e non sei mai sicuro che ti risponda. Qui sei da solo contro il mondo, e senti che va bene così.
Qui manca l’armonia costruita dall’uomo, c’è l’anarchia di una natura selvaggia e innocente che ti chiede un passaggio e salvezza.
E tu sai che qui sarai salvo salvandola.
Qui – infine – c’è un respiro di vita ruvida e violenta che parla col diavolo. E poi con te.
parcE quando finisce, sei un passeggero ubriaco e incantato, inebriato dalla fame dei lupi mannari.

L’AMICA A PEZZI

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Quel venerdì di luglio alle otto di sera l’afa non aveva ancora smesso di tormentare. L’appartamento di via Tripoli era nella penombra, dalle persiane abbassate filtrava appena un po’ di luce. In cucina la tavola era apparecchiata per due, c’era odore di frittata. Ada tagliava i pomodori cercando di eliminare i semi, che così si digeriscono meglio, mentre Carlo era incollato come tutte le sere alla sua poltrona che ascoltava i titoli del telegiornale. Non riusciva a smettere di sudare, la pelle era un tutt’uno con la stoffa acrilica della sua poltrona, la stessa da più di dieci anni.
Dopo la grande mostra di Firenze, da domani esposte a Roma le due statue dei bronzi di Riace. Resteranno al Quirinale per due settimane. Vinti a Como i 500 milioni del primo premio della lotteria di Monza”.
“Carlo è pronto…”  Chiamò Ada dalla cucina.
Carlo con quel caldo non aveva fame e borbottando tra sé abbandonò malvolentieri la sua poltrona.
“Non sapevo nemmeno fossero qui i bronzi di Riace, certe volte mi dimentico perfino dove vivo.” Alzò il volume della tv. L’ultima notizia che preannunciava un’ondata di mal tempo, arrivò proprio quando stava per mettersi a tavola.
“Oggi caldo torrido, domani freddo. Impossibile non ammalarsi con questa stagione. Hai chiamato Adele per sentire come sta?”
“È sempre a letto, la febbre non è scesa. Il dottore ha detto dovrà fare delle analisi se continua così.”
“Ma ci capiranno davvero questi medici oggi? Sembrano tanto più dotti, ma mi pare che vadano per tentativi. Intanto a casa non ci vengono più neanche se stai per morire e ti curano per telefono.”
“Vuoi il vino o la birra?” Chiese Ada davanti al frigo aperto.
In quell’istante squillò il telefono, Carlo si alzò di scatto ignorando la domanda, quasi temesse di perdere quella chiamata. Ada rimase con la bottiglia di vino in una mano e quella di birra nell’altra.
“Vado io sarà Amanda.”   Era Amanda infatti.
“Pronto… ciao bambolina, tutto bene?”
Dall’altra parte, a mille chilometri di distanza, Amanda si sentì sollevata nel sentire la voce paterna, dolce come fosse ancora una bambina. Suo padre riusciva ancora a chiamarla bambolina, di solito ne era infastidita, ma in quel momento le piacque.
“Sì babbo, abbastanza bene. Sto partendo. Arrivo alle sette e mezzo domani mattina.”
“Ti vengo a prendere allora. “
“No, stai tranquillo, che poi ti tocca correre per andare in ufficio. Prendo un autobus dalla stazione. Se il treno non ritarda sarò a casa prima che tu esca.”
“Come vuoi. Tanto comandi tu. Fa’ buon viaggio allora. Vedi di dormire su quei cosi, se ci riesci.”
“Quei cosi” erano le cuccette. Carlo non ne aveva mai preso una.
“Grazie, da’ la buonanotte alla mamma, ci vediamo domani.”
“Ciao piccola mia, a domani. Buonanotte.”
Quella era l’ultima volta che Carlo avrebbe sentito la voce di sua figlia.

