Insegnanti/zombie

Io insegnante, una zombie. Mi autodenuncio.

Ho in serbo un diario di scuola che raccoglie frammenti scritti nell’arco di circa vent’anni della mia esperienza di insegnante di istruzione secondaria superiore e prima o poi, quando sarò vicina al mio congedo, credo lo tirerò fuori per un’eventuale pubblicazione al solo scopo di levarmi un po’ di sassolini dalle scarpe. Ritengo – umilmente – che gli insegnanti siano responsabili di mancanza di indignazione quando si passa il limite, cosa che sta accadendo.

Sì, perché fa male svolgere una professione come la mia che dovrebbe essere tra quelle ritenute più importanti, visto che ci occupiamo di formare le classi dirigenti e quelle lavoratrici – la scuola funziona su questa distinzione molto più che in passato, ve n’eravate accorti? – di oggi e domani ed essere trattati come cavie e, peggio, praticamente nullafacenti, sempre in modo generalizzato.

Partiamo dalla cronaca recente: qualcuno ha visto che il nuovo governo, ad esempio, cambia la denominazione del Ministero e lo chiama Ministero dell’Istruzione e del Merito e, come per incanto, ecco che nel giro di qualche giorno compare la notizia della modella, influencer nel virtuale e asociale nel reale, che diventa medico a soli 23 anni che fa partire la discussione sul merito?

A parte che ho un fratello che negli anni ’70 si è laureato a Pisa in Giurisprudenza a meno di 22 anni perché era bravo, a parte che la scuola si fonda sul merito, visto che diamo i voti, come mai, mi chiedo e vi chiedo, le notizie che poi rimbombano sui social sono sempre in qualche modo legate alla visione politica del momento? Al tema che si vuol far passare come necessario?

Ecco che a raffica arriva la narrazione della scuola, procede a ondate con notizie quali il professore che ci prova con la studentessa o quello che molla un pugno a uno studente, sempre ripresi con tanto di video che diventano virali. Studenti che ormai registrano gli insegnanti e genitori che consegnano le registrazioni ai dirigenti:  una cosa che sarebbe illegale e che pure sta diventando pratica frequente. Fuori contesto qualsiasi cosa può apparire il contrario di quella che potrebbe essere.

“Ai miei tempi” (oh sì lo so, è terrificante questa espressione, me ne assumo tutte le responsabilità) mio padre mi avrebbe rimandato a scuola con un calcio nel sedere per molto, molto meno. Oggi no: siamo alla berlina. Non è un giudizio, è un’osservazione.

La narrazione sulla scuola un giorno sì un giorno ci parla di  docenti “inadeguati”, dunque il dibattito è aperto, ma attenzione, non nelle sedi preposte, lo è sui canali social e in tv: bisogna avere docenti selezionati, formati, occorre differenziare gli stipendi e distinguere i meritevoli, occorre ridefinire il contratto di lavoro non su base nazionale ma per favorire l’autonomia scolastica. Quindi avere una scuola di serie a e una serie b e legittimare le disuguaglianze: questo ormai è il disegno e non da oggi.  

Il sistema scolastico è di una tale complessità che è davvero difficile far capire cosa sta accadendo a chi non la vive ogni giorno, sono decenni che ogni ministro che passa deve lasciare la sua inutile impronta senza investire un euro significativo e oggi quello che stanno davvero cercando di fare è legare i finanziamenti alle scuole che si dimostrano meritevoli attraverso un sistema di rilevazione chiamato INVALSI sul quale esiste una letteratura vastissima a proposito della sua arbitrarietà che qui sarebbe lungo spiegare.

Ministri che hanno distrutto pezzo per pezzo la scuola pubblica e adesso  invece di investire sulla formazione (vera, non quella che ci vogliono imporre con annesso business), sulla dotazione di mezzi e sulla professionalità, attaccano ogni giorno docenti di ogni ordine e grado evidenziando le loro presunte mancanze e inadeguatezze.

Ci si stanca a spiegare, a parlare, a raccontare quello che siamo diventati davvero: si cerca di campare con lo stipendio,  di farsi tre mesi di vacanza (la quantificazione delle effettive ore di lavoro? Neanche a parlarne) di prendersi quelle soddisfazioni quotidiane che ti vengono dalle attestazioni di alunni e genitori. E poi ti tieni la merda che ti gettano addosso, il “bastone e carota”, come disse qualche anno fa il Ministro Profumo, o il riconoscimento dello stato di “missionari” come fece il Ministro Moratti o la devozione del mestiere, più di recente il Ministro Bianchi in preda a una visione mistica.

La realtà è che siamo un branco di zombie senza alcun potere di incidere: per noi ci sono sempre i vari Galimberti, Recalcati, Gramellini & C. a parlare.

Per chiudere questa parziale e rapida riflessione mi avvalgo di una frase di uno scrittore (che è anche insegnante), che contiene il “senso” vero dell’insegnamento (per me, chiaro):

“La parola scuola etimologicamente vuol dire vacanza, riposo. È, quindi, un periodo di ozio (dal lavoro e dalle sue fatiche) in cui il tempo a disposizione deve essere impiegato per forgiare quegli strumenti che danno accesso alla lingua, al pensiero e, perché no, alla bellezza. (Marco Balzano)

In fondo se esplori come si deve la “bellezza” del pensiero nella sua interezza, qualsiasi cosa (perfino la lotta al bullismo, per fare un esempio, senza ammorbarsi di progetti) avrà le sue ricadute sui comportamenti etici e nei processi di conoscenza e convivenza.

In fondo, una cosa semplice. A patto che ci lascino fare il nostro lavoro.

Ah! e magari ci rinnovino il contratto, scaduto da anni: bisogna pur parlare del vile denaro ogni tanto visto che si inventano la qualsiasi per non farlo.

Per Franco, ora come due anni fa

Grazie ai miei ex colleghi per avermi dato l’opportunità di ricordare un collega che ha un posto speciale nel cuore e nella mente.

Francesco Paone,  per chi come me crede che la fine della vita terrena sia un passaggio e nessuno va via davvero fino  che vive nei ricordi, nella mente e nei pensieri di chi resta, oggi è qui con noi.

Ringrazio i colleghi e la Dirigente del Polo Tecnologico per avermi dato quello che io con sincerità (e chi mi conosce sa che non sono capace di fingere, né amo compiacere) considero un privilegio.

Questa non è una commemorazione di Franco, cioè una ricorrenza o una cerimonia: oggi Franco prende ufficialmente posto in quella che è stata la sua seconda casa e qui rimarrà non come un nome su una targa, ma come colui che insieme ad altri colleghi ha scritto la storia di questa scuola, vivendone e influenzandone le scelte e la crescita, sempre dalla parte degli studenti.

Io non posso definirmi in senso stretto un’amica di Franco, l’ho conosciuto e frequentato come collega per qualche anno, ma lui era una di quelle persone speciali che aveva il dono di mettere chiunque a proprio agio, esattamente come con un vecchio amico gli davi subito fiducia. Era una presenza rassicurante, a dimostrazione del fatto che spesso non occorre essere conoscenti di lunga data e sapere tutto l’uno dell’altro per entrare in sintonia. Basta essere sinceri, aperti, leali, sensibili, in poche parole: una bella persona. E sappiamo che Franco era tutte queste cose e diciamolo pure, cose difficili da trovare tutte insieme in un essere umano. Si può possedere una di queste doti, più raro è possederle tutte.

Quando se n’è andato nessuno voleva e poteva crederci, per giorni il pensiero andava là: a quella fila di sedili all’ingresso della scuola dove stava ogni mattina prima che suonasse la campanella, sorridente, scherzoso, con la battuta sempre pronta.

Non avete idea che dono siano le persone come lui, quelle che all’inizio della giornata ti mettono di buon umore, ti danno una spinta, ti strappano una risata. Viviamo in un modo che corre e scorre e anche la scuola, ahimè, è un ambiente sempre più schizofrenico e competitivo, più che sorrisi vediamo grugni. Invece le persone come Franco stoppano la palla e la fermano e le tensioni (come succedeva a volte in consigli di classe un po’ accesi) si stemperano.

Lui con il suo sorriso (era una delle poche persone che conosco che sorrideva anche con gli occhi) era lì a dirci la sua canonica frase: “e che problema c’è”?

Con il tempo sono le persone come lui che mancano alla scuola, quella saggezza e quella leggerezza e lui manca eccome, persone che sanno distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, fattore decisivo per chi oltre a insegnante si assume la responsabilità di essere anche educatore.

I ragazzi sanno sempre (molto più di quanto non siamo propensi a credere) di chi fidarsi: scelgono. E che Franco fosse tra questi lo hanno dimostrato le parole di decine e decine di studenti nei loro ringraziamenti, nelle testimonianze, nella commozione e nel dolore che tutti abbiamo avuto di leggere: eravamo in dad e in lockdown. Lo abbiamo vissuto a distanza ma nettamente, in quei giorni terribili.

Ho in testa lo smarrimento di noi tutti al rientro in presenza a scuola con il pensiero a quella sedia vuota che nessuno voleva accettare tale rimanesse perché non era pensabile che così andasse, non era neanche nelle più remote possibilità.

Ho in testa lo sguardo  e il silenzio del Prof. Renda, Ciccio per tutti, uno al quale la parola non manca di certo, che chiacchiera sempre: ma non in quei giorni, il suo sguardo perso e muto insieme agli altri. La comunità scolastica in quel momento faticava a trovare le parole.

In conclusione di questi appunti scritti di getto e a mano riporto una frase di Honoré de Balzac: “il ricordo è una memoria che ha goduto”. Qui sta il senso di ciò che vorrei dire: si può vivere senza lasciare traccia o memoria di sé e si può vivere lasciando negli altri quella piccola felicità di pensare “io l’ho conosciuto”, con una punta d’orgoglio, con la consapevolezza che le persone belle come Franco non se ne vanno mai veramente.

Ci sono esseri umani che hanno il dono di essere “intimamente” il mondo intero: un minuto, un’ora, un giorno o un anno trascorso con loro non fa differenza, vale un tempo infinto, denso e prezioso. Quello è il tempo che non potremo mai misurare perché batte dentro di noi. Lì anche l’assenza si trasforma in presenza.

Una frase un po’ scontata  ma efficace dice proprio questo: “io non so dove vanno le persone quando scompaiono, ma sono dove restano”.

Qui dove siamo e finché ci saremo.

Grazie Franco.

19 gennaio 2022

Maid ed Eudoscopio, ovvero dove stiamo andando


Maid è una mini serie televisiva in onda su Netflix tratta dalla storia vera di Stephanie Land che dalla sua esperienza qualche anno fa  scrisse un libro ““Lavoro duro, Paga Bassa, e la voglia di sopravvivere di una Madre” diventato un best seller.

Avevo letto alcuni post molto positivi sulla serie, ma devo ammettere, fuorvianti, perché Maid, al contrario di quello che avevo letto nei post, non è una serie a tema violenza sulle donne: è molto, molto di più.

Raccontata, girata e interpretata benissimo (su tutte una Andie MacDowell in stato di grazia con le sue rughe e i lunghi capelli grigi) la serie racconta la storia di Alex: una giovane madre che vuole fuggire da una vita di tensione costante con un marito alcolista. Alex sa cosa vuol dire per sé e la sua bambina di soli tre anni, perché ha vissuto sulla propria pelle essere una bambina trascinata via da una madre libera e oppressa dal marito con problemi di alcol. Con il tempo le è anche toccato diventare madre di sua madre, che comunque degli uomini oppressivi non è riuscita mai a liberarsi.

