La mattina del 3 luglio 1919 Cesira prese il fagotto, si accertò che i soldi fossero nelle tasche sotto i vestiti e uscì di casa alle quattro e trenta, verso un nuovo destino. Lasciò il portone socchiuso – nella casa tutti dormivano – nessuno avrebbe fatto un affronto a Don Attilio Ceravolo entrando in casa sua. Percorse la strada principale del paese diretta al negozio di Gaspare, ad aspettarla c’era Nicola. Presero un viottolo tra le campagne procedendo rapidi, senza parlare, fino alla casa di Carmine Bonfanti. Là li aspettava il carretto che li avrebbe portati fino a Guadalla, dove avrebbero preso la corriera per Napoli. Man mano che il carretto si mangiava la strada che portava a Guadalla la paura di Cesira cominciò a scemare e cessò un’ora e mezzo dopo, quando salì sulla corriera. A quel punto fu certa che ce l’avrebbe fatta. Era la prima volta che Cesira usciva dal suo paese, non si era mai spinta oltre le quattro case di Cirrisi e quando la corriera partì era ormai giorno. Cesira non badò alla comitiva che sonnecchiava, aveva occhi solo per quel mondo là fuori che vedeva per la prima volta. Accanto a lei era seduto Nicola, pure lui stava lasciando quella terra per sempre. Stavano andando all’America.
Nel paese dov’era nata Cesira, le donne crescevano in casa, imparavano a ricamare e aspettavano che i genitori trovassero u zzitu. Si facevano il corredo con le loro mani e si spostavano da una casa a un’altra: smettevano di essere figlie e diventavano mogli, avevano figli e facevano quello che le madri avevano fatto prima di loro.
Cesira però era nata ribelle e per quei tempi era una cosa grave se eri femmina, peggio di una malattia. Sua madre, Donna Filomena, stava sempre a chiamarla dalle finestre, nera di rabbia, era inviperita con la sorte che le aveva dato una figlia ‘ndomita come un cavallo pazzo, diceva. Diceva pure che non pareva figlia sua, al contrario di Tonia, la seconda figlia, che piccirilla s’era ammalata di poliomelite. In casa a Cesira la comandavano e basta: Cesira fai questo, Cesira fai quello e lei non sopportava d’essere comandata, tranne quando la mandavano a portare le lenzuola che sua madre lavava per Donna Giulia, la moglie del sindaco. In quella casa si sentiva benvoluta.
Donna Giulia aveva avuto due figli: il più grande, Tonio, era un maschio faticatore che era andato sempre appresso al padre. L’altra era una femminuccia che poverella era volata in cielo di appena due mesi. Si diceva che era morta per colpa di Don Attilio, che a Donna Giulia gli aveva avvelenato il latte nel petto per via delle femmine, che gli piacevano assai. Don Attilio guardava voglioso pure a Cesira, le diceva che stava diventando il fiore più bello di Cirrisi.
Certe notti a Cesira piaceva starsene alla finestra a guardare le stelle, la campagna di notte era magica e silenziosa, piena di profumi. A volte usciva a camminare al buio, fuori c’era aria che le riempiva il petto, dentro invece l’aria le mancava. Di giorno invece andava per i campi, si nascondeva tra l’erba alta e ci passava le ore. Sentiva la voce di sua madre che chiamava e siccome tanto sapeva che quella sera il padre l’avrebbe curriata, che allora la cinghia usavano, tanto valeva che quella bell’aria se la godesse. Solo là in mezzo si sentiva libera. E lei libera voleva essere.
Successe poi che Cesira si innamorò di Nico, un bracciante povero e senza niente. I primi tempi si incontravano di nascosto all’Addolorata, una chiesetta diroccata nel mezzo della campagna di Vallo. La leggenda diceva che là stavano le anime di morti che per la fame se n’erano partiti per combattere con Garibaldi, ma di loro non era tornato nessuno. Pareva anche che certe notti si sentivano spari e lamenti e nessuno c’andava mai. Cesira a queste dicerie non ci badava, le anime dei morti non le facevano paura, che anzi certe volte erano quelle dei vivi a fargliene. All’Annunziata c’andava per raccogliere i gelsi quando era il tempo. Lì gli alberi erano pieni di frutti e così se ne poteva stare in pace perché tornava con la cesta piena per fare la marmellata che a Tonia piaceva assai, con buona pace di sua madre, che quando tornava con i gelsi buoni per Toniuccia sua non le chiedeva dov’era stata. Le anime dell’Addolorata invece lo sapevano, che per la prima volta dopo cent’anni sorridevano tutte quante a vedere Cesira e Nico, belli e innamorati com’erano. Però Nico si mise in testa che doveva andare all’America, dove si facevano i soldi. Le diceva: “Con le pezze al culo che c’ho ora, tuo padre non mi vorrebbe nemmeno sentire. Invece io parto, vado all’America che c’ho già la fatiga, torno e ti prendo. Altro che sto’ paese che ci lascia solo gli occhi per piangere. Io voglio farti regina. Quando torno ricco, tuo padre niente più mi può dire”.
