Era ottobre, novembre, a volte anche primi di dicembre, non era mai dato sapere.
Non c’era WhatsApp, nessun mezzo rapido di comunicazione.
Era un sentirsi per telefono, fare il solco agli uffici del provveditorato, (allora si chiamava così) i punteggia sbagliati, le file interminabili. Era uno scambiarsi di informazioni febbrili.
Era il caos delle graduatorie provinciali ogni anno, il fiato sospeso nell’attesa di sapere se avresti lavorato, quando, come e dove.
Poi erano le convocazioni, la fiera delle chiamate a servizio, in scuole o sedi che quasi mai erano idonee ad ospitare centinaia di insegnanti.
Era il bivacco nei corridoi come sacchi, la ricerca di una sedia ogni tanto, le ore di attese e di “esci a fumare una sigaretta?”
“Se ti capitano le medie a Borgo prendi o lasci?” Erano le domande, per qualcuno che si piazzava su una graduatoria era la speranza per qualcun altro.
Era, a volte, gran parte delle volte, arrivare alla sera e sentir dire interrompiamo riprendiamo domani. Poi magari l’indomani c’era sempre qualcosa da correggere e si andava al pomeriggio, e di nuovo al giorno dopo ancora.
Ci sono incubi peggiori, certo. Ci sono sempre incubi pegnori, ma era il lavoro, lo stipendio, il pagare affitti e bollette.
Credo di aver vissuto insieme a migliaia come me la stagione più lunga di quello che non a caso era ritenuto il precariato storico, nella scuola non c’era ombra di assunzioni e non c’è stata per anni. Per me sono stati circa 15 anni, di cui relativamente più stabili soltanto gli ultimi cinque quando, scalata finalmente la graduatoria, arrivavi alla fatidica supplenza al 31 agosto che equivaleva a non dover fare la pratica di disoccupazione per i mesi estivi.
Quello delle convocazioni era un rito desolante, un ciondolare di corpi esausti a un mercato di elemosina di nomine, persone che scaricavano l’ansia soltanto quando uscivano finalmente con un foglio in mano e una nomina e a quel punto dove e quando non importava, dritti a prender servizio, si tornava a scuola.
Ricordo un anno in cui un collega di lettere che aveva superato i 50, con una storia burocratica kafkiana (che in quegli anni – attenzione – era la norma, perché le regole cambiavano in continuazione) a settembre fu assunto: contratto a tempo indeterminato. Alle convocazioni successive l’impiegata del provveditorato quando arrivò al suo nome ancora in elenco si fermò e disse: “questa è una soddisfazione personale che devo prendermi”. Si alzò e pronunciò il nome e poi aggiunse “assunto”. Inutile dire che scattò l’applauso generale, sia per chi come noi lo conoscevano, ma anche per gli altri.
Molti di noi, in alcuni casi ormai amici più che colleghi, il giorno in cui firmarono il fatidico contratto di assunzione piansero, non si trattava del famigerato posto fisso, ma della continuità, che soltanto gli addetti ai lavori possono comprendere: finalmente avresti lavorato in una scuola, la tua. Eh sì, perché ogni anno era un giro di danza: nuove destinazioni, nuove scuole, nuove classi, nuovi alunni, migliaia di studenti che non vedevano mai gli stessi insegnanti anno dopo anno, ogni partenza dell’anno scolastico si ricominciava sempre da capo, tutti. Era così che funzionava la scuola, in maniera molto maggiore che adesso e non stiamo parlando del secolo scorso, ma di una quindicina di anni fa. Questo è il modo in cui hanno tenuto in considerazione la scuola e i suoi attori: insegnanti, studenti e famiglie.
Ecco anche perché io per circa dieci anni, residente a Firenze, preferivo fare la pendolare, speravo sempre che alle convocazioni “rimanesse” Borgo San Lorenzo, sede da molti considerata disagiata e professionale difficile (anche perché era la regola che gli ultimi arrivati beccassero le classi peggiori e ne ho visti volare sedie e pugni) ma almeno sentivo quel senso di familiarità, di essere parte, di costruire un percorso. Mi alzavo prima delle 6, prendevo il bus che era ancora buio per andare alla stazione, da lì avevo circa un’ora di viaggio. Rientravo alle tre e mezzo, ma molto più spesso alle sei di sera, visto che allora si facevano i pomeriggi.
