Certe volte i pensieri girano in testa, vanno e vengono, e come certi denti doloranti vanno estratti con la radice, poi, si ricomincia a ragionare sul da farsi.
Qualche mese fa ho partecipato ad un concorso letterario indetto da una buona casa editrice. Non avevo in realtà un’opera pronta da presentare, ma – poiché non disdegno di essere giudicata perché chi scrive alla fine ha bisogno di chi legge – avevo in testa un progetto e dei racconti già scritti, così li ho messi insieme e li ho inviati. Ero del tutto consapevole che non fosse un’opera compiuta, mi interessava più che altro ricevere la scheda di lettura che prometteva quel concorso che, puntualmente, è arrivata.
E – per la seconda volta (la prima risale a qualche mese prima) in pochi mesi – sono rimasta perplessa. Mi piacerebbe molto interloquire con chi scrive queste schede, mi piacerebbe molto capire, so bene che spesso è una faccenda di gusto personale, ma i giudizi sono generalmente al contrario strutturati da sembrare tecnici, scritti da “esperti”.
Interloquire è impossibile perché il limite di queste faccende è che è grasso che cola se ti scrivono due righe avendo tu pagato una quota non irrisoria.
Così è davvero difficile capire se quello che hai scritto (pur conoscendone tutti i limiti, infatti non sei tra i vincitori e questo va bene) è buono o non lo è.
Nella fattispecie era un progetto in cui volevo raccontare l’amore in modo trasversale: l’amore che c’è, quello che manca, quello che trasforma, quello che distrugge.
Una donna ai primi del Novecento che fugge da un matrimonio combinato e un suocero potente che vuole lei per raggiungere l’uomo che ama, emigrato a New York.
Un uomo deforme che ama la grammatica.
Una donna che ritrova la vita in fuga dall’esistente.
Un anziano che uccide la moglie che l’ha oppresso tutta la vita.
Un bambino a letto prima di dormire che aspetta inutilmente sua madre per la buonanotte.
Un uomo abbandonato e distrutto da una bellissima moglie ambiziosa.
Una donna ancora giovane con un marito che vive in una struttura ridotto a un vegetale.
Ognuno un proprio stile e una propria voce narrante.
Mi dicono che l’idea è buona (e questo me lo sento dire spesso), ma non il linguaggio, che presenta troppe differenze di stile (ma era proprio quello che cercavo!); mi si rimprovera l’uso di dialettismi (cacchio, ho lavorato un sacco sulla lingua di quel racconto, intrecciando il dialetto e italiano) e mi si dice che il racconto del bambino è un flusso di coscienza senza segni di interpunzione (appunto, chiamasi flusso di coscienza) a parte un punto e tre puntini sospensivi che, “si sa, appartengono a Céline, e non c’è ancora al mondo scrittore che se ne possa impadronire”
Mi chiedo: e se avessi voluto invece ispirarmi a Joyce? Non vale?
Le domande comunque, questa come altre, sono senza risposta e dunque io… monologando vo’…
Con buona pace di Céline che, spero, non me ne vorrà.
Vagabondando

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