Voleva andare a Nuova Yorke, dove suo cugino aveva trovato la fatiga. Vero era che il padre di Cesira non l’avrebbe fatta maritare a un bracciante che viveva a Stanizzi in una casa di pietre e mattoni in mezzo alla campagna dove manco l’acqua c’era. Suo padre diceva che i braccianti erano muli di fatiga, bestie, no uomini. Diceva pure che se le figlie sue si dovevano maritare, si dovevano maritare come si deve, se no se ne potevano rimanere a casa, che mangiare non ne mancava.
Così Nico se ne partì, al paese non aveva nessuno, nella stamberga di Stanizzi c’era rimasto da solo. Come tanti partì solo con la speranza, senza sapere che lo aspettavano quattro settimane di viaggio, ammassato su una nave con altri centinaia d’altri come lui, in mezzo al fetore e agli stracci. La mattina in cui Nico partì, Cesira si svegliò presto, alla finestra si toccava le labbra dove ancora i baci bruciavano. Sentiva l’odore forte e pungente della sua terra e si chiedeva che odore c’era a Nuova Yorke. Cesira non lo sapeva dove si trovava Nuova Yorke, e manco l’America sapeva dov’era, e nemmeno quant’era il mare per arrivarci. Lei il mare non l’aveva visto mai.
Tanti al paese se ne stavano partendo, certi morivano nel viaggio e certi altri che là avevano visto i soldi veri, del paese se n’erano scordati. “Se Nico non torna mi ammazzo.” Giurò Cesira davanti al cielo che lo stava vedendo partire dove c’era l’ultima stella della notte che si stava squagliando.
A Donna Filomena in quei giorni sua figlia parve rintronata: era muta, mangiava poco, s’era smagrita. A Cesira diceva che stava diventando brutta e nessuno l’avrebbe voluta, na fimmina senza nu masculu nenti mbali. Cesira non rispondeva.
Una domenica mattina dopo la messa Donna Giulia avvicinò Donna Filomena e si appartarono facendosi grandi sorrisi. Quando furono a casa Cesira e Tonia sentirono la madre cantare “Tri fimmini a ‘na funtana, una strica e ‘n’atra lava, una prega a santu Vitu, ma nce manda ‘nu bonu maritu, biancu russu e culuritu, comu la faccia de santu Vitu…”. Era raro che Donna Filomena fosse di buon umore.
Il fatto era che Donna Giulia aveva invitato la famiglia a prendere il caffè perché Don Attilio ci doveva parlare: siccome Tonino, il figlio, era in età di maritarsi e Cesira pure, c’era in ballo una proposta di matrimonio. Cesira quel giorno urlò, che lei mai si sarebbe presa a uno come Tonino, si sarebbe ammazzata piuttosto che sposarsi a quello. Ma la verità è che Cesira mai avrebbe potuto rifiutare il figlio del sindaco. Così quel pomeriggio Donna Filomena fece indossare a tutta la famiglia il vestito delle grandi occasioni e andarono a far visita a Don Attilio.
Era primavera, le notizie dall’America erano lente ad arrivare e invece per Cesira le cose cominciarono ad andare di fretta. Le famiglie si accordarono che a giugno si sarebbe annunciato il fidanzamento ufficiale con una grande festa e poi lei e Tonino si sarebbero sposati a settembre. Nel frattempo Don Attilio disse che Cesira doveva stare a casa loro per conoscere il futuro sposo e prendere possesso della casa in cui era prossima a diventare nuora della padrona. Tonino era una specie di fantoccio, aveva la pelle bruna dal sole dei campi, lo sguardo spento e il naso lungo, non contava niente, era abituato a fare quello che gli comandavano e in fondo era contento che il padre avesse scelto una fimmina bella come a Cesira.
