SognoRossoPeccato
Di nuovo lo stesso sogno. Quella notte era stata in un bosco e come sempre era nuda. Gli odori nella terra umida dell’alba erano aspri e pungenti: il biancospino fiorito, le foglie umide marcite ai piedi delle querce, le cortecce intrise di muschio. C’erano raggi di sole simili a spade infilate tra i rami di castagni. Si aggirava tra i cespugli, le foglie le sfioravano la pelle, finché fu stanca e si stese.
Respirava l’universo nel suo corpo nudo, le gambe sulla superficie ruvida della terra. Abbracciava margherite selvatiche fino a impregnarsi del loro odore amaro, con gli occhi chiusi e la luce del bosco addosso. Il cuore era come languido, lento.
Un gemito.. un grido.. poi un sorriso al sole, e le guance bollenti tuffate nel fresco dei fili d’erba bagnata. Infine si era alzata ed era miracolosamente monda, sul corpo non c’era alcuna traccia della terra dove aveva posato il suo corpo.
Questo era tutto quanto ricordasse del sogno, quando non si è abbastanza svegli per capire né si dorme per sognare ancora. Il corpo tremava ancora sotto il cotone leggero della camicia e un sorriso affondò nel cuscino.
All’improvviso i passi nel corridoio la costrinsero ad aprire gli occhi e le ricordarono che era tardi. Il sogno l’avrebbe abbandonata appena avesse messo i piedi sul pavimento freddo. Succedeva sempre, ma era giusto così. Non ricordando, non aveva obbligo di confessare, pertanto quei sogni non erano motivo di turbamento se non per quei pochi attimi che seguivano al risveglio.
Del resto mai a nessuno aveva confessato di quell’uomo che un sogno non era stato: l’uomo che durante un viaggio, nel mezzo di una conversazione asettica nel vagone di un treno qualsiasi, improvvisamente le aveva detto con vocalità calda e profonda: “ho un desiderio folle di penetrarla”, senza una piega di incertezza nella voce. Tanta sfrontatezza l’aveva lasciata incapace di reagire e le era risultata piacevole. Era successo in un baleno: l’aveva visto alzarsi, far scattare la porta senza staccarle gli occhi da dosso. L’aveva visto compiere i passi che li separavano, prenderle delicatamente le mani, sollevarla in piedi. Non era riuscita a distogliere lo sguardo e l’aveva seguito, muta. Un ignoto senso di vuoto nella testa. Poi aveva sentito il freddo delle mani di lui frugarle sotto la gonna, il fiato dell’uomo sul collo, le mani che sollevavano la stoffa pesante e all’improvviso un colpo secco che l’aveva scossa fin nella gola. Si era aggrappata a lui, non era in grado di capire: il respiro dell’uomo sul collo si era fatto affannoso, le sembrava che i respiri fossero due, ma non riusciva a comprendere di chi fosse l’altro. Era il suo? E da dove veniva? Poi l’uomo aveva spinto così dentro che aveva provato qualcosa di simile al dolore. Un sussulto, un tremore ed era caduta a sedere attonita, mentre un liquido le stava bagnando le gambe. Eppure era felice, anche se non trovava una sola parola da dire. Aveva alzato lo sguardo e aveva visto che l’uomo, rimasto in piedi, le stava sorridendo.
“Mi scusi”. Le aveva detto richiudendosi i pantaloni. Poi, voltate le spalle, aveva fatto scattare nuovamente la porta ed era uscito senza aggiungere altro.
In quel momento fu assalita dal terrore che non sarebbe tornato, sarebbe rimasta sola in quell’angolo, incapace di muoversi ascoltava il rumore metallico del treno sfrecciare sulle rotaie. Le sembrava di non avere più il suo respiro. Rimase immobile per istanti interminabili. Invece, dopo qualche minuto, l’uomo era ricomparso, ricomposto, si era seduto di fronte e le aveva detto con tono cortese:
“Se vuole usare il bagno è abbastanza pulito”.
Fu allora che le venne da ridere, comprese che non le importava niente di quell’uomo, chiunque fosse lei non voleva neanche saperne il nome. Voleva solo ridere. E pensò che – santo cielo – sì che doveva ripulirsi. Si alzò esitante, cercando di mantenere una posizione stabile. Era uscita e aveva attraversato il corridoio stretto con le gambe che tremavano. Al suo ritorno, l’uomo la stava aspettando in piedi. L’aveva salutata con una stretta di mano calorosa:
“Spero conservi un buon ricordo del nostro incontro. La saluto. La prossima stazione è la mia.”
La sua voce. Quella non l’aveva dimenticata. Lo aveva guardato incamminarsi verso la stazione senza mai voltarsi, finché il treno aveva ripreso il suo rumore metallico.
Era passato tanto tempo. Il viso dell’uomo aveva perso i contorni, ma la voce no, non se n’era andata. Era soprattutto quando la risentiva prima di addormentarsi che faceva quei sogni strani.
Guardò la sveglia. Era tardissimo. Le succedeva sempre di arrivare tardi quando sognava. Non avrebbe dovuto. Si lavò frettolosamente con l’acqua fredda, si sfilò la camicia e si infilò gli indumenti sulla sedia con gesti repentini e precisi. Uscì della stanza. Il corridoio era vuoto e silenzioso. Sapeva di essere l’ultima. Affrettò il passo verso la cappella. L’orazione delle sei era cominciata da un pezzo. Un raggio filtrava dalla piccola finestra in fondo al corridoio… dalla vetrata vide le sue consorelle con la testa china sui breviari. In quel momento avrebbe voluto ridere e dir loro: sorelle, che miracolo è ridere. È un dono del Signore, come pregare e sperare. Provò a chiudere gli occhi e a sentire l’effetto di una, due, tante risate libere amplificate nel silenzio. Che sensazione magnifica!
Entrò che stava ancora sorridendo mentre la madre superiora la stava guardando con disappunto, non sapeva se per il sorriso o il ritardo o entrambi.
Sentì le cosce pesanti sotto la tonaca e per un attimo rivide se stessa come nel sogno: bella, nuda, quasi evanescente.
Ma, come sempre, cosa in quel sogno fosse accaduto, per quanto si sforzasse, non lo ricordava più.
Però, inspiegabilmente, le accadeva sempre che un sorriso, all’indomani dei sogni, la accompagnasse durante tutto il giorno.
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