La violenza non si vede: si percepisce, si odora, non c’è sangue che la provi o botte o lividi che la raccontino  (e questo, ad esempio, per i servizi sociali è un limite all’accesso di aiuti governativi), è piuttosto la condizione costante di un destino che sembrerebbe già scritto.

Quella che si vede invece benissimo è l’America dei soldi e dei poveri, di un sistema che espelle chi non ce la fa o non ha possibilità di farcela. Quella del lavoro precario, a giornata, delle rette degli asili da saldare se vuoi lavorare per sottrarti a una storia di violenza domestica e a una vita squallida. Il duro prezzo da pagare per essere libera e liberare tua figlia è pulire cessi a due lire, umiliata fino allo sfinimento.

Alex non è ingenua, non è sfortunata (della serie capitano tutte a lei) è che se non hai niente, sei più soggetta alla Legge di Murphy: se può andar male, lo farà. Non è matematico, è statisticamente più probabile (e questa sì che è una statistica da considerare, non quella di cui parleremo tra poco).

Alex per due anni si trascina dietro l’aspirapolvere in case lussuose e fredde, abitate da benestanti infelici, porta a casa otto dollari e cinquanta l’ora (lordi), per coprire l’affitto da 550 dollari, pagare l’asilo per Mia, pagare da mangiare, le bollette, la benzina, un’auto mezza scassata. Ma è felice di tornare a casa e trovare sua figlia: sogna di costruire per lei un diverso futuro, e comincia a scrivere un diario sulle case che visita e che pulisce.

Insomma non ci sono tanto vittime e carnefici, ma un sistema che produce vittime e carnefici e tutto il calvario che deve subire chi voglia sottrarsi e avere una possibilità di riscatto, compreso chiedere l’elemosina quando ti mancano tre dollari per fare benzina per andare a pulire come un fantasma che passa da villa con vialetto ad abitazioni di accumulatori seriali.

C’è luce e c’è rabbia in questa serie, c’è dolore e mostri da combattere, perché se non hai da vivere con i mostri tocca pure tornarci ad avere a che fare.

Ma cosa ha a che fare Maid con Eudoscopio?

In questa settimana è uscita la “classifica delle scuole d’Italia” che lo slogan sul sito di Eudoscopio spiega così “Scopri quali scuole della tua zona danno una marcia in più per l’università e il mondo del lavoro e scegli quella più giusta per te. Oltre 7.500 scuole messe a confronto a partire dagli esiti universitari e lavorativi di 1.267.000 diplomati”. Cifre che a prima vista impressionano. Ma davvero “raccontano” una scuola e possono indirizzare le scelte?

Ho visto molti post di condivisione che mostravano il “Liceo migliore in Calabria”, il “liceo migliore nella mia città”, siamo oramai tutti alla ricerca di un primato da mostrare, qualcosa di cui andare fieri, perfino quando il senso sfugge. E qui sfugge parecchio.

Eudoscopio è una costola della Fondazione Agnelli che a sua volta è un istituto indipendente di ricerca nelle scienze sociali, senza scopo di lucro.
“È nata nel 1966 a Torino, dove ha la sede, per volontà dell’Avvocato Agnelli, in occasione del centenario della nascita del fondatore della Fiat, il Senatore Giovanni Agnelli. Ha a cuore il miglioramento dell’istruzione pubblica e ne studia le tre dimensioni fondamentali: l’equità, in termini di sostanziale diritto allo studio per tutti, l’efficacia, in termini di qualità degli apprendimenti e delle competenze, e l’efficienza, in termini di migliore impiego possibile delle risorse (fonte e informazioni qui https://eduscopio.it/il-progetto)

Detto così sembra encomiabile: che una Fondazione privata abbia così a cuore la scuola pubblica, sembrerebbe cosa buona; ma attenzione: sono anni che proprio attraverso una politica che ha innescato un forte senso di competizione tra gli istituti scolastici parlando di performance con dati statistici basati su rilevazioni Invalsi e presunti successi o insuccessi universitari degli studenti, che il vero scopo è svuotare di senso la funzione educativa della scuola, la sua capacità di accesso e rinforzare un sistema che oramai è in atto da anni: i poveri al professionale (devono lavorare) la classe media ai tecnici (devono amministrare) la classe agiata ai licei (devono dirigere diventare i professionisti di domani). Non ve n’eravate accorti? Ebbene funziona più o meno così e molto di più che in passato, in barba ai proclami.

Perché nessuno ci offre uno studio che invece di partire dall’esito parta dagli inizi e ci mostri come veramente stanno le cose?

Alex, la protagonista di cui sopra, in quel sistema che espelle i poveri in America e li strozza con la burocrazia caso mai pensino a un riscatto sociale ed economico, vorrebbe andare al College, l’avrebbero anche presa: a lei piace scrivere. Ma caspita, costa! E lei non ha i soldi. Lei deve pulire cessi.

Ecco perché quando condividete un post che esalta la scuola con “un” primato sulla base di presunte “performance” (che potrebbe andar bene per le scuole private, che non cito a caso), fatevi due domande sul disegno che c’è dietro. Molti ragazzi e ragazze con le loro famiglie scelgono sulla base di un futuro già scritto o accessibile “per” loro, anche se i desideri, i talenti, le ambizioni e i sogni sarebbero altri (e chi dovrebbe averli in carico, questi individui con sogni, se  non la Scuola?)

Fatevi un regalo: guardate Maid, che ha un finale molto bello perché è consolante e grandioso che Alex ce la faccia e anche il modo in cui alla fine passa quel limite maledetto. Lei è quell’uno su mille della canzone.

Ma l’amara domanda è: e gli altri 999? Che fine faranno? Noi, sempre di più, ci avviciniamo a quel sistema in cui a decidere per gli individui sono le regole del mercato, i ricchi e i poveri e dipende in quale parte del mondo nasci o in quale famiglia vieni al mondo.

Eudoscopio, Fondazione Agnelli e Confindustria, a braccetto.

La Scuola è, o dovrebbe essere, ben altro.

Ipnosi collettiva

Sono quasi le otto, entro in una scuola semideserta, fa uno strano effetto aggirarsi per corridoi senza incontrare nessuno. Qualche sparuto collega, facciamo perfino fatica a riconoscerci talvolta, con questi volti semicoperti, basta un diverso taglio di capelli per chiedersi “scusa chi sei?”.

Oggi è giorno di DDI, ovvero metà presenza metà DAD, queste sigle ormai identificano il nostro agire quotidiano nella schizofrenia delle settimane e dei giorni alternati, delle chiusure e riaperture a singhiozzo, un gioco di stop and go tale che al mattino apri agli occhi e ti chiedi nell’ordine: che giorno é, settimana dispari o pari? in presenza o in dad? esco o sto a casa? Senza contare quelli che hanno richiesto la DAD e a scuola non vengono comunque.

Entro in classe, studenti e studentesse sembrano piccole lumache languide che strisciano sulla foglia verde d’insalata: si muovono piano, prendono posto a piccoli gruppi, distanziati ma almeno più vicini, le porte rimangono aperte, le finestre, se la temperatura lo consente, lo stesso. Un’atmosfera rarefatta, pesante, come muoversi in un ambiente che non si (ri)conosce.

Saluti quei cinque o sei, quasi mai arrivano a dieci, seduti in fondo all’aula, i primi banchi rimangono vuoti, ed è proprio il senso di vuoto che prevale su tutto, la dimensione irreale di questa scuola “in presenza”.

Sfili dallo zaino il “tuo” tablet e ti connetti, apri la classe virtuale e il registro on line: è l’ora dell’appello; ti sposti da una schermata all’altra chiedendo silenzio ai pochi presenti in classe (che hanno giustamente voglia di chiacchierare) perché hai difficoltà a sentire quelli che sono a casa; quando sei in un’aula semivuota quei francobolli sullo schermo ti sembrano ancora più piccoli, sfuggenti, difficili da controllare. Ed è così durante tutta la lezione, non puoi usare strumenti altri nel gestire i due gruppi. Alle volte qualcuno di là dello schermo ti chiama, vuol rispondere o fare una domanda e tu non lo senti, e quello deve insistere “prof, prof… prooof” magari solo per dirti mi sono connesso in ritardo, ma sono “presente”, finché non rispondi. Esigi il silenzio per comunicare decentemente.

Dobbiamo adattarci, va bene. Va tutto bene. Va tutto bene ragazzi, dobbiamo resistere e resisteremo: fai fatica a dirlo a te stessa ma a loro devi dirlo convintamente, altrimenti è la fine.

Cambio d’ora, cambi aula, ricominci. I ragazzi non possono uscire se non a intervalli, non hanno pausa d’intervallo e i capannelli che al mattino ci sono fuori dalla scuola qui si disperdono e diventano come tanti soldatini dritti alle postazioni.

Reclamano la vita sociale, quelli che stanno fuori da qui, piangono per gli adolescenti che non ce l’hanno, continuano a imporci inchieste e sondaggi: ma la vita sociale a scuola è lo sciamare vivo nei corridoi, tra le classi, uscire all’aria nell’intervallo, nel “posso dare un morso al tuo panino?” nell’incontrare quel ragazzo o quella ragazza che fa tremare le palpebre e il cuore, nel parlare con i compagni attorno a un banco, nel darsi le pacche perché la squadra del cuore ha vinto, nello spiare il quaderno del vicino di banco, nel timido attaccato al termosifone che osserva i compagni: tutte cose che a scuola adesso non si possono fare più

La retorica dell’informazione: l’adolescente intervistato al tg di spalle che afferma che gli manca la scuola, i compagni, la presenza. Cose vere, perché mancano, come si farebbe a dire il contrario, ma che a dirla tutta a scuola non possono ritrovare e, siccome non siamo in lockdown, non ne sono del tutto privi, perché escono, si incontrano, frequentano locali.

Ma a scuola: a scuola adesso la vita sociale semplicemente non c’è. La verità è che ad andarci è un grande contenitore spento, semivuoto, una tv fulminata: troppo silenzio, troppa immobilità, la sala insegnanti vuota, il timore di avvicinarsi troppo, l’ansia di controllare tutto, le macchinette di bibite e snack piene, i disinfettanti ovunque.

E perfino io, che lo scorso anno ho avversato l’idea che la DAD fosse “scuola” con tutta me stessa, contro la pletora di interventi dal tono “si apre il mondo nuovo nell’istruzione, la dad è il futuro“, confesso che adesso preferisco una buona dad a questa soluzione di compromesso in cui la maggior parte ha comunque scelto di stare a casa e la frustrazione collettiva se mai accresce.

Io nel frattempo, come molti altri, la DAD ho imparato a usarla, a metterla a punto, so interagire, so condividere, so integrare lezioni con video, racconti e quant’altro, so come coinvolgerli, come farli lavorare e poi mostrare a tutti i risultati di un’attività svolta, tecnicamente va molto meglio, ci “siamo(NOI) attrezzati, noi, senza aspettare che dall’alto ci aiutassero a farlo. Adesso so come dialogare con lo studente più fragile, come correggere individualmente un lavoro e farlo ragionare. Certo è più faticoso, richiede più tempo, più energia, usiamo contemporaneamente strumenti e chat che invadono le nostre giornate e tutto l’arco delle ore è tempo di lavoro, ma è come scegliere fra una pastasciutta al dente e una pastasciutta scotta: la scuola in DDI, almeno per me lo è: incolore, insapore, ho difficoltà a mettere a frutto il tempo-scuola-in-presenza-dad.