Nel tempo che Cesira passò in quella casa, Donna Giulia le insegnò come comandare la servitù, come trattare i sottoposti che lavoravano sulle loro terre, cosa piaceva a Tonino e cosa a Don Attilio. Le diceva quello che era sconveniente per una donna della sua posizione, chi doveva guardare in faccia e di fronte a chi doveva abbassare lo sguardo in segno di ossequio. Cesira ascoltava, sempre con la testa da un’altra parte. Quella donna era nata padrona, si teneva perfino le corna di Don Attilio, che tutti lo sapevano, e pure lei.
In quella casa Cesira diventò una specie di statua muta, Tonino le sembrava un mammalucco. Solo il pensiero di Nico le accendeva la carne e quando ero vicino a Tonino le prendeva una specie di disgusto come quando assaggi mangiare andato a male.
Il disegno vero di quel matrimonio, Cesira lo scoprì una domenica dopo un pranzo che avrebbe sfamato una decina di famiglie di braccianti là intorno, che in casa di Don Attilio la domenica era giorno di magnificenza a Dio, come diceva Donna Giulia, contenta di distribuire gli avanzi alla servitù per celebrare il rito della sua bontà. Don Attilio quella domenica disse che si doveva ritirare nello studio a guardare certe carte e ordinò che nessuno lo doveva disturbare.
«Cesì – disse prima di lasciare la stanza – il caffè me lo porti tu là.»
Quando il caffè fu pronto, Donna Giulia ci mise due cucchiaini di zucchero e disse: «Ad Attilio il caffè ci piace dolce Cesì, arricordatillo, tieni, vai.»
Cesira camminò per il lungo corridoio buio come un condannato. Quella casa la inquietava. Don Attilio nello studio l’aspettava, si bevve il caffè bollente con un sorso solo, avido era quell’uomo, con tutto quello che toccava, pure quando si prendeva il caffè. Cesira riprese la tazzina vuota, fece per andarmene.
«Aspetta Cesì che ti devo parlar – dietro a quella scrivania era un uomo possente, pareva Dio che là decideva le sorti del mondo – «lo vedo che sei sperduta, che credi? Pari una pecorella, ma qui non c’è nessun lupo che ti vuole mangiare. Tu qua la padrona devi diventare – si alzò, prese la tazza dalle mani di Cesira e la posò sul tavolo – Cesì tu sei una femmina bella e forte e io lo so che Tonino non è il masculo per una femmina come te, è debole, sottomesso, stranito. Ma tu Cesira mia non ti devi preoccupare. Tu solo a me devi rendere conto. Intendi bene e ricordatelo – Cesira si trovò stretta a suo suocero con le labbra sul collo – ancora non puoi sapere quale paradiso ti aspetta, devi pazientare fino al momento giusto, per ora lo puoi solo sentire…. lo senti Cesì? Sentilo, grande e grosso, tutto per te. A una femmina come te questo ci vuole, io lo so e tu lo sai. Lo devi sentire Cesì, perché quando sarà il momento sarai la femmina più felice della terra. E pure io, che da te voglio un masculo come a me. Ora che l’hai sentito, qualche altra volta ti insegno come prenderlo, fino a che non potrai averlo. Vai adesso.» Don Attilio tornò a sedersi come se niente fosse.
Cesira uscì dalla stanza che si sentiva perduta. A nessuno lo poteva raccontare. Don Attilio non era per il figlio che la voleva, la voleva per sé, e quegli scimuniti della moglie e del figlio lo sapevano pure. Suo padre e sua madre l’avrebbero ammazzata se avesse raccontato quello che era successo, di sicuro l’avrebbero accusata d’essere una bugiarda senza riconoscenza.
Così, diventata la fidanzata di Tonino e la nuora di Don Attilio, Cesira aveva addosso tutti gli sguardi del paese. E diventò una femmina furba. Niente aveva, se non il fatto che era nata bella e non si voleva arrendere a quel destino. Doveva scappare.
Nico intanto aveva fatto arrivare una cartolina alla rivendita di Don Mico per farle sapere che era sano e salvo dove doveva essere. E lei là voleva andare, a quella Nuova Yorke che tutti dicevano era la speranza.
