
L’occhio che fa capolino tra i capelli corvini sul volto dell’adolescente in copertina è rimasto a fissarmi per diverse settimane dal lato sinistro della scrivania nella casa vicino al bosco, il mio luogo dell’anima e dell’altrove.
Quell’occhio rimandava a una richiesta muta: fissare nero su bianco le impressioni sul romanzo La tigna, di Roberto Contu.
È una storia che ho “sofferto” di quel particolare tipo di sofferenza che non è affatto negativa, piuttosto risponde alla condizione per cui con la lettura molto spesso ci si proietta al di là di noi stessi, in una forma partecipe, autentica e viva.
Roberto Contu con questa storia ha il grande pregio di raccontare in maniera semplice quel congegno (molto) complicato che è la vita, o meglio, quel che noi pensiamo sia la vita se la restringiamo alla circonferenza della nostra esistenza con noi al centro esatto. E questo accomuna adolescenti e adulti in una sorte condivisa.
La storia (che come sempre non racconterò) si svolge a Perugia, nel 1989, un liceo e un quasi oggi che ci mostra adolescenti senza il filtro dagli standard fotografati da Instagram in cui appaiono sotto mentite spoglie: sono ingannati, falsi, confusi.
Protagonista è Benedetta Ferri all’ultimo fatidico anno di liceo, la quale scopre di essere incinta di un suo coetaneo: l’aborto sembra essere la soluzione più semplice per ovviare a questo “incidente”. Benedetta si confida con il suo migliore amico, Luca, che tuttavia non saprà mantenere il segreto e sarà l’inconsapevole tramite di una soluzione a epilogo della vicenda.
Poi c’è “lui”, il professore di italiano, Renato Contro (nomen omen) scontroso e a tratti aggressivo, che in quello stesso liceo ha chiesto di essere trasferito.
Dunque il quindici settembre millenovecentottantanove inizia l’anno scolastico che coincide con la narrazione del primo capitolo: tutti i protagonisti sono all’inizio di un percorso e alle sette di mattina ciascuno di loro si mette in moto con il proprio vissuto e i propri conti in sospeso, ignari l’uno dell’altro. Oltre a quelli già citati c’è la preside Valentini (preside, non dirigente) che è anche madre di Luca e Don Andrea Clementi, insegnante di religione che dopo la messa al convento a cavallo della sua vespa raggiunge la scuola.
“Il quindici settembre millenovecentottantanove, alle otto e un quarto iniziava la scuola. Il viale era intasato di traffico, di ragazzi e ragazze, di mani che mischiavano isteriche l’aria, di profumo di diari appena usciti dalle cartolerie e puzza di Marlboro light nascoste tra i pugni. Si chiudevano finalmente gli sportelli sulle prediche non finite dei genitori, iniziava un altro anno, iniziava come da sempre nel chiasso, nella percezione che, come radiazione invisibile, la vita si appiccicava a tutti quei visi.
Perché, nonostante l’inerzia che da sempre spinge gli umani verso il basso fino al giorno in cui vengono strappati dalla terra, quello resta l’avamposto estremo dell’almeno adesso si vola.”
Ve le lascio qui queste parole: quello resta l’avamposto estremo dell’almeno adesso si vola.
Insegnanti, alunni, scuola, un mondo a parte nel quale convergono non soltanto i presupposti connaturati alla scuola come istituzione, ma le vite di centinaia di uomini, donne e adolescenti che lì dentro hanno un proprio quotidiano campo di battaglia di scontri e incontri, con desideri, ambizioni, dolori, insofferenze, dove passato e futuro si incontrano come in nessun altro luogo.