Abbiamo fatto il callo a tutti coloro che parlano di scuola senza sapere di cosa si tratti realmente, alle campagne mediatiche guidate con complicità dei giornalisti che cavalcano l’onda perché quella cosa che si chiama senso critico o farsi due domande non esiste più.

Viviamo in una sorta di manto sottoposti a ipnosi collettiva e se adesso leggiamo la notizia “Riapertura scuole, Draghi non vuole tornare indietro. Ipotesi lezioni in musei e spazi all’area aperta” (peraltro ventilata anche lo scorso anno) o uno dei ministri che afferma “Draghi era convintissimo sul ritorno in aula, il più convinto di tutti. Su questo sono certo che non tornerà indietro, vuole i ragazzi in classe. La scuola prima di tutto, ha detto mentre decidevamo delle riaperture, ricordandoci come l’istruzione sia rimasta drammaticamente indietro in questo anno di pandemia“. La parola d’ordine resta ‘ripartire in presenza’, noi ci crediamo: che bello Presidente, finalmente! LA SCUOLA PRIMA DI TUTTO!

Vorrei dirlo alla mamma di quel mio ex alunno che qualche giorno fa mi diceva aver preferito la dad: “professoressa, dovrebbe alzarsi alle 6 per prendere l’autobus e poi stare in giro due ore prima di entrare a scuola, e cosa vuole che facciano? si assembrano da qualche parte. Io ho paura” Ecco signora, Dragonik e il suo governo ha pensato anche a lei!!

Si lavora al potenziamento dei mezzi pubblici – vero tallone d’Achille del sistema scuola, soprattutto alle superiori – ai tracciamenti, agli ingressi scaglionati per evitare assembramenti……. ma che meraviglia Presidente! E’ dall’anno scorso che ne sentiamo parlare, ci voleva lei, il banchiere Dragonik e il suo problem solving prima di tutto, lo dicono che lei è uomo dei miracoli, competente e preparato, è vero!

Oggi, 20 aprile, a scuola ormai finita, senza una parola verso coloro che da un anno e mezzo lavorano con lo stop and go e tutto il marasma che questo comporta in ogni scuola (che non è un ristorante o un bar o una palestra, la scuola: centinaia di persone ogni giorno tra autobus e aule) loro “LAVORANO“… E noi non possiamo che esserne felici.

Dragonik, dallo sguardo assassino, come si dice, ce la sa eccome!!

Liberi tutti: e se i numeri suggeriscono cautela e in alcuni casi perfino pericolo, che importa. Bisogna tornare a essere normali.

Lo dicono loro.

Risolvono tutto per la prossima settimana, garantito da Dragonik.

Io, insegnante, una privilegiata

Era ottobre, novembre, a volte anche primi di dicembre, non era mai dato sapere.

Non c’era WhatsApp, nessun mezzo rapido di comunicazione.

Era un sentirsi per telefono, fare il solco agli uffici del provveditorato, (allora si chiamava così) i punteggia sbagliati, le file interminabili. Era uno scambiarsi di informazioni febbrili.

Era il caos delle graduatorie provinciali ogni anno, il fiato sospeso nell’attesa di sapere se avresti lavorato, quando, come e dove.

Poi erano le convocazioni, la fiera delle chiamate a servizio, in scuole o sedi che quasi mai erano idonee ad ospitare centinaia di insegnanti.

Era il bivacco nei corridoi come sacchi, la ricerca di una sedia ogni tanto, le ore di attese e di “esci a fumare una sigaretta?”

Se ti capitano le medie a Borgo prendi o lasci?” Erano le domande, per qualcuno che si piazzava su una graduatoria era la speranza per qualcun altro.

Era, a volte, gran parte delle volte, arrivare alla sera e sentir dire interrompiamo riprendiamo domani. Poi magari l’indomani c’era sempre qualcosa da correggere e si andava al pomeriggio, e di nuovo al giorno dopo ancora.

Ci sono incubi peggiori, certo. Ci sono sempre incubi pegnori, ma era il lavoro, lo stipendio, il pagare affitti e bollette.

Credo di aver vissuto insieme a migliaia come me la stagione più lunga di quello che non a caso era ritenuto il precariato storico, nella scuola non c’era ombra di assunzioni e non c’è stata per anni. Per me sono stati circa 15 anni, di cui relativamente più stabili soltanto gli ultimi cinque quando, scalata finalmente la graduatoria, arrivavi alla fatidica supplenza al 31 agosto che equivaleva a non dover fare la pratica di disoccupazione per i mesi estivi.

Quello delle convocazioni era un rito desolante, un ciondolare di corpi esausti a un mercato di elemosina di nomine, persone che scaricavano l’ansia soltanto quando uscivano finalmente con un foglio in mano e una nomina e a quel punto dove e quando non importava, dritti a prender servizio, si tornava a scuola.

Ricordo un anno in cui un collega di lettere che aveva superato i 50, con una storia burocratica kafkiana (che in quegli anni – attenzione – era la norma, perché le regole cambiavano in continuazione) a settembre fu assunto: contratto a tempo indeterminato. Alle convocazioni successive l’impiegata del provveditorato quando arrivò al suo nome ancora in elenco si fermò e disse: “questa è una soddisfazione personale che devo prendermi”. Si alzò e pronunciò il nome e poi aggiunse “assunto”. Inutile dire che scattò l’applauso generale, sia per chi come noi lo conoscevano, ma anche per gli altri.

Molti di noi, in alcuni casi ormai amici più che colleghi, il giorno in cui firmarono il fatidico contratto di assunzione piansero, non si trattava del famigerato posto fisso, ma della continuità, che soltanto gli addetti ai lavori possono comprendere: finalmente avresti lavorato in una scuola, la tua. Eh sì, perché ogni anno era un giro di danza: nuove destinazioni, nuove scuole, nuove classi, nuovi alunni, migliaia di studenti che non vedevano mai gli stessi insegnanti anno dopo anno, ogni partenza dell’anno scolastico si ricominciava sempre da capo, tutti. Era così che funzionava la scuola, in maniera molto maggiore che adesso e non stiamo parlando del secolo scorso, ma di una quindicina di anni fa. Questo è il modo in cui hanno tenuto in considerazione la scuola e i suoi attori: insegnanti, studenti e famiglie.

Ecco anche perché io per circa dieci anni, residente a Firenze, preferivo fare la pendolare, speravo sempre che alle convocazioni “rimanesse” Borgo San Lorenzo, sede da molti considerata disagiata e professionale difficile (anche perché era la regola che gli ultimi arrivati beccassero le classi peggiori e ne ho visti volare sedie e pugni) ma almeno sentivo quel senso di familiarità, di essere parte, di costruire un percorso. Mi alzavo prima delle 6, prendevo il bus che era ancora buio per andare alla stazione, da lì avevo circa un’ora di viaggio. Rientravo alle tre e mezzo, ma molto più spesso alle sei di sera, visto che allora si facevano i pomeriggi.

Certo c’è di peggio, c’è sempre di peggio, eppure eravamo insegnanti, in teoria un pezzo importante della società, in pratica eravamo precari che baciavano a terra per la grazia del lavoro ricevuto (no, non esagero, tre mesi senza stipendio, ed erano stipendi minimi) a un’età che ci portò a varcare i 30 e poi i 40 ad aspettare le assunzioni.

Poi vennero gli anni in cui istituirono la SSIS, le scuole di specializzazione, mi pare fosse proprio Berlinguer, a noi precari parve subito chiaro che fosse un bel regalo alle università, visto che i corsi erano a pagamento. La scusa era che bisognava far entrare i giovani, e certo, noi nel frattempo eravamo invecchiati. Con le SSIS il diritto alle supplenze e alle assunzioni si dimezzò: 50% su una graduatoria, 50% su un’altra. Fu una guerra, eravamo inviperiti, agguerriti gli uni contro gli altri. Si allontanava la parola fine alla precarietà, si creavano altri precari. Manovre politiche, che niente cambiavano “dentro” la scuola.

Oppure l’istituzione dei corsi di perfezionamento: la corsa ai punti, ogni corso valeva 1 punto e costava dalle 350 alle 400 euro. La parte da leone la faceva la Facoltà di Scienze della Formazione. E qui non posso non ricordare la scarsa, scarsissima qualità di quei corsi PAGATI per avere quel maledetto punto in più, almeno fossero stati formativi: era un bieco mercato di punti. Un anno ne scelsi uno Educare alla Lettura, vai, mi dissi, almeno questo mi interessa, ebbene la cosa che ricordo è l’aula Magna del Liceo Michelangelo di Firenze quando arrivò un’avvenente giovane assistente universitaria da Pisa che tenne una lezione su: Jack Frusciante uscito dal gruppo, il Giovane Holden, la cacca in non ricordo più quale romanzo della Pitzorno. Lei sarebbe stato inutile ucciderla, visto che innocente, ma la frustrazione era tanta che qualcuno al Ministero sì, lo avresti ucciso volentieri. Tempo e soldi sprecati. A lei avremmo solo potuto dire: ma come ti permetti? Ma da quale cacchio di pianeta arrivi? Il giovane Holden? Al massimo ti fai una risata! Educare alla lettura!

Eravamo invisibili. Questa è stata la scuola dei Ministri delle riforme, dell’innovazione, della mancanza di investimenti.

Un privato non avrebbe potuto fare quello che faceva lo stato, non era legale: c’era la continuità, il licenziamento annuale di fatto era un sopruso.

Nel 2008 un sindacato avviò una vertenza con migliaia di ricorsi  e denunce alla Commissione Europea, perché un lavoratore precario poteva essere chiamato anche un numero di volte illimitato ad accettare un contratto a tempo determinato (le supplenze annuali) e quando nel 2014 arrivò  Renzi con la Buona scuola spacciò le assunzioni come un suo miracolo, in realtà erano dovute perché quell’annuncio sbandierato come “il più grande investimento” sulla scuola italiana degli ultimi decenni era, ripeto, atto dovuto: i precari che hanno superato il 36 mesi di insegnamento devono essere assunti, oppure risarciti, il che per il governo sarebbe stato davvero un grossissimo guaio.

Noi del precariato storico eravamo stati assorbiti da poco, ma alle spalle avevamo anni come quelli che ho cercato di raccontare.

Abbiamo subito la Riforma Gelmini (che non era una riforma ma soltanto un taglio dei posti di lavoro tanto per ritagliare risorse da destinare alla scuola privata) ed io personalmente ho preso parte alla manifestazione a Roma, una cosa mai vista, non siamo riusciti neanche a raggiungere il luogo di partenza, le metropolitane erano intasate, migliaia di autobus e nessuno che si aspettasse quella reazione. È successo qualcosa in risposta? No.

Abbiamo contestato allo stesso modo la 107 di Renzi, uno sciopero con adesione imponente. Hanno tenuto di conto cosa diceva il mondo della scuola? No. (Ne scrissi qui https://danielagrandinetti.blog/2016/01/23/23-gennaio)

Ci siamo beccati il suo sottosegretario Faraone, che parlava di scuola come se fosse casa sua ma non era neanche laureato (ah, poi la laurea l’ha presa, a 16 anni dalla sua iscrizione, in Scienze Politiche, forse perché poverino gli era venuto il complesso e sia chiaro, non perché la laurea equivalga a intelligenza, anzi, ma visto che scassavano tanto con quella riforma sul famigerato riconoscimento del “merito”, l’ironia era d’obbligo).