Loredana e Amanda si erano conosciute una sera alla stazione di Santa Maria Novella. Loredana aveva notato che nel frastuono dei ragazzi che bivaccavano sul marciapiede, Amanda era l’unica in compagnia di un adulto. Di solito al binario 16 parcheggiavano le carrozze che poi venivano aggiunte al treno delle 22:30 diretto in Sicilia. A quei tempi funzionava la regola dell’assalto alla diligenza: per gli studenti era obbligo risparmiare e all’apertura di quelle carrozze dovevi farti largo nella ressa per accaparrarti un posto a sedere per la notte, altrimenti toccava farsi il viaggio seduti sui trespoli o a terra lungo i corridoi. Loredana aveva notato quella ragazza che continuava a guardarsi intorno quasi fosse alla ricerca di qualcuno per farci il viaggio assieme.
“Babbo perché non te ne torni a  casa?” Aveva chiesto la ragazza all’uomo.
“Io me ne vado quando t’avrò sistemata sul treno.” Aveva risposto lui con un’ostinazione che non ammetteva repliche.
Quella sera a star fermi faceva freddo, l’inverno quell’anno stava facendo il suo mestiere, il cielo plumbeo del pomeriggio prometteva neve. Amanda continuava a guardare l’orologio e non vedeva l’ora di salire su quel maledetto treno, qualsiasi fosse stata la sistemazione, almeno sarebbe stata al caldo.
Poi a forza di fissarla Loredana incrociò lo sguardo di Amanda e questa senza pensarci due volte piantò in asso il padre e si diresse verso di lei.
“Scusa posso chiederti una cosa?” Esordì.
“Certo.”  Loredana aveva già capito.
“Io devo andare a Villa San Giovanni. È la prima volta che viaggio da sola. Se non vi secca potrei fare il viaggio con voi?”
“Certo che puoi. Io sono Loredana, scendo a Lamezia, un po’ prima di te.”
“Grazie infinite. Io sono Amanda, prendo il bagaglio e arrivo.”
Poi Amanda si rivolse al padre:  “Ho trovato compagnia babbo, puoi andare.” Gli disse afferrando la valigia. Carlo non avrebbe voluto lasciare sua figlia in mezzo a degli sconosciuti senza vederla partire e a malincuore salutò Amanda raccomandandole di telefonare non appena fosse arrivata.
“ Sei di Lamezia?” Amanda chiese a Loredana.
“Sì, vado a casa per natale, qui ci studio. Tu invece?”
“Io qui ci sono nata, sto andando a trovare il mio fidanzato, è calabrese. È la prima volta che faccio questo viaggio, vado anche a conoscere la sua famiglia. Un sacco di novità da affrontare tutte in una volta.”
Loredana notò che si era accesa una strana luce sul viso di Amanda che l’aveva illuminata tutta. Capì subito che doveva essere innamorata di quel ragazzo e un po’ la invidiò. Lei ancora quel grande amore che tutti dicevano si dovesse incontrare alla loro età non l’aveva trovato.
“Non preoccuparti, faremo il viaggio insieme.” La rassicurò Loredana.