Certo c’è di peggio, c’è sempre di peggio, eppure eravamo insegnanti, in teoria un pezzo importante della società, in pratica eravamo precari che baciavano a terra per la grazia del lavoro ricevuto (no, non esagero, tre mesi senza stipendio, ed erano stipendi minimi) a un’età che ci portò a varcare i 30 e poi i 40 ad aspettare le assunzioni.
Poi vennero gli anni in cui istituirono la SSIS, le scuole di specializzazione, mi pare fosse proprio Berlinguer, a noi precari parve subito chiaro che fosse un bel regalo alle università, visto che i corsi erano a pagamento. La scusa era che bisognava far entrare i giovani, e certo, noi nel frattempo eravamo invecchiati. Con le SSIS il diritto alle supplenze e alle assunzioni si dimezzò: 50% su una graduatoria, 50% su un’altra. Fu una guerra, eravamo inviperiti, agguerriti gli uni contro gli altri. Si allontanava la parola fine alla precarietà, si creavano altri precari. Manovre politiche, che niente cambiavano “dentro” la scuola.
Oppure l’istituzione dei corsi di perfezionamento: la corsa ai punti, ogni corso valeva 1 punto e costava dalle 350 alle 400 euro. La parte da leone la faceva la Facoltà di Scienze della Formazione. E qui non posso non ricordare la scarsa, scarsissima qualità di quei corsi PAGATI per avere quel maledetto punto in più, almeno fossero stati formativi: era un bieco mercato di punti. Un anno ne scelsi uno Educare alla Lettura, vai, mi dissi, almeno questo mi interessa, ebbene la cosa che ricordo è l’aula Magna del Liceo Michelangelo di Firenze quando arrivò un’avvenente giovane assistente universitaria da Pisa che tenne una lezione su: Jack Frusciante uscito dal gruppo, il Giovane Holden, la cacca in non ricordo più quale romanzo della Pitzorno. Lei sarebbe stato inutile ucciderla, visto che innocente, ma la frustrazione era tanta che qualcuno al Ministero sì, lo avresti ucciso volentieri. Tempo e soldi sprecati. A lei avremmo solo potuto dire: ma come ti permetti? Ma da quale cacchio di pianeta arrivi? Il giovane Holden? Al massimo ti fai una risata! Educare alla lettura!
Eravamo invisibili. Questa è stata la scuola dei Ministri delle riforme, dell’innovazione, della mancanza di investimenti.
Un privato non avrebbe potuto fare quello che faceva lo stato, non era legale: c’era la continuità, il licenziamento annuale di fatto era un sopruso.
Nel 2008 un sindacato avviò una vertenza con migliaia di ricorsi e denunce alla Commissione Europea, perché un lavoratore precario poteva essere chiamato anche un numero di volte illimitato ad accettare un contratto a tempo determinato (le supplenze annuali) e quando nel 2014 arrivò Renzi con la Buona scuola spacciò le assunzioni come un suo miracolo, in realtà erano dovute perché quell’annuncio sbandierato come “il più grande investimento” sulla scuola italiana degli ultimi decenni era, ripeto, atto dovuto: i precari che hanno superato il 36 mesi di insegnamento devono essere assunti, oppure risarciti, il che per il governo sarebbe stato davvero un grossissimo guaio.
Noi del precariato storico eravamo stati assorbiti da poco, ma alle spalle avevamo anni come quelli che ho cercato di raccontare.
Abbiamo subito la Riforma Gelmini (che non era una riforma ma soltanto un taglio dei posti di lavoro tanto per ritagliare risorse da destinare alla scuola privata) ed io personalmente ho preso parte alla manifestazione a Roma, una cosa mai vista, non siamo riusciti neanche a raggiungere il luogo di partenza, le metropolitane erano intasate, migliaia di autobus e nessuno che si aspettasse quella reazione. È successo qualcosa in risposta? No.
