Evelina e le fate è stata una lettura SORPRENDENTE, un piacevolissimo libro di Simona Baldelli, esordiente finalista al Premio Calvino 2012. Di solito mi piace curiosare, non andare sempre sui nomi sicuri che spesso sono anche deludenti e così mi capita di imbattermi in libri come questo: la magica storia di una bambina di cinque anni di nome Evelina che con gli occhi della sua età vede quello che accade intorno a lei nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale.
Evelina vive in casolare, figlia di contadini, e vede le fate: la Nera e la Scepa, presenze protettive perfino con la guerra intorno.
Evelina, nel suo parlare vivace e colorato, nel suo muoversi rapida è una bambina sveglia e intelligente e perfino di fronte ai cadaveri sgozzati riesce a mantenere una distanza ironica in cui tragedia e fiaba si mescolano.
Questo nulla toglie ai fatti tragici che incontra e nella storia insieme a lei si svela un mondo contadino appartenente al passato rivisitato nella linguaggio, nell’atmosfera, nel cibo, nel modo di vivere di una piccola comunità di campagna.
La guerra vista da una bambina dunque, che nulla toglie alla Storia, anzi, la arricchisce di una voce nuova.
“Una mattina presto, che era ancora quasi buio, Evelina stava facendo la sfoja per i maltajèt. All’improvviso vide la Scèpa fare delle mosse nuove. Aveva allargato le braccia come se indicasse qualcosa largo quanto una porta. Scese dal panchetto che le serviva per arrivare meglio al tavolo e corse verso la finestra. L’ aia era deserta. «Quant’ si’ sciapéna, ’an c’è nisciun.»
Poi però sentì bussare. Corse alla porta contenta che finalmente qualche altro sfollato andasse a farle visita. Fuori c’era un omone grande con la barba lunga e un berretto calzato sulla fronte che quasi gli copriva gli occhi. Aveva le scarpe e le gambe coperte di fango.
L’ uomo grande entrò in casa. Aveva uno schioppo a tracolla e una balla marrone legata a un fianco. Effettivamente, aveva le spalle così larghe che dalla porta ci passava appena. La Scèpa gli si mise vicino ridendo con la sua bocca sdentata. L’ uomo si chiuse la porta alle spalle, si accovacciò e la fissò negli occhi.«Come ti chiami?»
«Evelina.»
«Evelina, non devi avere paura e non devi gridare.» Evelina fece di no con la testa.
All’improvviso la porta si aprì e vide il padre che puntava la forca verso l’uomo. Questo si era girato di scatto e aveva portato la mano al fucile.
Alle spalle del padre c’era la Nera. «Ven maché» urlò il padre a Evelina che corse a mettersi dietro le sue gambe.
«Mi manda il Perotti» disse l’uomo. La forca era ancora puntata verso di lui. L’ uomo lasciò lo schioppo e mise una mano in tasca. Tirò fuori una manciata di soldi che mostrò al padre.
«Sono venuto a comprare un po’ di roba.»
Il padre abbassò la forca. «Che roba?»
«Quello che si può. Da mangiare.»
«’An c’è gnènt, e me ’an so’ el padron.»
«Quello che si può» disse ancora l’uomo.
Il padre gli fece cenno di aspettarlo lì e andò verso la stalla.
Evelina tornò al tavolo e, arrampicata sul suo panchetto, cominciò a ripiegare la sfoja che ormai era rigida come un’aringa salata. Poi prese un coltello e cominciò a tagliarla a strisce. Le prendeva, le scrollava appena e le stendeva da un canto dopo averci sparso sopra un po’ di farina per non farle attaccare.
L’ uomo si era seduto davanti a lei, aveva messo i soldi sul tavolo e la guardava lavorare. La Scèpa gli si era messa vicino e faceva tante manfrine,
scuoteva i suoi ricci biondi, si portava le mani alla faccia, poi le metteva all’improvviso sulle ginocchia e si piegava tutta in avanti come se avesse tanto da ridere. Per fortuna che l’uomo non la guardava nemmeno perché a comportarsi come lei c’era proprio da vergognarsi.”
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