Mi piacciono un sacco (ho pensato di usare “adoro” ma ho desistito perché ho anche pensato che adorare è un verbo da snob) i romanzi che fanno ridere e sorridere e nel contempo ti raccontano storie di amara umanità, per cui sono felice di aver incrociato questo libro di Benedetto Ferrara, La ballata di Sant’Orsola.
Mi ha riportato alla Firenze dei miei vent’anni, quella che ho amato: la Firenze dei vicoli, dei toscanacci, degli odori di vita vissuta per strada e nei circoli dove si beveva cuba libre a due lire.
Il “circolino” è il luogo dove Francesco, il protagonista, dopo le mattinate al Liceo corre perché gestisce bar e blatte del caffè, dove incontra la politica, come si faceva negli anni Settanta, dove conosce adulti strambi con vite ai margini, di cosa non si sa bene, ma sempre ai margini di qualcosa. È il luogo del passato e delle storie incredibili, mentre il presente è Francesco, uno “splendido cinquantenne” con il frigo vuoto, pochi soldi in tasca, la Playstation, un vicino di casa che gli suona il campanello a orari improbabili, in realtà un bambino con una storia tragica che lui chiama Karma.
La sua esistenza, come la Firenze che abita, finisce per perdere la linea retta che si fa sghemba, contempla una serie di fallimenti amorosi e mancate occasioni in nome di un’indipendenza malinconica che gli piace riempire di improbabili avventure con personaggi surreali, originali, creando situazioni di autentica comicità alternati a momenti di tristezza da toni poetici: Il Campione (perché è stato campione di boccette), il poeta Nencini (poeta perché in gioventù così lo appellò una fidanzata) incazzato con i cinesi che con le loro botteghe invadono i quartieri, Faliero alcolizzato che per “curarsi con le erbe”, come la sua donna gli suggerisce, finisce intossicato di Amaro Montenegro, che come è noto è a base di erbe. A questi si aggiunge un misterioso somalo dall’improbabile nome Pierabdul.
Accade ad esempio che Francesco sia convocato dalla strana banda dei tre amici in via Pietrapiana a notte fonda, di fronte alle poste, dove c’era la Standa, poi diventata Billa, poi diventata Conad (io lì facevo la spesa ndr):
“Questi bambini della notte ormai vivono in un mondo parallelo e il fatto che mi ci trovi a passare anch’io dalle loro strade imprevedibili e spesso inspiegabili, non mi fa stare tranquillo.
“Ragazzi, io torno a casa.”
E la cosa turba il poeta Nencini, che mi guarda storto: “Il mondo crolla e tu vai a casa? La gente si fa domande profonde e tu la guardi con disprezzo? Ma non eri nostro amico? Tu che sei un giornalista spiegaci perché la Standa ha abitato qui per una vita, poi sono arrivati i tedeschi e hanno cambiato un’altra volta l’insegna e a tutti sembra una cosa normale?”
… io non è che abbia da fare chissà cosa ma una discussione in mezzo di strada sull’evoluzione urbana della grande distribuzione alimentare e sull’invasione cinese, non mi sembra un buon motivo per far tardi con tre alterati psichici.”
Si respira vita vera in questo romanzo che mi ha fatto rivivere il mio amore per una città dove ho vissuto per lunghi anni e che mi ha restituito alla disillusione del momento in cui ho deciso di lasciarla, visto che non era più il luogo dove avevo respirato quella vita.
“Pedalo contromano verso Porta San Frediano per attraversarla. Questo punto della mia città mi tocca sempre il cuore, perché è un luogo osmotico dove la storia e un futuro mai arrivato si incrociano. La città vecchia e la città nuova che si incontravano in via Pisana: un bacio, una carezza, contatto carnale urbanistico, se vogliamo chiamarlo così. Poi, come spesso accade, la città vecchia è rimasta affascinante come sempre, mentre il nuovo è invecchiato subito e male, trasformando un’illusione di futuro in qualcosa di indefinito, di vago, di impersonale.”
E poi c’è la musica (come potrei non amare un romanzo dove c’è così tanta musica?), il cinema Universale (dove Francesco ha visto Woodstock) le Cascine (il suo Hyde Park) e i concerti di Joe Cocker, Lou Reed, Peter Gabriel, il Tenax e su tutti: Neil Young, Harvest, no, dico, Neil Young, HARVEST:
“un fratello, un amico. Penso che alla fine mi basti poco. Io, Neil e la notte”
Grazie a Benedetto Ferrara per aver scritto questa storia, ricordando quel complesso di Sant’Orsola che custodisce i suoi segreti dolorosi, un edificio abbandonato sempre sul punto di diventare qualcosa, ma non si sa mai bene cosa. Un po’ come tutti. Forse.
Benedetto Ferrara, La ballata di Sant’Orsola, Edizioni Clichy, 2019
Benedetto Ferrara, giornalista, firma di «La Repubblica», ha seguito il Motomondiale, le Olimpiadi di Londra, i mondiali in Sudafrica e le avventure della Fiorentina, la squadra della sua città. Come documentarista e autore ha realizzato documentari a sfondo sociale in Burkina Faso, Perù, India, Brasile e Siria. Come autore e protagonista ha portato in teatro Violapop e Tutta mia la città. Nel 2019 pubblica con Clichy La ballata di Sant’Orsola.
Rispondi