Trump, la 3° C e il Dolce Stilnovo

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When you’re a star,  you can do anything. Grab ‘em by the pussy. You can do anything (D. Trump)

Mi avvio a scuola contrariata, che in America abbiano potuto eleggere un tale babbeo mi pare il fondo del baratro. Non me ne importa un fico secco delle analisi politiche, neanche le voglio ascoltare le banalità che vomiteranno i media nelle prossime ore, tanto lo so che in meno di ventiquattr’ore troveranno una logica.

Entro nell’aula vuota, apro la finestra, mi siedo e guardo i banchi, mi godo quei pochi minuti di quiete, tra un po’ qui dentro si scatenerà l’inferno.
Sono in 3° C, qui nelle ultime settimane ho dichiarato guerra: una classe scomposta, disordinata, fare lezione qua dentro è diventato difficilissimo. Sono quasi tre mesi dall’inizio dell’anno e mi arrabatto tra urla, sequestri di cellulare, Dante, la Commedia e il Dolce Stil Novo. A questi non gliene frega niente. Ho persino scritto un patto d’aula, l’abbiamo concordato, l’hanno firmato tutti ed è in bella mostra sul muro. Non c’è verso.

All’improvviso mi balena un’idea, sta per suonare la campanella e loro stanno per arrivare. Io divido la lavagna in due colonne e su una comincio a scrivere versi dei vari sonetti, tutte le prime strofe di Cavalcanti, Guinizelli, Dante.
Loro arrivano nella solita baraonda, urla e strepiti miei e loro per sistemarsi. Sto ancora scrivendo, intimo loro di ricopiare tutto sul quaderno.
Sempre a scrivere“. Mi volto, fulmino con lo sguardo: “Stai zitto e scrivi.
Copiano tutto, per un po’ c’è un bel silenzio. Mi assicuro che abbiano scritto tutti, rileggo i versi. Ogni strofa è accompagnata dall’autore e dalla data di nascita.
Poi comincio a scrivere sulla seconda colonna: al primo verso si bloccano, spiazzati, al secondo cominciano a ridere, al terzo cominciano a capire, al quarto iniziano a suggerirmi loro quello che potrei scrivere. Riempiamo la seconda colonna con tutti gli improperi, le male parole, le espressioni a dir poco colorite che sono soliti pronunciare senza troppi freni o complimenti.
Così accanto a Tanto gentile e tanto onesta pare, o al Io voglio del ver la mia donna laudare, compare – Dio mi perdoni – in culo a mammata, mi hai cacato il cazzo e così via.
Non me ne vogliano Dante e Guinizelli e nemmeno i puristi e i benpensanti, ma a male estremi estremi rimedi, dice il proverbio. Di fronte a quella lavagna oggi ho messo a confronto due linguaggi, quello che dovrei insegnar loro e quello che usano, quello che si rifiutano di capire e quello che invece è il loro pane quotidiano. Ho parlato loro di gentilezza e cortesia, del bisogno di ritrovarle, ho tentato di far loro sentire la violenza di quelle espressioni, fuori contesto in un’aula di scuola.
E così per un po’ mi hanno seguito, e so che hanno capito. E’ servito? Beh, gli ultimi cinque minuti di lezione è ritornata la fanfara di sempre, sembravano usciti dalla bolla comunicativa che si era creata fino a cinque minuti prima. Sembrava svanito tutto.
Però so una cosa: che nel nostro lavoro bisogna sminare, a costo di saltare per aria, a volte. Bisogna levare le mine una dopo l’altra, perché è così che lavoriamo: in un campo minato.
E se oggi ho disinnescato qualche mina estremizzando la spiegazione di un argomento (che mi sta a cuore), ebbene, da idealista impenitente quale sono, penso che mina dopo mina è questo il lavoro che si deve fare per non fare vincere (come sta vincendo) l’ignoranza e la maleducazione sulla conoscenza, l’arroganza e la volgarità sulla decenza, la cafonaggine e l’inciviltà sulla cultura e la civiltà.

E in questo c’entra anche Trump.

11 marzo

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Scuola e quotidiani combattimenti