In casa di Don Attilio si preparavano cose in grande per la festa di matrimonio. Cesira usò tutto il potere di femmina padrona e cominciò a tormentare una serva, Concetta, che aveva dodici anni ed era ottava di dieci figli. Se avesse perso quel lavoro suo padre l’avrebbe ammazzata per i soldi, che ne abbisognava assai, e perché essere cacciata dalla casa di Don Attilio sarebbe stato un disonore. Cesira si vergognò di sé stessa, pregava Dio perché la perdonasse per quel peccato, ma usò Concetta con la minaccia di cacciarla via: la mandava in giro a cercare aiuto dalle persone giuste per vedere come andare a questa Nuova Yorke.
I soldi li mise insieme più facilmente, a cominciare dall’anello di fidanzamento, che quando Tonino glielo mise al dito nel bel mezzo di una festa in pompa magna, perfino un bacio sulla guancia gli dette. Tutti la videro felice, nessuno sapeva che era perché quell’anello valeva il suo biglietto per l’America. Una femmina a quei tempi doveva diventare forte con l’inganno. Cesira giurò che nessuno, manco Nico, la doveva comandare mai più. Si mostrò contenta per la buona sorte e soprattutto riconoscente con Don Attilio: quando gli portava il caffè gli si accendevano gli occhi come a un pazzo, la toccava dappertutto, impaziente che arrivasse il giorno in cui l’avrebbe presa, che nove mesi dal matrimonio dovevano passare per quel figlio che voleva da lei. Avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa che lui gliel’avrebbe data. E Cesira chiedeva, più gli prometteva più gli piaceva ed era generoso.
«Cesì – le diceva – tu sì che sei una femmina vera. Mi fai impazzire. Io e te saremo felici, te lo giuro, quando partorirai il figlio mio avrai il regalo più bello, degno di una regina.»
Pure Nico così le aveva detto, che lei in America come una regina doveva andare e così le carezze di Don Attilio Cesira manco le sentiva, le facevano schifo, ma i regali che ne venivano erano la sua libertà, altro non c’era.
Comunque Nico non si era sbagliato, perché Cesira partì come una regina. Se ne andò dal paese senza lasciare una parola, solo per Tonia le dispiacque, ma quando fu davanti al mare nel porto di Napoli gli occhi non si stancavano di guardare quell’immensità e si sentì piena di coraggio. La nave era impressionante da quanto era grande, come il mare, che quel giorno Cesira vide per la prima volta.
Tre settimane impiegarono, ma quando fu il momento di scendere, in mezzo alla folla sul molo, Cesira il viso di Nico lo vide subito e lo chiamò a gran voce. Pure Nico la vide subito. In quell’istante Cesira si sentì così libera che avrebbe potuto morirne. Una sensazione grande come l’America.
In America Cesira visse una vita lunga, l’unica cosa che le mancò sempre fu l’odore che c’era al suo paese, quello in America non lo trovò da nessuna parte. Al paese non tornò più, ci vollero anni perché si scordassero di lei e dell’affronto che aveva procurato. Don Attilio impazzì come una bestia, che nessuno aveva mai osato sfidarlo, figuriamoci una femmina che l’aveva derubato e raggirato a quel modo. Ma rimorsi Cesira non ne ebbe mai, nemmeno per suo padre e sua madre, che si portarono addosso il marchio di una figlia indegna. Nuova Yorke era troppo lontana perché potessero arrivare le loro maledizioni.
Quando arrivò per Cesira il momento di lasciare questa vita, chiamò a sé la figlia Mary e le disse: «Mariuccia mia sono contenta che ti lascio in un mondo dove nessuno ti tratta più come carne di vacca. È legge di natura che i genitori se ne vadano prima dei figli, tuo padre se n’è andato troppo presto e ora che sono stanca sono felice di andare dove c’è lui. Ho lavorato tutta la vita e non mi sono fatta più comandare da nessuno. Tu vivrai Mariù, è la vita. Ma non te lo scordare, nessuno ti deve comandare, mai. E qualche volta, tornaci tu al paese mio. Prova a sentire l’odore che c’è, di erba tagliata e grano. Sono sicura che è rimasto lo stesso»
Motivazioni della giuria
Una ribellione che risolve la vita quando l’ambiente che ti circonda è fermamente intenzionato a riproporre e tramandare l’archetipo della Donna figlia-madre-moglie
sottomessa ai desideri degli uomini, anche quelli più tenebrosi.
Un viaggio verso la luce, l’aria, la libertà, l’amore cercato e scelto. L’autrice si muove con sagacia nel descrivere, scolpendoli, luoghi geografici e sociali in cui l’angustia delle visioni è scardinata dall’entusiasmo di una
gioventù capace di farsi evoluzione, emancipazione e affermazione di un pensiero differente
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