C’era una volta la Scuola.
La Scuola era uno spazio dove docenti e discenti – nel bene e nel male – trascorrevano una considerevole fetta di tempo con una finalità ben precisa: formare individui. In quella formazione ciascun docente metteva il proprio ingrediente: chi la farina, chi le uova, chi lo zucchero, chi gli aromi. E infine, tutti, ciascuno con un granello, aggiungevano il lievito, che è poi l’ingrediente basilare per far crescere e lievitare la torta. Se mancava anche uno solo di quei granelli la buona riuscita di quella torta era irrimediabilmente compromessa (infatti non tutti aggiungevano quel granello e in giro c’erano un sacco di torte sfatte e venute male).
In quella Scuola l’azione dei docenti era concentrata su un certo numero di torte per ogni classe, per ogni anno. La torta era il principale obiettivo della loro azione.
Quella Scuola aveva difetti, storture, malfunzionamenti. Nel dire c’era una volta la Scuola, non voglio dire che ho nostalgia di quella scuola, né che il passato sia meglio del presente. Pure però, se dico che la scuola mi piace sempre meno non voglio essere marchiata come passatista, o nostalgica o peggio ancora reazionaria.
Dal momento che al concetto di evoluzione leghiamo sempre quello di miglioramento, bisognerà pur chiedersi se questa evoluzione è in atto, cosa è successo e cosa succederà.
Molti dicono, ed è vero, che il mondo è cambiato e quella Scuola così come la conoscevamo non può più esistere. Oggi il mondo va veloce, comunica in tempo reale, non esiste la novità perché il nuovo diventa vecchio un secondo dopo aver fatto capolino. Quindi il vecchio fa male e il nuovo (incessante e in moto perpetuo) fa bene. Niente deve sedimentare, tutto scorre, come immagini su un monitor nel quale teniamo premuto il tasto “avanti”.
Avanti, portiamoci avanti, sempre avanti, non importa dove, non chiedetevi come, e soprattutto perché. Avanti è dove bisogna andare.
Il mondo oggi parla inglese, parla inglese l’economia, parla inglese la politica. È giusto, io stessa sono laureata in Lettere e parlo inglese. Sacrosanto. Ma allora perché non solo non parliamo inglese (portate i ragazzi all’estero, e vedrete come se la cavano) ma stiamo dimenticando anche l’italiano? Cos’è che non funziona?
C’era una volta la Scuola, un luogo che apparteneva a studenti e insegnanti e dove quest’ultimi avevano un ruolo (vi siete chiesti perché si dice “passare di ruolo” quando si firma il contratto a tempo indeterminato?). In quel luogo, ad esempio, la famiglia entrava in punta di piedi, quasi timorosa di invadere uno spazio non suo. Certo non erano rose e fiori, ma i genitori volentieri lasciavano casa, faccende, lavoro, ufficio per recarsi a colloquio con il professore ed entrambi in quel colloquio ci mettevano la faccia. Oggi scriviamo montagne di carte, firmiamo patti di corresponsabilità, firmiamo e chiediamo “deleghe”, diamo la possibilità di accedere a qualsiasi informazioni con una semplice composizione alfanumerica chiamata password. È indubbiamente meraviglioso. Ma se ad esempio il voto di mio figlio non mi va giù, io posso agire in nome della trasparenza alla quale ogni docente è obbligato. Chiedere spiegazioni, arrabbiarmi e mandarlo a quel paese.
“Trasparenti”.
In effetti siamo diventati trasparenti, anche quando ci facciamo sentire a migliaia. Trasparenti siamo di fronte a un ragazzo che dice che suo padre guadagna più di te senza un titolo di studio, oppure ti chiede perché hai studiato “tanto per due lire che ti danno, non poteva fare l’avvocato, o il medico?”. I soldi danno visibilità e prestigio nel mondo in cui li educhiamo.
C’era una volta la Scuola, e non parlo della scuola com’era, nessuna nostalgia per quella scuola. Solo che almeno c’era e ora non c’è più.