Abbiamo contestato allo stesso modo la 107 di Renzi, uno sciopero con adesione imponente. Hanno tenuto di conto cosa diceva il mondo della scuola? No. (Ne scrissi qui https://danielagrandinetti.blog/2016/01/23/23-gennaio)
Ci siamo beccati il suo sottosegretario Faraone, che parlava di scuola come se fosse casa sua ma non era neanche laureato (ah, poi la laurea l’ha presa, a 16 anni dalla sua iscrizione, in Scienze Politiche, forse perché poverino gli era venuto il complesso e sia chiaro, non perché la laurea equivalga a intelligenza, anzi, ma visto che scassavano tanto con quella riforma sul famigerato riconoscimento del “merito”, l’ironia era d’obbligo).
C’è stato il ministro Profumo che diceva che con gli insegnanti bisognava usare il bastone e la carota, abbiamo poi avuto le idee brillanti della Ministra Fedeli, solo per ricordare gli ultimi anni, nella quale qualcuno aveva anche riposto speranze vista la sua esperienza nel sindacato, ma che ricordiamo perché a un certo punto tirò fuori dal cilindro l’uso dei cellulari nella didattica, i corsi di formazione per insegnanti sui videogiochi (ne ho scritto qui, poi il post è stato condiviso oltre le mie aspettative https://danielagrandinetti.blog/2017/09/12/w-luso-del-cellulare-a-scuola/ )
E arriviamo alla Dad
In questo scritto di memoria, non posso esimermi dal fare un riferimento agli ultimi due anni, quello scorso e quello in corso: ebbene lo scorso anno per la ministra Azzolina eravamo eroi anche noi come il personale sanitario, perché avevamo retto l’impatto della pandemia con la didattica a distanza. E giù l’esaltazione della tecnologia, del tesoro che l’esperienza avrebbe costituito anche per il futuro. E io, e tanti scettici come me, a dire: attenzione, questa è emergenza, ma la dad non è scuola, la scuola ha bisogno di presenza, di contatti, di respiri, di sguardi. Eppure l’abbiamo fatto, in massa, magari con le debite eccezioni, per carità, ma la scuola (leggi insegnanti, e qui davvero, INSEGNANTI) ha retto l’urto.
Quest’anno la situazione si è ribaltata: la Dad non è scuola dice la Ministra, bisogna riaprire (ma nel frattempo a parte le rotelle non abbiamo visto grandi misure per questa “scuola in sicurezza”, che poi qualcuno me lo spiegherà come fa a essere sicuro un luogo dove comunque, anche al meglio dell’organizzazione, circolano centinaia di persone ogni giorno e di vaccini per noi non se ne parla, siamo in coda con gli altri). La parola d’ordine è supportata da un movimento d’opinione che vede quotidianamente articoli sulla solitudine degli adolescenti, improvvisamente vittimizzati da schiere di madri (padri se ne sentono pochi, come mai?) e opinionisti, come se questi millenium non vivessero già da prima una vita sociale connessa. Io, dal mio piccolo angolo, parlo con studenti e studentesse ogni giorno, e mi pare che responsabilmente dicano che sì, preferirebbero la scuola in presenza, eccome se no, ma la situazione è tale che meglio sarebbe non rischiare. Certo, ho lunga esperienza nei professionali da sapere che in alcune scuole il rischio di dispersione è più alto, ma attenzione: la dispersione c’era prima come adesso, solo che adesso serve da baluardo politico, perché la scuola improvvisamente è terreno di scontro politico. Io ho la nausea.
Non ultimo non c’è giorno in cui l’Invalsi con le sue ramificazioni amiche (IlSole24ore, Confindustria) non esca con qualche articolo allarmista sul learning loss, sul fatto che questi due anni sono anni PERSI. E qui, mi perdonerete, alzo la voce: ma come ti permetti tu, Anna Maria Ajello, Presidente Invalsi, con la tua cricca e con una ministra che anziché difendere il settore in cui opera sta dalla vostra parte e dice le stesse cose, di continuare a propinarci teorie sulla MISURAZIONE DEL SAPERE CHE METTE A RISCHIO – DICIAMOLO – LA TUA BARACCA, QUELLA CHE VI FORNISCE LAUTI STIPENDI MA NIENTE, DICO NIENTE, CHE ABBIA REALI RICADUTE SULL’ISTRUZIONE E I SUOI SISTEMI? COME SI PERMETTE?