C’è stato il ministro Profumo che diceva che con gli insegnanti bisognava usare il bastone e la carota, abbiamo poi avuto le idee brillanti della Ministra Fedeli, solo per ricordare gli ultimi anni, nella quale qualcuno aveva anche riposto speranze vista la sua esperienza nel sindacato, ma che ricordiamo perché a un certo punto tirò fuori dal cilindro l’uso dei cellulari nella didattica, i corsi di formazione per insegnanti sui videogiochi (ne ho scritto qui, poi il post è stato condiviso oltre le mie aspettative https://danielagrandinetti.blog/2017/09/12/w-luso-del-cellulare-a-scuola/ )

E arriviamo alla Dad

In questo scritto di memoria, non posso esimermi dal fare un riferimento agli ultimi due anni, quello scorso e quello in corso: ebbene lo scorso anno per la ministra Azzolina eravamo eroi anche noi come il personale sanitario, perché avevamo retto l’impatto della pandemia con la didattica a distanza. E giù l’esaltazione della tecnologia, del tesoro che l’esperienza avrebbe costituito anche per il futuro. E io, e tanti scettici come me, a dire: attenzione, questa è emergenza, ma la dad non è scuola, la scuola ha bisogno di presenza, di contatti, di respiri, di sguardi. Eppure l’abbiamo fatto, in massa, magari con le debite eccezioni, per carità, ma la scuola (leggi insegnanti, e qui davvero, INSEGNANTI) ha retto l’urto.

Quest’anno la situazione si è ribaltata: la Dad non è scuola dice la Ministra, bisogna riaprire (ma nel frattempo a parte le rotelle non abbiamo visto grandi misure per questa “scuola in sicurezza”, che poi qualcuno me lo spiegherà come fa a essere sicuro un luogo dove comunque, anche al meglio dell’organizzazione, circolano centinaia di persone ogni giorno e di vaccini per noi non se ne parla, siamo in coda con gli altri). La parola d’ordine è supportata da un movimento d’opinione che vede quotidianamente articoli sulla solitudine degli adolescenti, improvvisamente vittimizzati da schiere di madri (padri se ne sentono pochi, come mai?) e opinionisti, come se questi millenium non vivessero già da prima una vita sociale connessa. Io, dal mio piccolo angolo, parlo con studenti e studentesse ogni giorno, e mi pare che responsabilmente dicano che sì, preferirebbero la scuola in presenza, eccome se no, ma la situazione è tale che meglio sarebbe non rischiare. Certo, ho lunga esperienza nei professionali da sapere che in alcune scuole il rischio di dispersione è più alto, ma attenzione: la dispersione c’era prima come adesso, solo che adesso serve da baluardo politico, perché la scuola improvvisamente è terreno di scontro politico. Io ho la nausea.

Non ultimo non c’è giorno in cui l’Invalsi con le sue ramificazioni amiche (IlSole24ore, Confindustria) non esca con qualche articolo allarmista sul learning loss, sul fatto che questi due anni sono anni PERSI. E qui, mi perdonerete, alzo la voce: ma come ti permetti tu, Anna Maria Ajello, Presidente Invalsi, con la tua cricca e con una ministra che anziché difendere il settore in cui opera sta dalla vostra parte e dice le stesse cose, di continuare a propinarci teorie sulla MISURAZIONE DEL SAPERE CHE METTE A RISCHIO – DICIAMOLO – LA TUA BARACCA, QUELLA CHE VI FORNISCE LAUTI STIPENDI MA NIENTE, DICO NIENTE, CHE ABBIA REALI RICADUTE SULL’ISTRUZIONE E I SUOI SISTEMI? COME SI PERMETTE?

Io mi alzo alle 8 ogni mattina, accendo il pc, sono stanca, dopo tutti questi mesi, ma so che non posso permettermi di mostrarlo, accendo la telecamera su volti e più spesso su icone, ma non per questo mi arrendo, non per questo perdo il mio e il loro tempo, faccio lezione tutti i santi giorni, poi pranzo e il pomeriggio in gran parte trascorre a caricare attività su classroom, scannerizzando materiali frutto di ricerche, perché è necessario  trovare mezzi e modalità che mi consentano di tenere una buona attenzione, di stimolare la partecipazione. Certo se stessi ogni giorno a fare la mia bella spiegazione autogratificante e dicessi studiate da pagina a pagina sarebbe più semplice e meno faticoso, ma in questo frangente sappiamo di non poter agire così. Quindi tutti i giorni tra leggere compiti svolti e caricare materiali è altro tempo, tanto tempo, con il cervello che perde colpi. Senza contare le chat di WhatsApp, sempre a disposizione di chi ha bisogno di un chiarimento, di una risposta, o tra noi insegnanti per cercare di arrivare a qualcuno o qualcosa. Numeri di telefono ai genitori di ragazzi problematici, fili diretti, riunioni extra a gogò in aule virtuali. Meet ormai è casa mia. Dunque: come vi permettete?

Come al solito parlano persone che non sanno niente di scuola, che mai sono stati in una scuola se non come studenti, ma loro sono ESPERTI, e ben pagati, noi invece siamo numeri, caselle da spostare da un colore all’altro. Non c’è giorno in cui l’Invalsi e la sua cricca non rimarchi la necessità di lavorare a luglio, ad agosto per recuperare il learning loss (parla come mangi, diceva un antico adagio!) tanto per avvalorare quella tesi così popolare secondo la quale noi non lavoriamo, noi siamo fannulloni, noi siamo dei privilegiati con il nostro stipendio rubato alle tasche dei contribuenti. Infatti nel dibattito di quest’ultimo periodo molte mamme, molti studenti che si ammalano dentro (ma sono in trincea? Combattono? Fanno la fame? Non hanno da vestirsi?) ma mai insegnanti, l’unica che spopola è la comica Mannino con le sue parodie sulla dad.

Di fatto noi non abbiamo più un “tempo scuola”, noi abbiamo da mesi una vita connessa senza spazi né tempi.

La scuola pubblica, baluardo della Repubblica, con buona pace di Calamandrei e quelli che si ama citare, è un mosaico informe di polipi e tentacoli. Le parole e i fatti.

E io, dovrei sentirmi una privilegiata?

Se siete arrivati in fondo, voi che leggete, non posso che ringraziarvi, nonostante non avessi voglia ho scritto questa lunga memoria riflessione soltanto perché sono stanca, stanca dentro, anche se nessuno se ne accorgerà mai perché accendo la telecamera con il sorriso e la carica giusta. Dentro c’è l’amarezza di una voce che abbiamo perso, insieme all’autorevolezza del ruolo

In prima ho una ragazzina cinese, parla poco l’italiano, negli ultimi giorni mi manda spesso messaggi su WhatsApp per farmi domande sulle cose da fare. Io le rispondo, le mi risponde con emoticon: cuoricini e faccette arrossate. IO LO SO che questa ragazzina sta traendo quel po’ di spinta che le serve da questi insignificanti contatti, in virtù del semplice fatto che le rispondo, perché anni di esperienza mi dicono che in assenza di altri e più consoni mezzi, intendo fisici, questo è un modo per rinsaldare l’autostima. C’è una mamma che mi ha chiamato giorni fa per dirmi che sua figlia, in prima anche lei, beh, non era così contenta di studiare da anni (la ragazza ha una storia di bullismo alle scuole medie) mi ha confessato che, con tutti i suoi limiti, è rinata. Mi ha ringraziato, non solo me, ma anche gli altri insegnanti.

Ecco, sono arrivata alla fine. Qui sta il mio lavoro, la mia esperienza, il mio mondo: nelle ultime righe.

Per tutto il resto c’è MasterCard.

MI CHIAMO VLADIMIRO, HO SEDICI ANNI

È la sesta ora e non ne posso più. Lento è ancora lì alla lavagna che fa cerchi e triangoli, ma cosa c’ha nella testa? Se invece di darci le spalle si voltasse e si guardasse intorno si accorgerebbe di come vanno le cose. Stancanelli è al cellulare che gioca, Muraro chatta con la fidanzata, Mattei sta sprofondando nel sonno eterno. Non ce n’è manco uno ad ascoltarlo. A parte Ferraro e Muraca, che si sa, nella vita non hanno un cazzo da fare quindi studiano e sono i cocchi dei professori. In tutte le classi ci sono quelli come Ferraro e Muraca, che poi sono quelli che fanno sentire i professori onnipotenti, giusti insomma.
Le gambe sotto il banco mi tremano, sono già due volte che Vauro mi chiede di smettere. Dice gli sembra ci sia un terremoto e si impressiona.
Vauro è il mio compagno di banco, un tipo mica tanto sveglio. Uno spilungone con gli occhiali e gli occhi chiari che quando parla lo fa senza muovere le mascelle. Sembra sia mosso da un ventriloquo. Credo me l’abbiano messo accanto perché mi considerano uno agitato, così con lui non posso parlare. Cosa gli vuoi dire a uno che si chiama Vauro e sta impalato sei ore su sei?
Una volta gliel’ho anche chiesto da dove venisse quel nome strano, io pensavo di aver capito male, credevo si chiamasse Mauro. Invece no, ha specificato lui con aria da precisino, Vauro. Con la V. Poi ho capito a malapena che era il nome di suo nonno. Bella scoperta! Il novanta per cento della popolazione porta il nome del proprio nonno, è che io Vauro non l’avevo mai sentito prima. Comunque tutto sommato gli è andata bene. Figuriamoci se il nonno si fosse chiamato che so, Evaristo o Ermenegildo.

«Allora, tutto chiaro?»
Lento si è voltato di scatto, nell’aula c’è stato un sussulto simultaneo, come un’onda. Tutti hanno fatto sparire i cellulari sotto il banco, via i giochi, il fantacalcio, le foto porno, le fidanzate in linea. Tutti con gli occhi puntati alla lavagna e i quaderni davanti. Mattei al secondo banco il sussulto non ce l’ha avuto. Si è addormentato proprio. Si è svegliato perché il compagno di banco gli ha dato una gomitata. Ha sollevato la testa e si è guardato intorno. Sembra una bertuccia intorpidita che ha avuto un risveglio brusco. Soltanto Ferraro e Muraca rispondono un sì convinto. Talmente convinto che il professore si va a sedere soddisfatto.

Ma quando finisce? Non ne posso più. Mancano venti minuti e sembrano un’eternità. L’ultima ora non passa mai.
«Allora per la prossima volta fate gli esercizi a pagina 238, dal numero 1 al 10.» Lento neanche alza gli occhi e passa dal libro al registro, dove va a segnare i compiti per venerdì, quando avremo il piacere di rivederlo per due ore di fila. Non si accorge che nessuno ha segnato niente, nemmeno abbiamo tirato fuori i diari, a parte Ferraro e Muraca ovviamente. Alcuni perché gli esercizi li copieranno da Ferraro e Muraca altri perché tanto c’è il gruppo su whatsapp dove se hai voglia puoi sapere anche quanti peli ha Lento sul culo (per la cronaca: non sono io maleducato, è che è proprio questo il linguaggio della chat).

Intanto si sono fatte le due meno dieci, se Dio vuole questa tortura sta per finire. Io sto seduto all’ultimo banco. Mi alzo e vado alla porta. Almeno comincio a sgranchirmi le gambe.
«Martena mancano ancora dieci minuti alla campanella, quindi va’ a sedere al tuo posto. E levati quelle cuffie!»
«Ma prof, mancano pochi minuti!»
«Martena ho detto vai a sedere al tuo posto. Immediatamente! Altrimenti giuro ti tengo qui altri dieci minuti dopo il suono della campanella.»

