Negli ultimi giorni l’articolo di Michele Serra (ambiguo o provocatorio lascio a voi il giudizio) ha scatenato il solito balletto di polemiche sui social e sui giornali. Non mi interessa qui ri-parlare dell’argomento. E’ che mi convinco sempre di più che a parlare di “scuola” dovrebbero essere soltanto quelli che nella scuola ci vivono tutti i giorni e sanno di cosa si sta parlando, soprattutto oggi.
Del fattaccio di Lucca rimbalzato ovunque, dai social ai tg, si è detto di tutto: punizioni esemplari, famiglie assenti, educazione che è andata a farsi benedire, l’autorevolezza degli insegnanti andata a male e via discorrendo. Una cosa e il suo contrario, a seconda di come la si guardi.
Io la guardo da insegnante e vorrei dire una cosa semplice: che al di là di tante parole, sempre le stesse quando emergono fatti di cronaca, esiste una sola, facile soluzione. Tanto facile da non essere mai – ma guarda un po’ – contemplata.
Se avrete a pazienza di leggere il racconto che pubblico di seguito, vi anticipo che non mi sono sforzata a inventare la storia di Vladimiro: l’ho infiocchettata, ma la vicenda che lo riguarda è vera.
Nel racconto che ne faccio, gli insegnanti (che stanno sullo sfondo, non mi interessava raccontare una situazione scolastica ma soltanto la storia di Vladimiro) sembrano essere inadeguati a comprendere il suo disagio e Vladimiro è potenzialmente pericoloso, potrebbe essere il sedicenne di Lucca e forse anche peggio. Il fatto che per quest’ultimo sia intervenuta l’autorità giudiziaria è una sconfitta della scuola, ma ATTENZIONE, non perché gli insegnanti siano inadeguati (che per carità, ci sono in giro e parecchi) ma perché vuol dire che per l’ennesima volta la scuola non ha alcuna credibilità (alla faccia anche del Ministro Fedeli che invoca le bocciature).
Il fatto è, o voi tutti che non avete mai messo piede in un’aula scolastica, che di Vladimiro ce ne sono a migliaia e se quello che si dice sull’assenza delle famiglie è vero, spesso il problema è che Vladimiro non ha proprio famiglia.
Qual è allora la soluzione semplice cui accennavo qualche riga più sopra? E beh, miei cari, sono più di vent’anni che ci ammorbano con le “riforme” che di ri-forme non hanno un bel niente. Ci hanno reso dei burocrati stanchi che a ogni tornata di nuovo ministro si sentono dire che devono “formarsi”, ci hanno rovesciato addosso quantità di competenze che non hanno nella pratica alcun valore se non quello di obbligarci a riempire carte.
Vladimiro ad esempio a scuola sarebbe un BES: un bisogno educativo speciale, ovvero avrà una programmazione che dirà che è un alunno in difficoltà e una volta che l’avremo scritto saremo ritenuti a posto. L’importante è che siano a posto le carte, come si dice spesso.
Vladimiro potrebbe essere anche un DSA, ovvero avere un disturbo specifico dell’apprendimento. Avete idea di quanti ne arrivino ogni anno in una classe con questo tipo di certificazioni? Iperattivi, dislessici, disgrafici, discalculici? E giù altre carte da riempire, altri “patti” da far firmare alle famiglie, altri impegni che assumiamo a trattare quei ragazzi secondo i loro bisogni specifici. Peccato che ad esempio se la quantità dei DSA cresce esponenzialmente, noi non siamo dotati dei pc che la legge e le carte dicono dovremmo usare perché quelli sono ragazzi che non sanno scrivere, per dirne una.
E allora eccole le soluzioni semplici: invece di spendere miliardi in corsi di formazione inutili, a mantenere baracconi senza alcun beneficio, a finanziare l’INVALSI, etc etc., voi lassù (e anche voi che non avete mai messo piede in un’aula) sappiate che basterebbe soltanto che di Vladimiro in una classe ce ne fossero soltanto quindici, invece di 25, 28, 30, 32 e a volte 33.
Quelle sono condizioni in cui nessuno di noi può più lavorare, educare, seguire i ragazzi come meriterebbero.
Potremmo rendere Vladimiro un uomo, dargli gli strumenti per crescere adeguatamente, aiutarlo a scoprire ciò che vuole diventare e farlo diventare quel che desidera. Magari un latinista, invece che un manovale, perché è un fatto che questo sistema lo espelle dalla scuola. Allora però, poi non mi fate fare il corso di formazione sul disagio e la lotta alla dispersione scolastica con la psicologa che mi racconta le favolette indiane, perché lì, sappiatelo, mi incazzo. Come mi incazzo guardando un video in cui un adolescente fa il gradasso con un insegnante impotente. Lo avete permesso, avete creato tutte le condizioni perché ciò accada.