Io mi alzo alle 8 ogni mattina, accendo il pc, sono stanca, dopo tutti questi mesi, ma so che non posso permettermi di mostrarlo, accendo la telecamera su volti e più spesso su icone, ma non per questo mi arrendo, non per questo perdo il mio e il loro tempo, faccio lezione tutti i santi giorni, poi pranzo e il pomeriggio in gran parte trascorre a caricare attività su classroom, scannerizzando materiali frutto di ricerche, perché è necessario trovare mezzi e modalità che mi consentano di tenere una buona attenzione, di stimolare la partecipazione. Certo se stessi ogni giorno a fare la mia bella spiegazione autogratificante e dicessi studiate da pagina a pagina sarebbe più semplice e meno faticoso, ma in questo frangente sappiamo di non poter agire così. Quindi tutti i giorni tra leggere compiti svolti e caricare materiali è altro tempo, tanto tempo, con il cervello che perde colpi. Senza contare le chat di WhatsApp, sempre a disposizione di chi ha bisogno di un chiarimento, di una risposta, o tra noi insegnanti per cercare di arrivare a qualcuno o qualcosa. Numeri di telefono ai genitori di ragazzi problematici, fili diretti, riunioni extra a gogò in aule virtuali. Meet ormai è casa mia. Dunque: come vi permettete?
Come al solito parlano persone che non sanno niente di scuola, che mai sono stati in una scuola se non come studenti, ma loro sono ESPERTI, e ben pagati, noi invece siamo numeri, caselle da spostare da un colore all’altro. Non c’è giorno in cui l’Invalsi e la sua cricca non rimarchi la necessità di lavorare a luglio, ad agosto per recuperare il learning loss (parla come mangi, diceva un antico adagio!) tanto per avvalorare quella tesi così popolare secondo la quale noi non lavoriamo, noi siamo fannulloni, noi siamo dei privilegiati con il nostro stipendio rubato alle tasche dei contribuenti. Infatti nel dibattito di quest’ultimo periodo molte mamme, molti studenti che si ammalano dentro (ma sono in trincea? Combattono? Fanno la fame? Non hanno da vestirsi?) ma mai insegnanti, l’unica che spopola è la comica Mannino con le sue parodie sulla dad.
Di fatto noi non abbiamo più un “tempo scuola”, noi abbiamo da mesi una vita connessa senza spazi né tempi.
La scuola pubblica, baluardo della Repubblica, con buona pace di Calamandrei e quelli che si ama citare, è un mosaico informe di polipi e tentacoli. Le parole e i fatti.
E io, dovrei sentirmi una privilegiata?
Se siete arrivati in fondo, voi che leggete, non posso che ringraziarvi, nonostante non avessi voglia ho scritto questa lunga memoria riflessione soltanto perché sono stanca, stanca dentro, anche se nessuno se ne accorgerà mai perché accendo la telecamera con il sorriso e la carica giusta. Dentro c’è l’amarezza di una voce che abbiamo perso, insieme all’autorevolezza del ruolo
In prima ho una ragazzina cinese, parla poco l’italiano, negli ultimi giorni mi manda spesso messaggi su WhatsApp per farmi domande sulle cose da fare. Io le rispondo, le mi risponde con emoticon: cuoricini e faccette arrossate. IO LO SO che questa ragazzina sta traendo quel po’ di spinta che le serve da questi insignificanti contatti, in virtù del semplice fatto che le rispondo, perché anni di esperienza mi dicono che in assenza di altri e più consoni mezzi, intendo fisici, questo è un modo per rinsaldare l’autostima. C’è una mamma che mi ha chiamato giorni fa per dirmi che sua figlia, in prima anche lei, beh, non era così contenta di studiare da anni (la ragazza ha una storia di bullismo alle scuole medie) mi ha confessato che, con tutti i suoi limiti, è rinata. Mi ha ringraziato, non solo me, ma anche gli altri insegnanti.
Ecco, sono arrivata alla fine. Qui sta il mio lavoro, la mia esperienza, il mio mondo: nelle ultime righe.
Per tutto il resto c’è MasterCard.