Eccolo il professor Lento, lento di nome e di fatto, che prova a fare il grosso con me mentre sono qui che fremo aspettando che suoni l’ultima campanella. E sì che lo sa che con le minacce ci vado a nozze.
Ora che ci penso però ho presentato tutti tranne me: mi chiamo Vladimiro Martena, detto Villi, che è il mio soprannome da sempre ma non chiedetemi perché, non lo so. È un po’ come il nome di Vauro. Ho sedici anni, bocciato una volta alle scuole medie, in terza per la precisione, sono il classico disadattato. Quelli come me hanno il marchio di fabbrica, ovunque vadano.
La mia specialità a scuola è collezionare note sul registro, le colleziono come trofei, in quelle non mi batte nessuno. A me della scuola non me frega un cazzo, ci vengo se no mi mandano i carabinieri a casa. Dicono che ho l’”obbligo”. E allora se mi obbligano a starci poi però non mi devono rompere le palle se “disturbo la lezione”, come recitano decine di note a penna rossa in mio onore.
L’ora prima di Lento abbiamo fatto italiano, non ho idea su che cosa fosse la lezione perché come al solito avevo le cuffie. Di nascosto ascolto sempre la musica. A un certo punto la prof mi ha interpellato. Io ovviamente non l’ho sentita. Così sì è avvicinata mentre io guardavo la pioggia cadere fuori dalla finestra.
«Martena.»
Sento una mano che mi scuote.
«Martena, dico a te!»
Io mi sono levato una cuffia e ho alzato la testa. L’ho guardata come si guardano gli extraterrestri credo, lei non si è nemmeno arrabbiata.
«Ma che fai, invece di imparare qualcosa ascolti la musica?»
«Mi scusi prof. È che non mi sento bene.» Ho farfugliato.
«Non è un buon motivo per starsene con le cuffie a dormire sul banco mentre c’è una lezione.»
Non sapevo cosa dire. Non so mai cosa dire quando mi colgono in flagrante. Più che altro credo sia perché non me ne importa niente.
La Bertini mi ha guardato severa poi si è girata ed è andata verso la cattedra. Sulla via del ritorno ha sparato la seguente frase:
«Il fatto è, cari ragazzi, che voi non volete capire che la scuola, lo studio, sono fatica. La scuola è una palestra, vi allena, perché anche fuori da qui domani sarà così. Fatica. E voi è con questa parola che non andate d’accordo. La vita è dura, in nulla si riesce senza soffrire. E badate che è dura per tutti. Solo lo studio potrà darvi delle sicurezze.»
Ecco, quando parlano così, io mi chiedo se recitano, se lo dicono perché lo devono dire o cosa. Insomma non è possibile che credano veramente a queste stronzate.
Fatto sta che mi è venuto da ridere. E ho riso. Sia chiaro, non una risata sguaiata. Una risatina, diciamo così, una cosa innocua. Però la Bertini mi ha sentito. Beccato. E lì si è arrabbiata.
«Martena che fai ridi? Sono cose che ti fanno ridere? Se tu avessi ascoltato la lezione avresti saputo che stavamo parlando di un poeta come Leopardi che è a voi che si rivolge. È a voi adolescenti che dice queste cose. Ma lui che fa? – si rivolge alla classe – lui ride – poi di nuovo a me – ma cosa avrai da ridere?»
«Niente, non ridevo per lei»
«E allora per cosa? Per Leopardi?»
«No. Però… insomma, vengo a scuola per sentirmi dire che la vita è dura? Che tutto è fatica? Ho sedici anni, prof, io mi voglio divertire.»
Ecco, mi ero tolto un bel peso dallo stomaco.
«E allora vai, Martena, vai a divertirti fuori. Così impari a essere insolente come il tuo solito.»
Mi sono alzato mentre lei prendeva la penna e annotava sul registro “Martena viene allontanato dall’aula perché si rivolge all’insegnante in modo insolente:” Le conosco a memoria queste formule. Sono cinque anni che le vedo e sono sempre le stesse anche se scritte da individui diversi.
Me ne esco, tra gli sguardi un po’ invidiosi dei miei compagni che continueranno a sentirsi le prediche della Bertini su quanto abbia sofferto Leopardi per rimanere a futura memoria.
Insomma stamattina mi sono beccato la quinta nota dell’anno, e siamo appena a dicembre.

La campanella ormai sta per suonare e io devo correre. Il suono dell’ultima campanella è l’unica cosa che mi piace della scuola. Sei ore con il culo su una sedia e sentire stronzate di cui non mi frega niente. Oggi piove pure porca vacca e devo andare a casa di mia madre che sta in centro. Devo camminare una mezz’ora buona a passo svelto prima di arrivarci. Quando arrivo là i giorni in cui esco da scuola alle due i miei fratelli sono già a tavola che mangiano, ma non è colpa mia se esco tardi e la scuola è in culo al mondo. A tavola ci sarà il solito piatto di pasta coperto con un piatto fondo, la pasta sarà già fredda e collosa da fare schifo, ma quando hai fame va bene tutto. Butto giù con il fiatone e punto.
Anche mangiare, tocca farlo di corsa. Mia madre se ne sta lì in piedi davanti alla lavatrice in preda all’ansia perché non vede l’ora che finiamo e ci leviamo di torno.
Il pranzo da mia madre è a tempo, come una bomba ad orologeria. Alle tre, massimo tre e mezzo, dobbiamo essere fuori da casa sua.
Dice che deve pulire tutto per bene prima che arrivino le “clienti”. Secondo lei a sedici anni mi bevo la storiella che fa la manicure, cioè che farebbe belle le mani e lisci i piedi delle signore bene di questa città, a casa sua.
Io lo so cosa fa mia madre. Fa la puttana. Ecco perché ha fretta di mandarci via. Riceve i “clienti” di pomeriggio. Come l’ho saputo non importa, non è stata una bella scoperta. Devo ammettere che molte volte ho avuto la tentazione di nascondermi e spiare gli uomini che si scopano mia madre, ma poi non l’ho mai fatto. Alla fine mi sono convinto che è un lavoro come un altro.
In fondo non me ne frega niente da dove vengono quei quaranta, a volte cinquanta, euro che mia madre mi dà ogni settimana, che per quattro fanno circa centosessanta euro, nel senso che io sono il secondo di quattro figli maschi: Mirko ha un anno più di me, poi c’è Alberto che ne ha dodici ed Enzino che ne ha nove e tra noi è quello che ha sofferto di più quando mia madre se n’è andata, più di un anno fa.
A dire il vero anch’io l’ho odiata, anche se poi quando ho cominciato a vedere qualche soldo ho pensato che in fondo era meglio così. La nostra casa, quella in cui siamo rimasti a vivere con mio padre, non è neanche una casa, è una vecchia catapecchia di pietra alla periferia di questa città.
Mio padre è disoccupato da tre anni e come se non bastasse è pure invalido, ha le gambe mosce e per muoversi deve usare le stampelle, non ho mai capito bene perché. È così da quando sono nato.
Comunque mia madre ha fatto bene a lasciarlo, è uno schifo d’uomo, quando non è pieno di vino è pieno di birra. O dorme o beve. O in alternativa si incazza con noi perché sa che mia madre ci dà dei soldi e a lui quelli che prende da non so dove non gli bastano per ubriacarsi tutto il giorno.
All’inizio ho pensato che ci stava che mia madre se ne andasse per via di mio padre, erano sempre urla e botte, ma non capivo perché avesse abbandonato anche noi.
Poi però dopo ho capito. Mia madre s’è sistemata mica male, s’è fatta un appartamento piccolo ma decente, e di sicuro con il lavoro che fa non ci può tenere con lei, almeno questo mi piace credere perché a dirla tutta non so se vorrebbe farlo, visto che a parte darci da mangiare a pranzo e allungarci qualche soldo non si preoccupa un granché di quel che facciamo. Per il resto dobbiamo arrangiarci. Lei non chiede mai niente, né della scuola, né della salute, né dei cazzo dei problemi che hanno gli adolescenti che ormai tutti ne parlano tranne lei. Persino la strizzacervelli della scuola dove mi hanno spedito un paio di volte.
In effetti l’unico motivo per cui vengo a scuola tutte le mattine è che non mi va di stare in quella cazzo di casa che puzza, a scuola mi rompo le palle ma almeno non c’è quella puzza di vino e sudore che c’è a casa mia. Né c’è mio padre, che a vederlo, con quelle stampelle e la pancia che sembra una mongolfiera, non è che faccia una bella impressione.

La campanella ora sta davvero per suonare e io come ho detto se voglio mangiare devo correre.
Prima di congedarmi però voglio farti i miei complimenti.
A chi, mi chiedi? Ma a te, sì, proprio a te. A te, lettore che stai leggendo e sei arrivato fin qui. Complimenti.
Però anche tu non hai capito niente, come tutti del resto. Tu sei convinto che io sia uscito dalla mente di quella che qui sopra ha messo il suo nome, come la chiamate? Autrice? Invece ti sbagli. Lei c’ha messo solo le parole giuste per far tornare i discorsi (non le cose, che quelle comunque non tornano).
Ma io. Io. A te che mi leggi. Te lo devo dire. Sappi che io sono vero.

La campanella è suonata, io devo andare, anzi, devo correre. Nella foga di uscire ho spintonato qualcuno, non so manco chi. Sento il professor Lento alle mie spalle che sta urlando….
«Martena, sempre il solito, sei proprio un animale!»

Fanculo Lento, tu e tutti gli animali come te.