Io, come migliaia di miei colleghi – perché esiste nei fatti una buona scuola, ben prima del genio della lampada – a Vladimiro ci tengo, ma nelle classi pollaio si possono solo crescere batterie di polli destinati al banco del supermercato, buoni per consumare ed essere consumati.
Soltanto meno alunni per classe, questa sarebbe l’unica, vera cosa da fare. Ma se si facesse di che parlerebbero poi i Serra, i Crepet, le Mastrocola, le Tamaro e anche voi?
MI CHIAMO VLADIMIRO, HO SEDICI ANNI
È la sesta ora e non ne posso più. Lento è ancora lì alla lavagna che fa cerchi e triangoli, ma cosa c’ha nella testa? Se invece di darci le spalle si voltasse e si guardasse intorno si accorgerebbe di come vanno le cose. Stancanelli è al cellulare che gioca, Muraro chatta con la fidanzata, Mattei sta sprofondando nel sonno eterno. Non ce n’è manco uno ad ascoltarlo. A parte Ferraro e Muraca, che si sa, nella vita non hanno un cazzo da fare quindi studiano e sono i cocchi dei professori. In tutte le classi ci sono quelli come Ferraro e Muraca, che poi sono quelli che fanno sentire i professori onnipotenti, giusti insomma.
Le gambe sotto il banco mi tremano, sono già due volte che Vauro mi chiede di smettere. Dice gli sembra ci sia un terremoto e si impressiona.
Vauro è il mio compagno di banco, un tipo mica tanto sveglio. Uno spilungone con gli occhiali e gli occhi chiari che quando parla lo fa senza muovere le mascelle. Sembra sia mosso da un ventriloquo. Credo me l’abbiano messo accanto perché mi considerano agitato, per usare un eufemismo, così con lui non posso parlare. Cosa gli vuoi dire a uno che si chiama Vauro e sta impalato sei ore su sei?
Una volta gliel’ho anche chiesto da dove venisse quel nome strano, io pensavo di aver capito male, credevo si chiamasse Mauro. Invece no, ha specificato lui con aria da precisino, Vauro. Con la V. Poi ho capito a malapena che era il nome di suo nonno. Bella scoperta! Il novanta per cento della popolazione porta il nome del proprio nonno, è che io Vauro non l’avevo mai sentito prima.
Comunque tutto sommato gli è andata bene. Figuriamoci se il nonno si fosse chiamato che so, Evaristo o Ermenegildo.
«Allora, tutto chiaro?»
Lento si è voltato di scatto, nell’aula c’è stato un sussulto simultaneo, come un’onda. Tutti hanno fatto sparire i cellulari sotto il banco, via i giochi, il fantacalcio, le foto porno, le fidanzate in linea. Tutti con gli occhi puntati alla lavagna e i quaderni davanti. Mattei al secondo banco il sussulto non ce l’ha avuto. Si è addormentato proprio. Si è svegliato perché il compagno di banco gli ha dato una gomitata. Ha sollevato la testa e si è guardato intorno. Sembra una bertuccia intorpidita che ha avuto un brusco risveglio. Soltanto Ferraro e Muraca rispondono un sì convinto. Talmente convinto che il professore si va a sedere soddisfatto.
Ma quando finisce? Non ne posso più. Mancano venti minuti e sembrano un’eternità. L’ultima ora non passa mai.
«Allora per la prossima volta fate gli esercizi a pagina 238, dal numero 1 al 10.» Lento neanche alza gli occhi e passa dal libro al registro, dove va a segnare i compiti per venerdì, quando avremo il piacere di rivederlo per due ore di fila. Non si accorge che nessuno ha segnato niente, nemmeno abbiamo tirato fuori i diari, a parte Ferraro e Muraca ovviamente. Alcuni perché gli esercizi li copieranno da Ferraro e Muraca altri perché tanto c’è il gruppo su whatsapp dove se hai voglia puoi sapere anche quanti peli ha Lento sul culo (per la cronaca: non sono io maleducato, è che è proprio questo il linguaggio della chat).
Intanto si sono fatte le due meno dieci, se Dio vuole questa tortura sta per finire. Io sto seduto all’ultimo banco. Mi alzo e vado alla porta. Almeno comincio a sgranchirmi le gambe.
«Martena mancano ancora dieci minuti alla campanella, quindi va’ a sedere al tuo posto. E levati quelle cuffie!»
«Ma prof, mancano pochi minuti!»
«Martena ho detto vai a sedere al tuo posto. Immediatamente! Altrimenti giuro ti tengo qui altri dieci minuti dopo il suono della campanella.»
Eccolo il professor Lento, lento di nome e di fatto, che prova a fare il grosso con me mentre sono qui che fremo aspettando che suoni l’ultima campanella. E sì che lo sa che con le minacce ci vado a nozze.