A quasi mille chilometri di distanza quella stessa notte Carmine non riusciva a prendere sonno. Le coperte gli sembravano troppe, si scopriva, poi ricominciava a sentire freddo, le ritirava su. Muoveva di continuo le gambe senza riuscire a trovare una posizione comoda. Guardò l’orologio sul comodino: le 12 e 40, a quell’ora Amanda era già sul treno. Siccome non c’era verso di dormire, decise di alzarsi e andare a prendere un bicchier d’acqua. Scalzo, per non fare rumore, aprì la porta della sua camera. In corridoio c’erano i bagliori giallognoli dell’albero di natale in salotto, che in quel periodo dell’anno rimaneva acceso anche di notte. Suo padre stava russando rumorosamente e la cosa non gli piacque per niente. Aprì la porta della camera che sua madre aveva preparato per Amanda, la richiuse e si stese sul letto per sentire se il ronfare di suo padre fosse percepibile anche da lì. Dovette constatare amaramente che suo padre sembrava un trombone nella casa silenziosa. Non gli restava che sperare che Amanda  avesse il sonno pesante e la cosa non la disturbasse più di tanto. Ci teneva a far bella figura, voleva che ad Amanda piacesse la sua famiglia, la sua casa, il paese dov’era nato. Lei era così fine ed elegante. Da quando avevano cominciato a stare insieme, ormai da un anno, Carmine continuava a sorprendersi che quella ragazza avesse scelto lui così scuro e introverso, con il suo accento marcato e le sue mille insicurezze. Lei così bionda e delicata, solare e determinata, con il suo accento aspirato.
Ad ogni modo guardandosi intorno gli sembrò che la stanza che avrebbe ospitato Amanda era stata resa accogliente. La madre aveva comprato una copertina di raso rosa apposta per lei, con un tappetino coordinato ai piedi del letto. Dalle pareti erano stati staccati i poster inguardabili di sua sorella, che aveva abitato quella camera prima di sposarsi. Lei non l’aveva presa bene, ma poi se n’era fatta una ragione.  Ad Amanda sarebbe piaciuto.
“Vorrei vedere dove hai vissuto, il paese dove sei nato, conoscere la tua famiglia.” Gli aveva chiesto qualche settimana prima mentre erano seduti sulla sponda dell’Arno che in quel momento brulicava in un tramonto invernale nitido.   Amanda lo guardava con gli occhi grandi e innamorati e a Carmine cominciarono a tremare le ginocchia. Era rimasto spiazzato: portare una ragazza a casa sua equivaleva a prendersi un impegno. Aveva già conosciuto i genitori di Amanda, all’inizio il padre era stato diffidente – non era entusiasta all’idea che la sua unica figlia si fosse innamorata di un ragazzo che viveva a mille chilometri di distanza e magari gliel’avrebbe portata via – ma Amanda l’aveva rassicurato: Carmine voleva fare l’avvocato a Firenze, per questo era venuto a studiare giurisprudenza in quella città. Per Carmine invece era diverso, lui ai suoi che si era innamorato di una fiorentina non l’aveva detto proprio, sapeva che avrebbero storto il muso.
“Moglie e buoi dei paesi tuoi, arricordatillo Carminù. I ditti antichi anu sempre ragiuni.” Erano state queste infatti le parole di sue madre quando aveva annunciato che per natale avrebbe ospitato un’amica.
“U nda  famiglia a natale st’amica tua?” Aveva chiesto la madre sospettosa.
“Ce l’ha ma’..”
“Sta guagliuna ti piaci…” Aveva nicchiato il padre sornione.
Carmine si era sentito il sangue salire e aveva esitato: “Sì.”
“Carminù statti attento, ca a pensanu differenti. Tu a di pinsari a studiari a Firenze. U posto tuo ca’ è, chista è la gente tua. Arricordati sti’ paroli i mammata.”
Il padre, che ascoltava masticando pane e aveva senso pratico più della moglie, bevve un sorso di vino, guardò il figlio e disse:
“Va bene Carmine, facci conoscere questa fiorentina, a patto che non perdi la testa e continui a studiare.”
A Carmine sembrò di aver scalato una montagna, forse la prima della sua vita. Era sicuro che Amanda, bella e signorile com’era, sarebbe piaciuta a tutti. Del resto lui, anche se non aveva mai detto niente, da lì se ne voleva andare.
E adesso tutto era pronto per “la fiorentina”. Soltanto sua sorella Evelina, la maggiore, aveva decretato che  una forestiera non era una cosa buona. Carmine aveva pensato che era perché Evelina era gelosa della sua camera, anche se era sposata da più di cinque anni.
Intanto s’era fatta l’una e mezzo, Carmine si decise ad abbandonare il letto dove avrebbe dormito Amanda, sistemò la copertina di raso rosa e se ne tornò nella sua camera. Suo padre ancora russava e per lui era ora di dormire, che l’indomani sarebbe stato un giorno importante.