S-parlare di scuola

downloadNegli ultimi giorni l’articolo di Michele Serra (ambiguo o provocatorio lascio a voi il giudizio) ha scatenato il solito balletto di polemiche sui social e sui giornali. Non mi interessa qui ri-parlare dell’argomento. E’ che mi convinco sempre di più che a parlare di “scuola” dovrebbero essere soltanto quelli che nella scuola ci vivono tutti i giorni e sanno di cosa si sta parlando, soprattutto oggi.
Del fattaccio di Lucca rimbalzato ovunque, dai social ai tg, si è detto di tutto: punizioni esemplari, famiglie assenti, educazione che è andata a farsi benedire, l’autorevolezza degli insegnanti andata a male e via discorrendo. Una cosa e il suo contrario, a seconda di come la si guardi.
Io la guardo da insegnante e vorrei dire una cosa semplice: che al di là di tante parole, sempre le stesse quando emergono fatti di cronaca, esiste una sola, facile soluzione. Tanto facile da non essere mai – ma guarda un po’ – contemplata.
Se avrete a pazienza di leggere il racconto che pubblico di seguito, vi anticipo che non mi sono sforzata a inventare la storia di Vladimiro: l’ho infiocchettata, ma la vicenda che lo riguarda è vera.
Nel racconto che ne faccio, gli insegnanti (che stanno sullo sfondo, non mi interessava raccontare una situazione scolastica ma soltanto la storia di Vladimiro) sembrano essere inadeguati a comprendere il suo disagio e Vladimiro è potenzialmente pericoloso, potrebbe essere il sedicenne di Lucca e forse anche peggio. Il fatto che per quest’ultimo sia intervenuta l’autorità giudiziaria è una sconfitta della scuola, ma ATTENZIONE, non perché gli insegnanti siano inadeguati (che per carità, ci sono in giro e parecchi) ma perché vuol dire che per l’ennesima volta la scuola non ha alcuna credibilità (alla faccia anche del Ministro Fedeli che invoca le bocciature).
Il fatto è, o voi tutti che non avete mai messo piede in un’aula scolastica, che di Vladimiro ce ne sono a migliaia e se quello che si dice sull’assenza delle famiglie è vero, spesso il problema è che Vladimiro non ha proprio famiglia.
Qual è allora la soluzione semplice cui accennavo qualche riga più sopra? E beh, miei cari, sono più di vent’anni che ci ammorbano con le “riforme” che di ri-forme non hanno un bel niente. Ci hanno reso dei burocrati stanchi che a ogni tornata di nuovo ministro si sentono dire che devono “formarsi”, ci hanno rovesciato addosso quantità di competenze che non hanno nella pratica alcun valore se non quello di obbligarci a riempire carte.
Vladimiro ad esempio a scuola sarebbe un BES: un bisogno educativo speciale, ovvero avrà una programmazione che dirà che è un alunno in difficoltà e una volta che l’avremo scritto saremo ritenuti a posto. L’importante è che siano a posto le carte, come si dice spesso.
Vladimiro potrebbe essere anche un DSA, ovvero avere un disturbo specifico dell’apprendimento. Avete idea di quanti ne arrivino ogni anno in una classe con questo tipo di certificazioni? Iperattivi, dislessici, disgrafici, discalculici? E giù altre carte da riempire, altri “patti” da far firmare alle famiglie, altri impegni che assumiamo a trattare quei ragazzi secondo  i loro bisogni specifici. Peccato che ad esempio se la quantità dei DSA cresce esponenzialmente, noi non siamo dotati dei pc che la legge e le carte dicono dovremmo usare perché quelli sono ragazzi che non sanno scrivere, per dirne una.
E allora eccole le soluzioni semplici: invece di spendere miliardi in corsi di formazione inutili, a mantenere baracconi senza alcun beneficio, a finanziare l’INVALSI, etc etc., voi lassù (e anche voi che non avete mai messo piede in un’aula) sappiate che basterebbe soltanto che di Vladimiro in una classe ce ne fossero soltanto quindici, invece di 25, 28, 30, 32 e a volte 33.
Quelle sono condizioni in cui nessuno di noi può più lavorare, educare, seguire i ragazzi come meriterebbero.
Potremmo rendere Vladimiro un uomo, dargli gli strumenti per crescere adeguatamente, aiutarlo a scoprire ciò che vuole diventare e farlo diventare quel che desidera. Magari un latinista, invece che un manovale, perché è un fatto che questo sistema lo espelle dalla scuola. Allora però, poi non mi fate fare il corso di formazione sul disagio e la lotta alla dispersione scolastica con la psicologa che mi racconta le favolette indiane, perché lì, sappiatelo,  mi incazzo. Come mi incazzo guardando un video in cui un adolescente fa il gradasso con un insegnante impotente. Lo avete permesso, avete creato tutte le condizioni perché ciò accada.
Io, come migliaia di miei colleghi – perché esiste nei fatti una buona scuola, ben prima del genio della lampada  – a Vladimiro ci tengo, ma nelle classi pollaio si possono solo crescere batterie di polli destinati al banco del supermercato, buoni per consumare ed essere consumati.

Soltanto meno alunni per classe, questa sarebbe l’unica, vera cosa da fare. Ma se si facesse di che parlerebbero poi i Serra, i Crepet, le Mastrocola, le Tamaro e anche voi?

 

MI CHIAMO VLADIMIRO, HO SEDICI ANNI

È la sesta ora e non ne posso più. Lento è ancora lì alla lavagna che fa cerchi e triangoli, ma cosa c’ha nella testa? Se invece di darci le spalle si voltasse e si guardasse intorno si accorgerebbe di come vanno le cose. Stancanelli è al cellulare che gioca, Muraro chatta con la fidanzata, Mattei sta sprofondando nel sonno eterno. Non ce n’è manco uno ad ascoltarlo. A parte Ferraro e Muraca, che si sa, nella vita non hanno un cazzo da fare quindi studiano e sono i cocchi dei professori. In tutte le classi ci sono quelli come Ferraro e Muraca, che poi sono quelli che fanno sentire i professori onnipotenti, giusti insomma.
Le gambe sotto il banco mi tremano, sono già due volte che Vauro mi chiede di smettere. Dice gli sembra ci sia un terremoto e si impressiona.
Vauro è il mio compagno di banco, un tipo mica tanto sveglio. Uno spilungone con gli occhiali e gli occhi chiari che quando parla lo fa senza muovere le mascelle. Sembra sia mosso da un ventriloquo. Credo me l’abbiano messo accanto perché mi considerano agitato, per usare un eufemismo, così con lui non posso parlare. Cosa gli vuoi dire a uno che si chiama Vauro e sta impalato sei ore su sei?
Una volta gliel’ho anche chiesto da dove venisse quel nome strano, io pensavo di aver capito male, credevo si chiamasse Mauro. Invece no, ha specificato lui con aria da precisino, Vauro. Con la V. Poi ho capito a malapena che era il nome di suo nonno. Bella scoperta! Il novanta per cento della popolazione porta il nome del proprio nonno, è che io Vauro non l’avevo mai sentito prima.
Comunque tutto sommato gli è andata bene. Figuriamoci se il nonno si fosse chiamato che so, Evaristo o Ermenegildo.

«Allora, tutto chiaro?»
Lento si è voltato di scatto, nell’aula c’è stato un sussulto simultaneo, come un’onda. Tutti hanno fatto sparire i cellulari sotto il banco, via i giochi, il fantacalcio, le foto porno, le fidanzate in linea. Tutti con gli occhi puntati alla lavagna e i quaderni davanti. Mattei al secondo banco il sussulto non ce l’ha avuto. Si è addormentato proprio. Si è svegliato perché il compagno di banco gli ha dato una gomitata. Ha sollevato la testa e si è guardato intorno. Sembra una bertuccia intorpidita che ha avuto un brusco risveglio. Soltanto Ferraro e Muraca rispondono un sì convinto. Talmente convinto che il professore si va a sedere soddisfatto.

Ma quando finisce? Non ne posso più. Mancano venti minuti e sembrano un’eternità. L’ultima ora non passa mai.
«Allora per la prossima volta fate gli esercizi a pagina 238, dal numero 1 al 10.» Lento neanche alza gli occhi e passa dal libro al registro, dove va a segnare i compiti per venerdì, quando avremo il piacere di rivederlo per due ore di fila. Non si accorge che nessuno ha segnato niente, nemmeno abbiamo tirato fuori i diari, a parte Ferraro e Muraca ovviamente. Alcuni perché gli esercizi li copieranno da Ferraro e Muraca altri perché tanto c’è il gruppo su whatsapp dove se hai voglia puoi sapere anche quanti peli ha Lento sul culo (per la cronaca: non sono io maleducato, è che è proprio questo il linguaggio della chat).

Intanto si sono fatte le due meno dieci, se Dio vuole questa tortura sta per finire. Io sto seduto all’ultimo banco. Mi alzo e vado alla porta. Almeno comincio a sgranchirmi le gambe.
«Martena mancano ancora dieci minuti alla campanella, quindi va’ a sedere al tuo posto. E levati quelle cuffie!»
«Ma prof, mancano pochi minuti!»
«Martena ho detto vai a sedere al tuo posto. Immediatamente! Altrimenti giuro ti tengo qui altri dieci minuti dopo il suono della campanella.»

Eccolo il professor Lento, lento di nome e di fatto, che prova a fare il grosso con me mentre sono qui che fremo aspettando che suoni l’ultima campanella. E sì che lo sa che con le minacce ci vado a nozze.
Ora che ci penso però ho presentato tutti tranne me: mi chiamo Vladimiro Martena, detto Villi, che è il mio soprannome da sempre ma non chiedetemi perché, non lo so. È un po’ come il nome di Vauro. Ho sedici anni, bocciato una volta alle scuole medie, in terza per la precisione, sono il classico disadattato. Quelli come me hanno il marchio di fabbrica, ovunque vadano.
La mia specialità a scuola è collezionare note sul registro, le colleziono come trofei, in quelle non mi batte nessuno. A me della scuola non me frega un cazzo, ci vengo se no mi mandano i carabinieri a casa. Dicono che ho l’”obbligo”. E allora se mi obbligano a starci poi però non mi devono rompere le palle se “disturbo la lezione”, come recitano decine di note a penna rossa in mio onore.
L’ora prima di Lento abbiamo fatto italiano, non ho idea su che cosa fosse la lezione perché come al solito avevo le cuffie. Di nascosto ascolto sempre la musica. A un certo punto la prof mi ha interpellato. Io ovviamente non l’ho sentita. Così sì è avvicinata mentre io guardavo la pioggia cadere fuori dalla finestra.
«Martena.»
Sento una mano che mi scuote.
«Martena, dico a te!»
Io mi sono levato una cuffia e ho alzato la testa. L’ho guardata come si guardano gli extraterrestri credo, lei non si è nemmeno arrabbiata.
«Ma che fai, invece di imparare qualcosa ascolti la musica?»
«Mi scusi prof. È che non mi sento bene.» Ho farfugliato.
«Non è un buon motivo per starsene con le cuffie a dormire sul banco mentre c’è una lezione.»
Non sapevo cosa dire. Non so mai cosa dire quando mi colgono in flagrante. Più che altro credo sia perché non me ne importa niente.
La Bertini mi ha guardato severa poi si è girata ed è andata verso la cattedra. Sulla via del ritorno ha sparato la seguente frase:
«Il fatto è, cari ragazzi, che voi non volete capire che la scuola, lo studio, sono fatica. La scuola è una palestra, vi allena, perché anche fuori da qui domani sarà così. Fatica. E voi è con questa parola che non andate d’accordo. La vita è dura, in nulla si riesce senza soffrire. E badate che è dura per tutti. Solo lo studio potrà darvi delle sicurezze.»
Ecco, quando parlano così, io mi chiedo se recitano, se lo dicono perché lo devono dire o cosa. Insomma non è possibile che credano veramente a queste stronzate.
Fatto sta che mi è venuto da ridere. E ho riso. Sia chiaro, non una risata sguaiata. Una risatina, diciamo così, una cosa innocua. Però la Bertini mi ha sentito. Beccato. E lì si è arrabbiata.
«Martena che fai ridi? Sono cose che ti fanno ridere? Se tu avessi ascoltato la lezione avresti saputo che stavamo parlando di un poeta come Leopardi che è a voi che si rivolge. È a voi adolescenti che dice queste cose. Ma lui che fa? – si rivolge alla classe – lui ride – poi di nuovo a me – ma cosa avrai da ridere?»
«Niente, non ridevo per lei»
«E allora per cosa? Per Leopardi?»
«No. Però… insomma, vengo a scuola per sentirmi dire che la vita è dura? Che tutto è fatica? Ho sedici anni, prof, io mi voglio divertire.»
Ecco, mi ero tolto un bel peso dallo stomaco.
«E allora vai, Martena, vai a divertirti fuori. Così impari a essere insolente come il tuo solito.»
Mi sono alzato mentre lei prendeva la penna e annotava sul registro “Martena viene allontanato dall’aula perché si rivolge all’insegnante in modo insolente:” Le conosco a memoria queste formule. Sono cinque anni che le vedo e sono sempre le stesse anche se scritte da individui diversi.
Me ne esco, tra gli sguardi un po’ invidiosi dei miei compagni che continueranno a sentirsi le prediche della Bertini su quanto abbia sofferto Leopardi per rimanere a futura memoria.
Insomma stamattina mi sono beccato la quinta nota dell’anno, e siamo appena a dicembre.