Ora che ci penso però ho presentato tutti tranne me: mi chiamo Vladimiro Martena, detto Villi, che è il mio soprannome da sempre ma non chiedetemi perché, non lo so. È un po’ come il nome di Vauro. Ho sedici anni, bocciato una volta alle scuole medie, in terza per la precisione, sono il classico disadattato. Quelli come me hanno il marchio di fabbrica, ovunque vadano.
La mia specialità a scuola è collezionare note sul registro, le colleziono come trofei, in quelle non mi batte nessuno. A me della scuola non me frega un cazzo, ci vengo se no mi mandano i carabinieri a casa. Dicono che ho l’”obbligo”. E allora se mi obbligano a starci poi però non mi devono rompere le palle se “disturbo la lezione”, come recitano decine di note a penna rossa in mio onore.
L’ora prima di Lento abbiamo fatto italiano, non ho idea su che cosa fosse la lezione perché come al solito avevo le cuffie. Di nascosto ascolto sempre la musica. A un certo punto la prof mi ha interpellato. Io ovviamente non l’ho sentita. Così sì è avvicinata mentre io guardavo la pioggia cadere fuori dalla finestra.
«Martena.»
Sento una mano che mi scuote.
«Martena, dico a te!»
Io mi sono levato una cuffia e ho alzato la testa. L’ho guardata come si guardano gli extraterrestri credo, lei non si è nemmeno arrabbiata.
«Ma che fai, invece di imparare qualcosa ascolti la musica?»
«Mi scusi prof. È che non mi sento bene.» Ho farfugliato.
«Non è un buon motivo per starsene con le cuffie a dormire sul banco mentre c’è una lezione.»
Non sapevo cosa dire. Non so mai cosa dire quando mi colgono in flagrante. Più che altro credo sia perché non me ne importa niente.
La Bertini mi ha guardato severa poi si è girata ed è andata verso la cattedra. Sulla via del ritorno ha sparato la seguente frase:
«Il fatto è, cari ragazzi, che voi non volete capire che la scuola, lo studio, sono fatica. La scuola è una palestra, vi allena, perché anche fuori da qui domani sarà così. Fatica. E voi è con questa parola che non andate d’accordo. La vita è dura, in nulla si riesce senza soffrire. E badate che è dura per tutti. Solo lo studio potrà darvi delle sicurezze.»
Ecco, quando parlano così, io mi chiedo se recitano, se lo dicono perché lo devono dire o cosa. Insomma non è possibile che credano veramente a queste stronzate.
Fatto sta che mi è venuto da ridere. E ho riso. Sia chiaro, non una risata sguaiata. Una risatina, diciamo così, una cosa innocua. Però la Bertini mi ha sentito. Beccato. E lì si è arrabbiata.
«Martena che fai ridi? Sono cose che ti fanno ridere? Se tu avessi ascoltato la lezione avresti saputo che stavamo parlando di un poeta come Leopardi che è a voi che si rivolge. È a voi adolescenti che dice queste cose. Ma lui che fa? – si rivolge alla classe – lui ride – poi di nuovo a me – ma cosa avrai da ridere?»
«Niente, non ridevo per lei»
«E allora per cosa? Per Leopardi?»
«No. Però… insomma, vengo a scuola per sentirmi dire che la vita è dura? Che tutto è fatica? Ho sedici anni, prof, io mi voglio divertire.»
Ecco, mi ero tolto un bel peso dallo stomaco.
«E allora vai, Martena, vai a divertirti fuori. Così impari a essere insolente come il tuo solito.»
Mi sono alzato mentre lei prendeva la penna e annotava sul registro “Martena viene allontanato dall’aula perché si rivolge all’insegnante in modo insolente:” Le conosco a memoria queste formule. Sono cinque anni che le vedo e sono sempre le stesse anche se scritte da individui diversi.
Me ne esco, tra gli sguardi un po’ invidiosi dei miei compagni che continueranno a sentirsi le prediche della Bertini su quanto abbia sofferto Leopardi per rimanere a futura memoria.
Insomma stamattina mi sono beccato la quinta nota dell’anno, e siamo appena a dicembre.
La campanella ormai sta per suonare e io devo correre. Il suono dell’ultima campanella è l’unica cosa che mi piace della scuola. Sei ore con il culo su una sedia e sentire stronzate di cui non mi frega niente. Oggi piove pure porca vacca e devo andare a casa di mia madre che sta in centro. Devo camminare una mezz’ora buona a passo svelto prima di arrivarci. Quando arrivo là i giorni in cui esco da scuola alle due i miei fratelli sono già a tavola che mangiano, ma non è colpa mia se esco tardi e la scuola è in culo al mondo. A tavola ci sarà il solito piatto di pasta coperto con un piatto fondo, la pasta sarà già fredda e collosa da fare schifo, ma quando hai fame va bene tutto. Butto giù con il fiatone e punto.
