L’etimologia della parola “malvagio” ci dice che deriva dal latino “malifatius”, ovvero “che ha cattivo fato”, cattivo destino insomma, quasi a dire che alla malvagità si è predestinati, come fosse una componente della natura umana che si possiede fin dalla nascita. Questo era qualche secolo fa.
Tutti possediamo, consapevoli o no, un lato oscuro, ma oggi accanto alla “natura” c’è la “cultura”, cioè l’ambiente, il progresso, l’educazione etc. fanno sì che impariamo a dominarlo. Almeno così è per la maggior parte di noi, ma evidentemente non per tutti.
C’è anche chi cresce covando cattiveria e rabbia, ma nessuno ci fa caso, imputandolo alla “natura”, magari per incuria, ignoranza o timore. Questo avviene in modo particolare se questo “destino” tocca a una donna, perché si è portati a pensare che sia innaturale. Se è un uomo a uccidere è un mostro, ma “mostra” non esiste, esiste maledetta troia o altri epiteti.
Una donna che uccide il proprio figlio, perfino con crudeltà, è un fatto talmente aberrante da non riuscire nemmeno a pensarlo. Stimola la curiosità morbosa e ci porta a prendere le distanze, è il crimine peggiore, quella madre è indegna, dobbiamo allontanarla da noi. Ci rende inquieti, noi che invece siamo “normali”.
Se fossimo a qualche secolo fa quella donna non avrebbe un processo, brucerebbe su un rogo, o linciata nella pubblica piazza, e tutti saremmo fieri di scagliarle una pietra contro. Non avremmo in testa un solo pensiero per quella vita innocente, ma solo la rabbia per quella deviazione della natura che è una minaccia e pertanto va eliminata.
Forse anch’io scaglierei una pietra contro, perché l’dea di una vita stroncata crudelmente, proprio da colei che quella vita avrebbe dovuto proteggere, sarebbe più forte della ragione, lì, tutto il nostro istinto animale sarebbe nudo. Vorrei, come gli altri, che crepasse.
Quand’è che si insinua quella stilla di follia che nella testa di un essere umano – sia donna o uomo – sposta l’ordine dell’universo così come l’abbiamo creato e lo conosciamo?
Alt. Questa è una domanda fuori posto, non c’è posto nella pubblica piazza per la ragione.
Alla fine è la solita, logora, vecchia storia: madonne o puttane. È così che ci rassicura l’ordine della cose. Le madri sono buone per definizione. È la natura.
Io, che madre non sono diventata, conosco la particolare solitudine che può esserci nella maternità, potrebbe sembrare un paradosso ma non è così: è una cosa alla quale è difficilissimo accostarsi, un tabù, per semplificare.
Quando una mattina mi sono trovata in un letto d’ospedale a sei letti dove ero finita nella notte d’urgenza, io non avevo voglia di aprire gli occhi, perché intuivo che a nessuno sarebbe importato come mi sentivo, altrimenti non avrei avuto davanti tre donne alle quali erano stati portati i propri neonati perché fossero allattati. Stavo ormai per entrare in un mondo “altro”, un mondo diverso e lontano dai mondi intorno. Una specie di universo parallelo dal quale cominci a guardare la vita. Ti arriva il chiasso, il fervore, la speranza e il pianto dagli altri mondi ma sul tuo c’è silenzio, un silenzio che con l’andare del tempo diventa insopportabile.
E ti rendi conto che quella consapevolezza non era solo una sensazione momentanea di dolore, quando perfino quella che era la tua migliore amica (sì, proprio quella con cui hai diviso un pezzo di strada, quella che viene dai collettivi di donne) sparisce. Poi un giorno la incontri con la carrozzina davanti a giardini e non ti chiede come stai, ti dice soltanto “non sai come ti cambia la vita, pensa che adesso il momento migliore è quando prendo il tè a quest’ora con le altre mamme”. Ti ha condannato con nonchalance a due anni di analisi, eppure solo ieri prima di diventare madre aveva vissuto anche lei quel calvario che stava toccando a te. Vi siete riempite l’esistenza con frasi tipo “solidarietà femminile”.
È lì che tu capisci che si è aperto il divario, ci sono dei paletti che da adesso in poi, ti terranno “di qua”, dove sei sempre stata, ferma, perché non hai un figlio e tu non puoi capire. Ci sono mille fottutissimi modi per fari sentire un’aliena, quando perfino nelle graduatorie scolastiche c’è quella che raggiunge il tuo punteggio ma ti scavalca perché ha figli e tu no.
Questa buona indole femminile l’ho conosciuta in decine di serate trascorse a sentir parlare di avventure e sventure di pargoli che crescono. E tu sei lì, nel tuo mondo altro, dove niente è abbastanza degno di attenzione, quelli sono problemi veri, concreti. Io ho cominciato a viaggiare “altrove”.
Eppure io, così arrabbiata con la vita e con me stessa per il mio istinto materno tradito, comprendo in pieno cosa sia o possa essere la solitudine di una madre, non perché sia un’eroina, ma perché ne conosco la matrice: a nessuno piace guardare un mondo parallelo che fluttua nel silenzio. Tutto deve scorrere normalmente, perfino quando normale non è.
Noi preferiamo credere che esista l’indole malvagia, perché alla fine di ogni fiaba la strega ha sempre quel che si merita.
Con buona pace, sempre, di chi non si è accorto di nulla e il pensiero rivolto a un innocente.
Io che madre lo sono, ti capisco e mi viene di identificarmi “anche” nel tuo mondo parallelo, in cui i luoghi comuni confinano le persone che al sentire smielato e paludato della cultura da “Mulino bianco” preferiscono i terreni della ricerca sofferta e inquieta della propria dimensione. Boschi pieni di solitudine da alberi ritorti e privi di fronde verdeggianti, dove essere madre e anche donna che ricerca la propria dimensione significa vivere col cuore pieno di dubbi e sensi di colpa e dilemmi. In queste foreste di solitudine, la malvagità può affiorare spesso come destino perché il lato oscuro non è il sentimento melanconico e poetico che ispira i canti alla luna, ma si rivela destino sociale della segregazione e dell’emarginazione che non trova a prevenire i drammi nessuna sponda di sostegno amicale. Figuriamoci di tutela o attenzione sociale per le madri e per i figli. L’attenzione è solo al consumatore e consuma focolari di speranza e utopia.
Grazie per queste considerazioni, abbiamo un “comune sentire” e il tuo commento aggiunge una nota di sano realismo a rafforzare, credo, l’idea che l’espressione “indole malvagia” è quanto meno vecchia, si capisce solo per l’effetto mass mediologico.