La campanella ormai sta per suonare e io devo correre. Il suono dell’ultima campanella è l’unica cosa che mi piace della scuola. Sei ore con il culo su una sedia e sentire stronzate di cui non mi frega niente. Oggi piove pure porca vacca e devo andare a casa di mia madre che sta in centro. Devo camminare una mezz’ora buona a passo svelto prima di arrivarci. Quando arrivo là i giorni in cui esco da scuola alle due i miei fratelli sono già a tavola che mangiano, ma non è colpa mia se esco tardi e la scuola è in culo al mondo. A tavola ci sarà il solito piatto di pasta coperto con un piatto fondo, la pasta sarà già fredda e collosa da fare schifo, ma quando hai fame va bene tutto. Butto giù con il fiatone e punto.
Anche mangiare, tocca farlo di corsa. Mia madre se ne sta lì in piedi davanti alla lavatrice in preda all’ansia perché non vede l’ora che finiamo e ci leviamo di torno.
Il pranzo da mia madre è a tempo, come una bomba ad orologeria. Alle tre, massimo tre e mezzo, dobbiamo essere fuori da casa sua.
Dice che deve pulire tutto per bene prima che arrivino le “clienti”. Secondo lei a sedici anni mi bevo la storiella che fa la manicure, cioè che farebbe belle le mani e lisci i piedi delle signore bene di questa città, a casa sua.
Io lo so cosa fa mia madre. Fa la puttana. Ecco perché ha fretta di mandarci via. Riceve i “clienti” di pomeriggio. Come l’ho saputo non importa, non è stata una bella scoperta. Devo ammettere che molte volte ho avuto la tentazione di nascondermi e spiare gli uomini che si scopano mia madre, ma poi non l’ho mai fatto. Alla fine mi sono convinto che è un lavoro come un altro.
In fondo non me ne frega niente da dove vengono quei quaranta, a volte cinquanta, euro che mia madre mi dà ogni settimana, che per quattro fanno circa centosessanta euro, nel senso che io sono il secondo di quattro figli maschi: Mirko ha un anno più di me, poi c’è Alberto che ne ha dodici ed Enzino che ne ha nove e tra noi è quello che ha sofferto di più quando mia madre se n’è andata, più di un anno fa.
A dire il vero anch’io l’ho odiata, anche se poi quando ho cominciato a vedere qualche soldo ho pensato che in fondo era meglio così. La nostra casa, quella in cui siamo rimasti a vivere con mio padre, non è neanche una casa, è una vecchia catapecchia di pietra alla periferia di questa città.
Mio padre è disoccupato da tre anni e come se non bastasse è pure invalido, ha le gambe mosce e per muoversi deve usare le stampelle, non ho mai capito bene perché. È così da quando sono nato.
Comunque mia madre ha fatto bene a lasciarlo, è uno schifo d’uomo, quando non è pieno di vino è pieno di birra. O dorme o beve. O in alternativa si incazza con noi perché sa che mia madre ci dà dei soldi e a lui quelli che prende da non so dove non gli bastano per ubriacarsi tutto il giorno.
All’inizio ho pensato che ci stava che mia madre se ne andasse per via di mio padre, erano sempre urla e botte, ma non capivo perché avesse abbandonato anche noi.
Poi però dopo ho capito. Mia madre s’è sistemata mica male, s’è fatta un appartamento piccolo ma decente, e di sicuro con il lavoro che fa non ci può tenere con lei, almeno questo mi piace credere perché a dirla tutta non so se vorrebbe farlo, visto che a parte darci da mangiare a pranzo e allungarci qualche soldo non si preoccupa un granché di quel che facciamo. Per il resto dobbiamo arrangiarci. Lei non chiede mai niente, né della scuola, né della salute, né dei cazzo dei problemi che hanno gli adolescenti che ormai tutti ne parlano tranne lei. Persino la strizzacervelli della scuola dove mi hanno spedito un paio di volte.
In effetti l’unico motivo per cui vengo a scuola tutte le mattine è che non mi va di stare in quella cazzo di casa che puzza, a scuola mi rompo le palle ma almeno non c’è quella puzza di vino e sudore che c’è a casa mia. Né c’è mio padre, che a vederlo, con quelle stampelle e la pancia che sembra una mongolfiera, non è che faccia una bella impressione.

La campanella ora sta davvero per suonare e io come ho detto se voglio mangiare devo correre.
Prima di congedarmi però voglio farti i miei complimenti.
A chi, mi chiedi? Ma a te, sì, proprio a te. A te, lettore che stai leggendo e sei arrivato fin qui. Complimenti.
Però anche tu non hai capito niente, come tutti del resto. Tu sei convinto che io sia uscito dalla mente di quella che qui sopra ha messo il suo nome, come la chiamate? Autrice? Invece ti sbagli. Lei c’ha messo solo le parole giuste per far tornare i discorsi (non le cose, che quelle comunque non tornano).
Ma io. Io. A te che mi leggi. Te lo devo dire. Sappi che io sono vero.

La campanella è suonata, io devo andare, anzi, devo correre. Nella foga di uscire ho spintonato qualcuno, non so manco chi. Sento il professor Lento alle mie spalle che sta urlando….
«Martena, sempre il solito, sei proprio un animale!»

Fanculo Lento, tu e tutti gli animali come te.

UN TEMA

rispetto1
Fuori ricomincia a piovigginare e oggi è una giornata un po’ così. Malinconica.
Poi accade che ricomincio a correggere il plico dei compiti e ne sfilo uno, lo leggo, lo correggo e mentre scorro le righe mi rendo conto che a volte i temi dei ragazzi sono incredibili atti di fiducia.
Si parla di abolire il tema, di adottare i riassunti, di incentrare l’attenzione sulla comprensione del testo. Tecnicamente è giusto e sacrosanto.
Però è anche vero: come farei io a scovare gli animi inquieti, quelli che hanno bisogno di un’attenzione diversa, senza conoscerli? Perché è anche questo che noi insegnanti di Lettere a volte facciamo, è attraverso di noi che passano le menti e quello che c’è dentro, nel profondo, non perché siamo diversi, semplicemente perché a noi talvolta scelgono di rivelarsi: hanno davanti un foglio bianco e l’occasione di raccontarsi e spesso di raccontare quella parte di sé difficile da svelare perfino ai compagni.
Per questo ho deciso di condividere degli stralci di questo tema, perché se da un lato il testo di questo ragazzo mi ha intristito, e molto, dall’altro non sapevo dove stava e ora lo so.
Dopo più di vent’anni ancora di fronte a certi testi mi commuovo e non è il mio innato istinto di crocerossina o, peggio, quello materno (me lo sono sentito rimproverare più di una volta da qualche collega, con una certa mancanza di tatto), è proprio che credo nella mia professione. So per esperienza che se un ragazzo scrive un tema così, qualcosa ti sta dicendo, di sé, del suo mondo, della sua solitudine. E tu che fai? Gli dai un voto e ti volti dall’altra parte? Non io.
Forse sbaglio, e ad ogni modo (anche se può sembrare inopportuno, ma lo faccio nella piena convinzione che non lo sia) questi sono stralci del tema. Voglio precisare che sono come lui li ha scritti. Finora per me lui (sono la sua insegnante da settembre) era soltanto uno che scriveva maluccio, con molte carenze, come si sottolinea nei temi.
E a voi adulti chiedo: quale la responsabilità? Dove si ferma quella di un’insegnante?
“Oggi tutti siamo tecnologici, ma la mia generazione – quella del 2000 – è stata rovinata dai social network e ne parlo da testimone. Si va dal lecchinaggio all’umiliazione della persona. Hanno attaccato le nostre menti, perché in un’età in cui ancora non si pensa con la propria testa, quando si può essere plagiati facilmente.
In poche parole hanno creato un gregge di pecore in cui la società ha il ruolo del pastore, hanno creato uno spettacolo di marionette in cui il burattinaio muove i fili e dice cosa indossare, cosa mangiare, come comportarsi, come parlare. Così con una mano ti danno i soldi che dovrebbero servire per vivere e infilano le altre cinque dita nel nostro portafogli, imponendoci cosa comprare per essere all’altezza, siamo tutti omologati.
Fin da piccolo mi sono dovuto abituare a rinunciare a tutto perché a casa arrivavano sempre pochi soldi. Quando sei un bambino queste cose ti pesano, arrivi a invidiare gli altri. Crescendo queste cose pesano ancora, ma capisci di essere impotente. Ma quello che ti fa soffrire non è più la mancanza di beni materiali, ma il fatto di non poter coltivare appieno i propri sogni. La cosa che più mi fa incavolare è quando vedi persone che hanno tutte le possibilità di questo mondo e non combinano niente, mentre io che ho intenzione di realizzare un piccolo sogno devo fare sacrifici su sacrifici per avere una piccola possibilità di riuscita.
Un’altra cosa che mi fa incavolare sono le persone che ti allontano perché non vesti firmato o solo perché pensi con la tua testa. Non è bello quando degli stupidi pregiudizi ti allontanano e magari più cerchi di avvicinarti a loro più vieni respinto. Ci resti male, ti chiedi se la colpa è tua.
E’ così che ho preso la decisione di isolarmi, e forse è una cosa negativa, anzi spesso lo è, perché ho pensieri che mi fanno odiare il mondo intero. Questo avviene di notte, quando inizi a pensare come sarebbe bello se, come sarei felice se, finchè non torni nel mondo reale e capisci che è tutta un’illusione.
A volte apprezzi la solitudine, è come guardare le cose da un altro punto di vista, da un’altra prospettiva. Allora inizi a notare persone, particolari di ogni singola cosa, e ne sei felice.
Mi rendo conto d’essere andato fuori tema, d’altronde non mi importa più del voto, non è un voto che stabilisce la propria intelligenza.
Concluderò dicendo a chi dice che i soldi non fanno la felicità che sbaglia di grosso: è semplicemente una persona che non ha provato la povertà, perché senza soldi si litiga e si vive male, ne sono testimone tutti i giorni nella mia famiglia.
In questo mondo tecnologico nel quale abbiamo tutte le comodità e vogliamo essere uguali agli altri non possono mancare i soldi, perché fanno la differenza, fanno la felicità, la fanno eccome.”
Ho trovato questo testo di una dignità che mi ha commosso. Non credo che da domani lo guarderò come ho fatto fino a ieri. Questione di complicità e di rispetto.

Lettera alla Ministra Fedeli

scuola e cellulare mail-U4309013522610IIE-452x370@Corriere-Print-Nazionale-593x443

Cara Ministra,

so che questa mia non le giungerà mai. Non diventerà un post virale che le arriverà a solleticare il dubbio che a volte voi ministri dell’istruzione altro non fate che sparare stupidaggini, una sorta di gara a chi la dice più grossa per arrivare agli organi di informazione come novelli salvatori della scuola pubblica.

Dunque lei ha detto “Il 15 settembre partirà un gruppo di lavoro con le migliori e i migliori esperti del Paese per rivedere le indicazioni nazionali e intervenire su cosa le nostre studentesse e i nostri studenti studiano a scuola”.