Anche mangiare, tocca farlo di corsa. Mia madre se ne sta lì in piedi davanti alla lavatrice in preda all’ansia perché non vede l’ora che finiamo e ci leviamo di torno.
Il pranzo da mia madre è a tempo, come una bomba ad orologeria. Alle tre, massimo tre e mezzo, dobbiamo essere fuori da casa sua.
Dice che deve pulire tutto per bene prima che arrivino le “clienti”. Secondo lei a sedici anni mi bevo la storiella che fa la manicure, cioè che farebbe belle le mani e lisci i piedi delle signore bene di questa città, a casa sua.
Io lo so cosa fa mia madre. Fa la puttana. Ecco perché ha fretta di mandarci via. Riceve i “clienti” di pomeriggio. Come l’ho saputo non importa, non è stata una bella scoperta. Devo ammettere che molte volte ho avuto la tentazione di nascondermi e spiare gli uomini che si scopano mia madre, ma poi non l’ho mai fatto. Alla fine mi sono convinto che è un lavoro come un altro.
In fondo non me ne frega niente da dove vengono quei quaranta, a volte cinquanta, euro che mia madre mi dà ogni settimana, che per quattro fanno circa centosessanta euro, nel senso che io sono il secondo di quattro figli maschi: Mirko ha un anno più di me, poi c’è Alberto che ne ha dodici ed Enzino che ne ha nove e tra noi è quello che ha sofferto di più quando mia madre se n’è andata, più di un anno fa.
A dire il vero anch’io l’ho odiata, anche se poi quando ho cominciato a vedere qualche soldo ho pensato che in fondo era meglio così. La nostra casa, quella in cui siamo rimasti a vivere con mio padre, non è neanche una casa, è una vecchia catapecchia di pietra alla periferia di questa città.
Mio padre è disoccupato da tre anni e come se non bastasse è pure invalido, ha le gambe mosce e per muoversi deve usare le stampelle, non ho mai capito bene perché. È così da quando sono nato.
Comunque mia madre ha fatto bene a lasciarlo, è uno schifo d’uomo, quando non è pieno di vino è pieno di birra. O dorme o beve. O in alternativa si incazza con noi perché sa che mia madre ci dà dei soldi e a lui quelli che prende da non so dove non gli bastano per ubriacarsi tutto il giorno.
All’inizio ho pensato che ci stava che mia madre se ne andasse per via di mio padre, erano sempre urla e botte, ma non capivo perché avesse abbandonato anche noi.
Poi però dopo ho capito. Mia madre s’è sistemata mica male, s’è fatta un appartamento piccolo ma decente, e di sicuro con il lavoro che fa non ci può tenere con lei, almeno questo mi piace credere perché a dirla tutta non so se vorrebbe farlo, visto che a parte darci da mangiare a pranzo e allungarci qualche soldo non si preoccupa un granché di quel che facciamo. Per il resto dobbiamo arrangiarci. Lei non chiede mai niente, né della scuola, né della salute, né dei cazzo dei problemi che hanno gli adolescenti che ormai tutti ne parlano tranne lei. Persino la strizzacervelli della scuola dove mi hanno spedito un paio di volte.
In effetti l’unico motivo per cui vengo a scuola tutte le mattine è che non mi va di stare in quella cazzo di casa che puzza, a scuola mi rompo le palle ma almeno non c’è quella puzza di vino e sudore che c’è a casa mia. Né c’è mio padre, che a vederlo, con quelle stampelle e la pancia che sembra una mongolfiera, non è che faccia una bella impressione.
La campanella ora sta davvero per suonare e io come ho detto se voglio mangiare devo correre.
Prima di congedarmi però voglio farti i miei complimenti.
A chi, mi chiedi? Ma a te, sì, proprio a te. A te, lettore che stai leggendo e sei arrivato fin qui. Complimenti.
Però anche tu non hai capito niente, come tutti del resto. Tu sei convinto che io sia uscito dalla mente di quella che qui sopra ha messo il suo nome, come la chiamate? Autrice? Invece ti sbagli. Lei c’ha messo solo le parole giuste per far tornare i discorsi (non le cose, che quelle comunque non tornano).
Ma io. Io. A te che mi leggi. Te lo devo dire. Sappi che io sono vero.
La campanella è suonata, io devo andare, anzi, devo correre. Nella foga di uscire ho spintonato qualcuno, non so manco chi. Sento il professor Lento alle mie spalle che sta urlando….
«Martena, sempre il solito, sei proprio un animale!»
Fanculo Lento, tu e tutti gli animali come te.
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