E proprio in questo luogo, il professor Renato Contro, senza troppi giri di parole fa quello che deve fare, ovvero parlare di Petrarca, Fenoglio, Leopardi, e il primo giorno si presenta così:
“Mi chiamo Renato Contro, ho quarantaquattro anni, sono di Roma ma vivo in Umbria dai tempi dell’università. Mi alzo alle sei, rivedo in un’ora la lezione che ho preparato il giorno prima in altre due ore, in genere dalle tre alle cinque del pomeriggio. Sommato alle sei ore di scuola più una appena alzato significa che per voi lavoro il giusto e siccome non mi piace lavorare gratis voi farete altrettanto. Questo significa pure che non ci saranno problemi di disciplina, se io lavoro, voi lavorate, se io mi riposo, solo tra un’ora e l’altra e per cinque minuti, voi vi riposate.”
Poi butta fuori dalla classe un alunno reo di aver tacitamente ironizzato e prosegue, distribuendo fotocopie con un testo di Fenoglio, Il gorgo, perché inizia così: “Nostro padre si decise per il gorgo e in tutta la nostra famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni, ed ero l’ultimo.” Un testo corto e bello, annuncia.
Il professore: anche lui nasconde un segreto terribile, un dolore indicibile, ma non arretra di un passo dall’espletare il suo ruolo nel modo in cui ritiene sia giusto e doveroso.
Su tutto c’è poi la tigna, quel sostantivo che a pronunciarlo fa paura, un’infezione che colpisce la pelle di uomini e animali a causa di un parassita. Una parola che spaventa, ma che qui è usata nel suo significato figurato di ostinazione.
Forse non lo siamo abbastanza ostinati, nessuno in realtà ha mai le risposte per gli altri, inutili i giudizi moralisti o peggio le certezze da elargire a buon mercato, può esserci però la convinzione che così come può attecchire il parassita del male, altrettanto può accadere con quello del bene ma ciò richiede testardaggine, puntigliosità, tutti sinonimi di: ostinazione.
Ciò che fa dire a Renato Contro, l’ultimo giorno di scuola, a vicende ormai narrate, in un dialogo con la preside (preside, non dirigente):
“… andare oltre quel caos, questo è il vero oltraggio.” E, qualche riga dopo: “.. o la letteratura ha il coraggio di osare oltre quelle colonne d’Ercole, e con lei la vita, la sua vita, la mia vita o allora sì che diventa irrilevante, allora sì che davvero si muore: ma non si muore preside, no che non si muore, la domanda più importante che dovrebbe assillarci non è perché si muore, ma perché si vive.”
Lascio qui anche queste, di parole: la domanda più importante che dovrebbe assillarci non è perché si muore, ma perché si vive.
Allora le vite, ogni vita, possono essere belle.
Tutto questo, e molto molto altro, è La tigna, e forse avrete capito perché ho lasciato quell’occhio in copertina a scrutarmi, perché è un romanzo davvero bello quello che ha scritto Roberto Contu, romanzo che quest’anno ho deciso di leggere con una classe terza perché anch’io ho i miei segreti inconfessabili come altri, paturnie che mi accompagneranno nel viaggio di un anno scolastico, ma mi ritrovo comunque tutti i giorni a dover mostrare un po’ di luce oltre quel caos che la oscura e la confonde, nel tentativo di ricostruire una possibile armonia.
Un po’ come il professor Contro, per dirla con una frase abusata di de andriana memoria, ma sempre efficace: in direzione ostinata e contraria.
Roberto Contu
Insegnante, si occupa e scrive di letteratura italiana, didattica della letteratura, mondo della scuola. Ha pubblicato con Aguaplano Anni di piombo, penne di latta (1963-1980. Gli scrittori dentro gli anni complicati) nel 2015 e Insegnanti. Il più e il meglio nel 2019, con Castelvecchi il romanzo Il Vangelo secondo il ragazzo nel 2017. Nel 2021, sempre per Castelvecchi, è uscito il suo ultimo romanzo, La tigna.
di lui ho scritto anche qui https://danielagrandinetti.blog/2020/07/08/intervista-in-3d-a-roberto-contu-su-pangea-news/
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