A questo verrà affiancato un gruppo che servirà a chiarire l’utilizzo di smartphone e tablet degli studenti in classe, intervenendo sulle attuali circolari, risalenti a un periodo troppo lontano da oggi. “E promuovendo – aggiunge – un uso consapevole e in linea con le esigenze didattiche. Questo gruppo avrà 45 giorni per pubblicare delle linee guida chiare ed efficaci per le scuole”

Intanto vorrei chiederle su quali basi lei sceglierà le migliori e i migliori esperti del Paese, perché – mi consenta (come diceva un inquilino di palazzo) – quando utilizzate la parola esperto a noi insegnanti sale la febbre a 40. Per non parlare della locuzione linee guida. A me fa venire in mente il ragazzino del film Il Grande Cocomero affetto da una patologia per cui  il mondo circostante era fatto di linee e demarcazioni entro le quali muoversi, lo vedevi saltare ipotetiche corde, terrorizzato dal romperne qualcuna.

È buona norma, prassi consolidata, che gli esperti che mettono mano alle riforme, alle circolari, alle innovazioni (presunte) didattiche, nella scuola non c’hanno mai messo un alluce, non sanno niente degli adolescenti (se non quello che leggono sui trattati sociologici scontati come le minestre) e soprattutto non conoscono il lavoro che svolgiamo quotidianamente, del quale non avete mai né considerazione né rispetto.

Che lei mi venga a suggerire “l’uso consapevole” degli smartphone è presuntuoso (e questo in viale Trastevere è atteggiamento ostinato) e irrispettoso. Le dico francamente che è una sparata che come sempre reputa gli insegnanti un gregge che agisce secondo le direttive.

Io, ad esempio,  crede davvero stessi qui ad aspettare lei e la sua circolare? Ci prende per scemi? E’ da un pezzo che quest’uso consapevole tento (tentiamo, non solo la sola) di promuoverlo nelle classi, perché “il buon senso” mi ha portato a non demonizzare uno strumento che oramai i ragazzi usano con una tale regolarità che separarli è praticamente impossibile.

Tuttavia i risultati di questi tentativi, sappia anche questo, nella maggior parte dei casi, falliscono. Perché? Per farglielo capire le racconto un aneddoto.

Qualche anno fa mi trovavo all’aeroporto Vespucci di Firenze. In attesa dell’aereo vado a sedermi. Accanto a me c’era una giovanissima coppia di stranieri beatamente immersi nella lettura di un libro, ciascuno il prorpio. Dopo qualche minuto arrivano sei baldi adolescenti, tre coppiette (tre ragazzi e tre ragazzi). Si fanno notare per la caciara, per l’abbigliamento griffato e succinto, poi si separano e si siedono. Le tre ragazze alla nostra destra, i ragazzi alla nostra sinistra. Tempo dieci secondi, tutti e sei avevano in mano il cellulare, cominciano a spippolare come dei pazzi, ognuno per conto proprio. Insieme, ma separati: dal cellulare.

Ecco, non ho potuto fare a meno di notare la tristezza di quell’immagine, con quei ragazzi stranieri al centro con un libro in mano, e gli altri sei con lo sguardo piantato su un minuscolo monitor, persi chissà dove. Sei adolescenti che stavano andando in vacanza.

Se questo non le basta come esempio dei modelli culturali che NOI e il MERCATO stiamo fornendo loro, la invito a venire in una classe, a sollecitare un allievo che sta usando impropriamente il cellulare  (con il quale giocano, sono in costante comunicazione su instagram e whatsapp) a consegnarle il cellulare. Scoprirà che la scena avrà del paradossale, vedrà il panico sulla faccia dell’allievo, vedrà il cellulare sparire nella sua tasca dove lei non può mettere le mani, vedrà l’ansia da separazione quasi stia chiedendo di darle un pezzo della sua mano, della sua testa, del suo cuore.

Nella stragrande maggioranza dei casi sarà lui a vincere, a meno che lei non sia di quelli che si piazzano lì, poi lo prendano da un braccio, lo portino dalla dirigente e minaccino provvedimenti disciplinari. Il che presupporrebbe trascorrere gran parte delle lezioni in questo genere di attività.

Moltissime scuole non sono provviste di adeguate reti, per cui se lei proverà a chiedere ai ragazzi: cercate su google questo testo poetico, si sentirà rispondere che non ha giga sufficienti. Gli stessi alla fine della lezione, quando si abbassa la guardia per cinque minuti, correranno da lei per farle vedere qualche stupidissimo video su you tube per farla sorridere.

Cosa otterrà questa circolare? Siamo pratici:  ancora una volta perderemo credibilità, ci sentiremo rispondere: siamo autorizzati. Ormai li autorizziamo a far tutto.

E sia chiaro, non parla un’insegnante che demonizza la tecnologia, retrograda o che non sa usarla, la uso eccome, però – come ho detto una volta in classe – la differenza tra “me” e loro è che io so usare i loro strumenti, loro – di questo passo – non impareranno mai i miei, quelli che stanno nella testa, i meccanismi del cervello, quelli indotti dalla manualità della scrittura, quelli del pensiero critico di cui li stiamo privando a forza di crocette e di competenze.

Come vede non sono una bastian contraria. È solo che non se ne può davvero più.

Qualche giorno fa ho letto un interessante articolo di un insegnante, Franco Nembrini, per decenni professore di italiano e fondatore della scuola media libera “La Traccia” di Calcinate (provincia di Bergamo), il quale ha scritto:

“LA TECNOLOGIA. I giovani di oggi sono sottoposti ad una pressione sociale molto forte dovuta alla pubblicità e a nuovi modelli comportamentali, per questo il compito di guidarli verso l’età adulta spetta a «maestri più decisi e attrezzati di un tempo».

Nembrini è scettico sulle speranze risposte nei nuovi strumenti tecnologici, secondo lui sopravvalutati, utilizzati a scuola nel tentativo di catturare l’attenzione degli alunni. «Non funzionerà perché la vita dei ragazzi è già piena di tecnologia. Il suo uso esasperato li ha confinati alla solitudine. La sfida dell’insegnante sta nel proporre un’esperienza reale e diretta, che li spinga a mettere volontariamente da parte i cellulari o tablet e li appassioni ad un’avventura conoscitiva».

MEMORIA ESTERNA. Il pieno accesso al sapere tramite Internet, osserva Nembrini, ha portato i ragazzi a memorizzare meno informazioni. «Chiedi a un ragazzo chi è stato il primo presidente italiano dopo la Seconda Guerra Mondiale e lui trova la risposta con un click. Ma se gli ripeti la domanda la sera stessa, se ne è già dimenticato». Il rischio di una “memoria esterna” è estremamente insidiosa e assolutamente da non sottovalutare: «La perdita della memoria è una tragedia incalcolabile perché senza di essa, senza la storia, non si è uomini. Si diventa burattini facilmente controllabili dall’esterno».
Lei lo chiamerà questo insegnante tra i suoi “migliori esperti”?

Mi perdonerà se ne dubito.

Siamo stanchi ministra. Stanchi di direttive che ci trattano come idioti che non sanno quando fare o non fare una cosa, stanchi di esperti che ci raccontano come dev’essere la scuola e cosa dobbiamo e non dobbiamo fare.

Ci dia reti funzionanti, scuole attrezzate, sicure. Ci dia meno classi pollai. Ci dia risorse. Ci restituisca la credibilità sociale che meritiamo in funzione della gravosa responsabilità che rivestiamo come educatori. E si tenga le sue stupidaggini nel cassetto. Giusto per non levarci quel minimo di entusiasmo che ancora ci è rimasto quando entriamo in classe e abbiamo davanti universi sbandati, ai quali noi dovremmo indicare una direzione.

La saluto.

Prof. Daniela Grandinetti

PS   ho davvero molte cose da fare. Se ho perso tempo per me prezioso nello scrivere questa mia, mi creda, è perché non se ne può davvero, ma davvero, più.

Trump, la 3° C e il Dolce Stilnovo

copertina-tamarra

When you’re a star,  you can do anything. Grab ‘em by the pussy. You can do anything (D. Trump)

Mi avvio a scuola contrariata, che in America abbiano potuto eleggere un tale babbeo mi pare il fondo del baratro. Non me ne importa un fico secco delle analisi politiche, neanche le voglio ascoltare le banalità che vomiteranno i media nelle prossime ore, tanto lo so che in meno di ventiquattr’ore troveranno una logica.

Entro nell’aula vuota, apro la finestra, mi siedo e guardo i banchi, mi godo quei pochi minuti di quiete, tra un po’ qui dentro si scatenerà l’inferno.
Sono in 3° C, qui nelle ultime settimane ho dichiarato guerra: una classe scomposta, disordinata, fare lezione qua dentro è diventato difficilissimo. Sono quasi tre mesi dall’inizio dell’anno e mi arrabatto tra urla, sequestri di cellulare, Dante, la Commedia e il Dolce Stil Novo. A questi non gliene frega niente. Ho persino scritto un patto d’aula, l’abbiamo concordato, l’hanno firmato tutti ed è in bella mostra sul muro. Non c’è verso.

All’improvviso mi balena un’idea, sta per suonare la campanella e loro stanno per arrivare. Io divido la lavagna in due colonne e su una comincio a scrivere versi dei vari sonetti, tutte le prime strofe di Cavalcanti, Guinizelli, Dante.
Loro arrivano nella solita baraonda, urla e strepiti miei e loro per sistemarsi. Sto ancora scrivendo, intimo loro di ricopiare tutto sul quaderno.
Sempre a scrivere“. Mi volto, fulmino con lo sguardo: “Stai zitto e scrivi.
Copiano tutto, per un po’ c’è un bel silenzio. Mi assicuro che abbiano scritto tutti, rileggo i versi. Ogni strofa è accompagnata dall’autore e dalla data di nascita.
Poi comincio a scrivere sulla seconda colonna: al primo verso si bloccano, spiazzati, al secondo cominciano a ridere, al terzo cominciano a capire, al quarto iniziano a suggerirmi loro quello che potrei scrivere. Riempiamo la seconda colonna con tutti gli improperi, le male parole, le espressioni a dir poco colorite che sono soliti pronunciare senza troppi freni o complimenti.
Così accanto a Tanto gentile e tanto onesta pare, o al Io voglio del ver la mia donna laudare, compare – Dio mi perdoni – in culo a mammata, mi hai cacato il cazzo e così via.
Non me ne vogliano Dante e Guinizelli e nemmeno i puristi e i benpensanti, ma a male estremi estremi rimedi, dice il proverbio. Di fronte a quella lavagna oggi ho messo a confronto due linguaggi, quello che dovrei insegnar loro e quello che usano, quello che si rifiutano di capire e quello che invece è il loro pane quotidiano. Ho parlato loro di gentilezza e cortesia, del bisogno di ritrovarle, ho tentato di far loro sentire la violenza di quelle espressioni, fuori contesto in un’aula di scuola.
E così per un po’ mi hanno seguito, e so che hanno capito. E’ servito? Beh, gli ultimi cinque minuti di lezione è ritornata la fanfara di sempre, sembravano usciti dalla bolla comunicativa che si era creata fino a cinque minuti prima. Sembrava svanito tutto.
Però so una cosa: che nel nostro lavoro bisogna sminare, a costo di saltare per aria, a volte. Bisogna levare le mine una dopo l’altra, perché è così che lavoriamo: in un campo minato.
E se oggi ho disinnescato qualche mina estremizzando la spiegazione di un argomento (che mi sta a cuore), ebbene, da idealista impenitente quale sono, penso che mina dopo mina è questo il lavoro che si deve fare per non fare vincere (come sta vincendo) l’ignoranza e la maleducazione sulla conoscenza, l’arroganza e la volgarità sulla decenza, la cafonaggine e l’inciviltà sulla cultura e la civiltà.

E in questo c’entra anche Trump.

Blog su WordPress.com.

Su ↑