treno-1Alla stessa ora, nella semioscurità del treno, Loredana e Amanda parlavano fitto in mezzo agli altri ragazzi addormentati uno sull’altro. In quella notte si confidarono pensieri, esperienze, speranze, ambizioni come si può fare a vent’anni. Quando per Loredana fu il momento di scendere era ormai giorno fatto. Si salutarono con la promessa di rivedersi non appena rientrate a Firenze: erano diventate amiche. Amanda continuò a salutare Loredana finché non la vide sparire. C’era il sole e si vedeva il mare, l’aria era limpida come fosse estate. Amanda fece il resto del viaggio guardando la Calabria dal finestrino, le sembrava acerba e bellissima, aspra e dolente, assolata e calda perfino a natale. Era felice di esserci. Avrebbe amato quella terra come amava Carmine.

Finite quelle vacanze Amanda e Loredana tornarono alle loro rispettive vite e dimenticarono la promessa di rivedersi. Loredana fu assorbita dallo studio, quanto ad Amanda, l’amore la condusse verso un imprevedibile destino.
E chissà come andò, ma molti anni dopo, durante una passeggiata da piazza Santa Croce verso i lungarni, una mattina Loredana all’improvviso si ricordò di quella ragazza alta, bionda, elegante, conosciuta durante un viaggio in treno. Lo sguardo luminoso dei vent’anni si fece strada negli anni alle spalle. Loredana ormai si era sposata e viveva a Bergamo, da più di quindici anni. Firenze però le era rimasta nel cuore, così ogni tanto tornava a passeggiare nei vicoli del centro storico dove aveva respirato idee ed esperienze. Ne aveva conosciuta di gente in quegli anni.
“Amanda, si chiamava Amanda”. Se la ricordava bene quella notte  in treno, quella sola unica notte in cui s’erano confessate nel buio dello scompartimento la vita che avevano davanti. Nel poco tempo insieme, avevano afferrato il senso dell’esistenza l’una dell’altra, come succede in certi incontri nei quali ti dipingi per quello che sei. Chissà se Amanda aveva sposato il suo Carmine e coronato la sua bella storia d’amore.
I pensieri portarono Loredana ad addentrarsi nel reticolo di viuzze che adesso erano pieni di negozi di souvenir e cianfrusaglie cinesi. Arrivò al 25 di via Tripoli senza neanche rendersene conto e scorse i nomi sul citofono. In quello stabile vivevano quattro famiglie ma lei non ricordava il cognome.
“Cerca qualcuno?” Una voce la costrinse a voltarsi di scatto come se fosse stata sorpresa a rubare. Un uomo anziano, ricurvo, dall’aria mite, le stava davanti.
“No… cioè sì. Conoscevo una ragazza che abitava qui tempo fa. Si chiamava Amanda, passavo da queste parti e mi stavo chiedendo se viveva ancora qui.”
L’espressione dell’uomo cambiò di colpo, come se su quel volto segnato dal tempo si addensassero tutte le nubi oscure incontrate nell’arco della sua lunga esistenza.
“La conosceva bene Amanda?”  Le chiese cupo.
“Per la verità no, ci siamo incontrate una volta soltanto, poi ci siamo perse, lei stava andando a trovare il suo fidanzato in Calabria. La conosce?”
“Sì signora, la conoscevo. L’ho vista crescere in questa strada. Non avesse mai fatto quel viaggio.”

In quella foto Amanda era esattamente come Loredana la ricordava, il bianco e nero la restituiva al passato in cui si era fermata: Amanda a venti anni. Adesso Loredana sapeva che quella foto era l’unica cosa rimasta di lei a memoria futura. Questo le aveva detto il vecchio piangendo lacrime che avevano risvegliato un dolore sopito. Chissà quante volte si erano incrociate sui treni senza più incontrarsi e chissà se l’avesse incontrata, se l’avesse cercata come le aveva promesso. Loredana fissava la foto:  pensò che non si può cambiare il corso del passato, ma gli occhi celesti di Amanda chiedevano vita. Giustizia no, perché non ne avevano avuta. Ma vita sì.