Ora ci sono le scuole, tante, diverse, simili e opposte, un groviglio di scuole con tanti indirizzi, ciascuna con la propria merce da offrire. Come puttane su un viale (con tutto il rispetto per le puttane), che fanno a gara a chi più e meglio espone i propri attributi, a chi più e meglio sa essere ammiccante e attirare il maggior numero di clienti.
Ora non importa che il docente sia amante del proprio ingrediente e del proprio granello di lievito, perché se fai una torta alta, profumata, ben riuscita, bella a vedersi e buona a mangiarsi, non gliene frega niente a nessuno. Così come non gliene frega niente a nessuno se tu ami così tanto quell’ingrediente da volerlo trasmettere.
Ora devi saper fare il minestrone, più roba ci metti, più viene meglio e al posto del lievito ci metti il dado, quello fatto con gli scarti, che così viene più saporito.
Ora il docente deve essere MULTITASKING ovvero deve comprarsi (perché a scuola non è che te li diano, a scuola mettono la carne sul fuoco ma di norma ti danno solo il fiammifero) un bel pantalone extralarge con MOLTE tasche e in quelle ci deve stare tutto: conoscenze, competenze digitali e informatiche, marketing e vendita, elementi di clowneria (se no i ragazzi si annoiano) elementi di medicina e pronto soccorso perché siete funzionari pubblici, palette e formulario multe per chi non rispetta i divieti perché siete pubblici ufficiali, capacità di trattare la dislessia, l’aritmia, la diascalculia e i calcoli al fegato (ma qualcuno si chiede a chi conviene la medicalizzazione della scuola?) i bisogni educativi “speciali” (ma sì, diamo un bollino ai poveri, agli orfani, ai figli di disoccupati, sono diversi!) E poi capacità di progettare, di programmare, di scrivere il curriculum in formato europeo, di riempire programmazioni e relazioni estenuanti in un linguaggio comprensibile solo ai funzionari di fascia alta, omologato in formule, copiato e incollato. Inoltre deve trasformare le conoscenze in competenze, il sapere in saper fare perché – diciamolo- del sapere vostro e dei vostri alunni, rassegnatevi una volta per tutte, NON GLIENE FREGA NIENTE A NESSUNO.
Insomma, più sono quelle tasche, più sono le probabilità che veniate notati, scelti dallo STAFF (e se fate i bravi vi danno anche la maglietta) dirigenziale. Oltre ai papa boys, ci sono i dirigenti boys, anzi il team, per par condicio.
Nelle scuola non ci sono più i presidi, ovvero quei funzionari pubblici al servizio della loro comunità scolastica che sovrintendevano al buon funzionamento della scuola. Ci sono i manager dirigenti, e più sanno come accoppiare risparmio e crescita del numero degli allievi più si premiano con soldi e reggenze (ma si sa che la nostra cultura proprio anglosassone non è, pensate ai premi che diamo ai manager raccomandati e incapaci nelle aziende italiane ai vertici dell’economia, quelli che le aziende le hanno distrutte).
Da ultimo, sulla massa dei docenti trasparenti si ergerà un numero di docenti di serie A che sarà premiato, sì, premiato come nei quiz alla TV, perché insomma la vita è tutta un quiz, quindi ben vengano gli Invalsi e i comitati di valutazione. In un luogo che dovrebbe promuovere la collaborazione come valore, ecco che fa il suo ingresso la svolta del futuro, signori e signori, ecco a voi: LA MERITOCRAZIA. Certo, ben venga, mica siamo tutti uguali, c’è chi lavora sul serio e chi no, quindi è bene che si sappia chi sta da una parte e chi dall’altra. Ma chi ce lo dirà? Con quali criteri?
Ma come chi? Ma lui, il COMITATO: il dirigente/manager, un genitore, un allievo, due insegnanti.
Il minestrone è dunque servito, condito da quella competizione che nei corridoi serpeggerà come un cobra, sputerà il suo veleno, ucciderà il buon senso.
C’era una volta la scuola e ora non c’è più.
Benvenuti nelle scuole del futuro, e se la vecchia Scuola non ci piaceva, la scuola del futuro spero non sia questa. Siamo alle scuole del mercato, dove tutto si compra e si vende al miglior offerente. Anche le promozioni.
Che i discenti sono pur sempre clienti e, come si sa, il cliente ha sempre ragione.
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