Ci sono dei rapporti che si codificano nel tempo in maniera strana e spesso errata e che è difficile correggere se non sottraendosi.
Questo lo spiega molto bene un racconto di Edgar Allan Poe, maestro dell’arte del racconto breve. In un uno di essi, Il ritratto ovale, c’è un narratore del tutto estraneo alla storia che in una notte di bufera durante un viaggio si ferma in un castello disabitato. Si impossessa di una camera per riposare qualche ora e trova un libretto che racconta tutti i quadri appesi alle pareti. Uno tra questi lo inquieta profondamente.
Scopre nel libretto che quel ritratto ovale di una giovane donna che sembra viva, è il ritratto della moglie del pittore. La donna aveva accettato per amore dell’uomo che era suo marito, ma questi la costringe a pose lunghe ed estenuanti, ricercando la perfezione e la vividezza dell’immagine. Nella febbre di questa ricerca non si accorge che la donna diventa sempre più gracile e stanca, sempre più pallida ed esangue, come se la vita la stesse abbandonando. Tanto più lui cresce nell’esaltazione del risultato tanto lei più si indebolisce nell’immobilismo. Fino a che, all’ultima pennellata, l’uomo pienamente soddisfatto del suo lavoro, alza lo sguardo su sua moglie e si rende conto che lei è lì, morta, mentre nel quadro è viva.
La donna per amore – o indolenza, o incapacità, questo non è dato saperlo – non si è sottratta al suo destino al costo della sua stessa vita.
Un dono tanto alto quanto inutile.
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