28 novembre

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Miseria e Nobiltà

Ora di buco, sala insegnanti. Oggi sono arrivati i neo immessi in ruolo della fase C, hanno facce felici di chi finalmente ce l’ha fatta. Parlano molto, soprattutto una, danno l’impressione di voler dare il segno che sperano di collaborare, per questo si presentano a tutti i colleghi. Si vede che temono di finire a fare i tappabuchi, anche se aver firmato il contratto li rende euforici.

Quando ho firmato il mio di contratto è stato uno dei giorni più brutti della mia vita, ma era per faccende personali, comprendo perfettamente il loro stato d’animo: uscire da uno stato di precarietà è qualcosa che ti fa assomigliare a un animale che trova casa dopo aver combattuto nella foresta.

Tuttavia io all’indomani della firma del contratto sapevo cosa avrei fatto: ovvero quello che avevo fatto negli ultimi sedici anni, insegnare italiano e storia. Per loro è diverso: nessuno sa ancora come esattamente verranno utilizzati (pessima espressione) questi insegnanti. Loro hanno parlato molto di progetti, ma ho imparato a temere molto questa parola, che spesso poi si rivela necessità di contenuti a costo zero, anche se non ho osato dirlo. Sarebbe stato fuori luogo.

Seduto in angolo stava il professore in uscita, cioè il collega che andrà in pensione.  Mi dice sempre che ormai non vede l’ora, che la scuola che lascia non è quella che ha sempre pensato di contribuire a costruire e quindi lascia senza rimpianti.

Tra l’entusiasmo di questi nuovi insegnanti che non la smettono di chiacchierare, di chiedere, di parlare e la quieta rassegnazione dell’insegnante che gli dà il benvenuto dicendo loro che è felice che ci siano persone giovani e motivate, io mi sento nel mezzo, assalita da una strana malinconia. Sento di non appartenere né a una parte né all’altra. Sento di non essere né vecchia né giovane.

Sento più che altro, come la gran parte delle volte, che da questa parte del muro sono a disagio perché per me la scuola sono le aule con i ragazzi, qualsiasi cosa ci sia fuori mi pone dubbi e interrogativi, spesso mi dà tristezza. Quella con gli alunni è una sfida che affronto tutti i giorni come se fosse nuova sempre, perché non sai mai quello che capiterà. Devi essere malleabile, duttile, pronta a passare dall’acciaio allo stato liquido in un nanosecondo e viceversa. Almeno per come lo intendo io.

Invece con i colleghi ormai sono un pesce fuori dall’acqua. Mentre ascolto mi sovviene un’immagine che mi ha colpito, due giorni fa, durante il collegio. Una collega solerte che si alza e rammenta alla dirigente che la scheda di valutazione dei ragazzi che sta proiettando sul grande schermo è frutto della suo lavoro la sera precedente, il che equivaleva a dire

A) che noi stavamo approvando una cosa uscita dalla mente di un’insegnante quando siamo un centinaio e passa

B) che le modifiche apportate alla scheda erano quelle sollecitate dalla dirigente, per cui la collega con solerzia le faceva notare che le aveva accolte. Quando si dice la piaggeria.

Niente di male, accade, ma sono cose che mi lasciano perplessa, una sorta di corsa all’oro che è vero, c’è sempre stata, ma da quando hanno dato il via sta aumentando in modo esponenziale in velocità e in modalità, quasi stia lì la garanzia di successo. Di cosa poi  devo ancora capirlo.

Do comunque il benvenuto ai nuovi colleghi, ma non so, ho come la brutta sensazione che ancora una volta si comincia a costruire la casa dal soffitto, quando le fondamenta stanno marcendo. Un po’ come la scala di sicurezza che stanno costruendo davanti alla mia aula: solida, in ferro e con l’ascensore. Peccato che dentro i muri siano a pezzi, gli alunni sono in sovrannumero rispetto alle dimensioni delle aule, le lavagne sono vecchie e consunte, attaccate coi fil di ferro. Gli insegnanti hanno firmato per avere un pennarello da usare alla lavagna che deve bastare tutto l’anno, altrimenti che se lo ricomprino.

La Buona Scuola è lì, nell’orizzonte sorridente di queste facce giunte oggi, di sabato.

Per fortuna, almeno per quel che mi riguarda,  mi salva il fatto che quando entro in classe l’alba è passata e il mio orario di lavoro finisce sempre prima di qualsiasi tramonto.

 

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