362994702-5Amanda dopo un’ultima telefonata a suo padre che annunciava il suo ritorno a casa era sparita. Sparita, come spariscono certi oggetti che metti da qualche parte e qualcosa che non sai cos’è se li porta via. Sparita. Come un coniglio dal cilindro di un mago. I suoi genitori l’avevano cercata invano per anni, poi la madre non era sopravvissuta al dolore per quell’unica figlia scomparsa. Suo padre, senza altri figli o parenti, era rimasto il solo a cercarla.
Amanda in Calabria aveva incontrato un paese che non c’è, qualcosa che aveva letto sui giornali o visto alla tv, ma era stato diverso vederli, i morti ammazzati per strada. Era toccato prima al padre di Carmine, poco dopo il suo primo viaggio in Calabria. Amanda non aveva ascoltato niente e nessuno ed era corsa da Carmine. Avrebbe dovuto capire certi silenzi, certe reticenze, le mezze frasi, i toni taglienti. Ma lei quel ragazzo lo voleva. L’amore maturo sa quello che vuole e va dritto davanti a sé senza ascoltare ragione, coraggioso fino all’incoscienza. Amanda aveva lottato con le unghie e con i denti per portare via Carmine da una faida sanguinosa che lei non poteva e non voleva comprendere. Per lei era semplice: era convinta che esiste la giustizia a questo mondo. E aveva cominciato lei ad andarci, da un giudice, a raccontare quello che aveva visto e sentito. Poi subito dopo Carmine fu ferito alla testa in un agguato. Amanda aveva preso il primo treno e l’aveva riportato a Firenze, l’aveva curato e aveva convinto anche lui che era semplice, che c’era una via d’uscita da tutto quel sangue. E così anche Carmine aveva parlato con quel giudice. Solo che poi lui in Calabria al suo paese c’era dovuto tornare e lì chi parlava era un’infame e lui non avrebbe potuto vivere da infame. Al giudice disse che Amanda l’aveva costretto e confuso, rinnegando ogni singola parola. Eppure Amanda ancora non si arrese, tornò, dura come quella terra che si ostinava ad amare. Continuava a credere che fosse semplice: l’amore come la giustizia.
Finché, dopo quella telefonata al padre, di Amanda non si ebbero più notizie: il nulla la ingoiò senza sputarne i resti.

Molti anni dopo un pentito fece il suo nome, disse che qualcuno aveva ordinato che quella forestiera doveva morire: Amanda era stata uccisa, il suo corpo fatto a pezzi e gettato in mare. I suoi assassini erano stati assolti per insufficienza di prove. Il processo l’aveva uccisa per la seconda volta: senza tomba, senza memoria, senza appartenenza, come certe meteore che si staccano e attraversano l’atmosfera per qualche secondo di luce e poi si spengono andando a morire chissà dove.

OLYMPUS DIGITAL CAMERALoredana pensava che quello era lo stesso mare che aveva solcato Ulisse, pensava a se stessa che lo aveva dimenticato andandosene da quella terra amata e maledetta. Pensava a quello che non aveva fatto, alla colpa per non averla difesa, al suo accento che aveva vissuto come una vergogna di cui liberarsi. Pensava ad Amanda fatta a pezzi per averla voluta, quella stessa terra.
Osservando la foto sperava che un dio qualsiasi, nell’azzurro doloroso di quel mare, avesse ridato vita a quello sguardo. Magari avrà rimesso insieme i suoi pezzi. Magari ne avrà fatto una sirena per il prossimo Ulisse.

Dedicato a Rossella Casini

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