Oggi oscillazioni umorali dal basso al bassissimo all’alto, andata e ritorno. Ci sono giornate lunghe e faticose costellate dalle solite frustrazioni e straordinari incitamenti.
Durante la lezione in terza ho chiesto ai ragazzi di fare una relazione sulla visita in un’azienda del luogo svolta il giorno prima. Alla fine del lavoro le abbiamo corrette insieme.
Il dato che mi ha colpito e fatto riflettere è il seguente: i toni entusiastici con i quali hanno descritto questa attività, a cominciare dalla disponibilità dei due colleghi che li hanno condotti sul posto con le loro auto, alla disponibilità dimostrata dai titolari e dai dipendenti dell’azienda che hanno mostrato loro macchinari in funzionamento e slides illustrative dei procedimenti, al brodo di giuggiole per il piccolo buffet di dolci, salati e succhi di frutta che hanno offerto loro alla fine della visita, senza tralasciare l’omaggio di una borsa con dentro penne e block-notes che si sono prodigati anche a mostrarmi.
Dalle loro parole e dai loro sguardi ho capito soprattutto che è stata la considerazione che li ha resi attenti, partecipi e contenti di aver fatto questa esperienza.
La considerazione è in effetti spesso la chiave del successo nella relazione tra docente e allievo. I ragazzi sono abilissimi a distinguere i docenti ai quali di loro in fondo importa relativamente da quelli che hanno a cuore il loro personale destino. E’ inutile girarci intorno, questo mestiere senza empatia non si può fare, è inutile bluffare, quella è una qualità che non si inventa o c’è o non c’è. E quando non c’è fa danni tangibili.
Considerazione ed empatia appunto.
Nell’intervallo incontro la collega incaricata di funzione strumentale (non finirò mai di stupirmi per queste qualifiche da macchietta) la quale mi dice che ha avuto l’incontro con la dirigente per l’organizzazione di un incontro tra le quinte e uno scrittore. Un libro importante, un autore prestigioso, un’occasione notevole e soprattutto gratuita.
Problemi: la pratica deve seguire l’iter, va fatto un progetto da presentare all’attenzione del dirigente.
Obiezione: abbiamo tempi brevi.
Risposta: non so che dire, l’iter è lungo e il dubbio è: i docenti leggeranno il libro per guidare gli allievi?
Che faccio, rido? Rido o piango?
Mi sale una rabbia infinita. E improperi a iosa. Sono forse i ragazzi la parte offesa? Sì, in primis, ma anche noi, noi docenti. Costretti e misurarci con cotanti inutili pericolosi frustranti meccanismi di un nuovo potere.
Nessuna capacità di giudizio, pur nella buona volontà e nella gratuità dell’azione, è riconosciuta ad insegnanti che vogliano rendere la scuola un luogo di promozione culturale e di crescita. Considerazione appunto. Vien voglia di mandare tutto a quel paese. E se vi capita di incontrare un insegnante che ha questo atteggiamento, sappiate che ne ha ben donde.

Poi alla quinta ora l’episodio spiacevole: i carabinieri a scuola. Anche a Borgo, in Toscana, i carabinieri a scuola li ho visti varie volte e sempre per lo stesso motivo: droga o furti. In questo caso si trattava di un furto ai danni di uno studente lavoratore di un’altra classe, una cifra considerevole, la sua paga a nero di un mese.
Spiacevole è stato vedere i ragazzi infilarsi in un’aula vuota per essere perquisiti, spiacevole è sentirsi impotenti.
Tutto stride in questo luogo sempre più fottuto.
Esci da scuola delusa.
Così sono certi giorni.
Sembra di combattere contro i mulini  a vento.
Un fallimento.
Con rima.

14 febbraio

 

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Non è sempre rose e fiori

Ieri pioveva a dirotto. Ci sono sabati in cui il suono della campanella è così liberatorio che potresti piangere. Ero stanca. La mattina mi ero svegliata con Nick Drake nella testa and The day is done continuava a girare nonostante tentassi di spegnerla.

È una settimana che mi dico “domani rimango a casa”, poi non lo faccio. Non è sempre entusiasmo e rose e fiori. Lo so che in qualsiasi professione ci sono momenti di stanchezza. Il fatto è che quando ogni giorni varchi la soglia di un’aula scolastica è come se ti buttassero in una vasca di anguille vive.

Tu volente o nolente devi cercare di acchiapparle. I ragazzi si aspettano sempre qualcosa da te. Prima di tutto energia. Ma certe volte tu sei lì come una spugna asciutta, spremuta e lasciata andare. Non hai voglia di loro, anzi vorresti urlare che sei stanca e non ne puoi delle loro stronzate, dei loro cellulari che sono un’epidemia, del loro menefreghismo. Vorresti stare seduta, ferma e zitta e fissarli immobile. E con il silenzio sfidarli. Il fatto è che non puoi.

Due giorni fa sono stata durissima con M., mi ha esasperato, avessi potuto gli avrei tirato il collo. Tu sei lì che ci provi in tutti i modi per cercare di coinvolgerlo, motivarlo, lo hai promesso anche a sua madre, che è disperata e non sa che fare. Ma cazzo, ha diciotto anni e ci ammorba pure con le sue scorregge. Non ha alcuna capacità di controllo o uno straccio di consapevolezza di non essere da solo nel suo bagno. E allora fanculo! Vai a lavorare e chissenefrega! Per quello che mi danno sono stufa di fare l’assistente sociale. Non posso sempre fare il minatore in miniera a scavare per portare alla luce il tesoro senza neanche sapere se lì c’è davvero un tesoro. Io Manzoni devo insegnare, non la voglia di stare al mondo con un minimo di decenza.

Anch’io, che credete, ho i cavoli miei, e belli pesante anche. E Nick Drake continua a cantarmi nella testa e voi nemmeno sapete chi è, con quelle musiche insulse che vi sparate nelle orecchie che basta uno sputo a metterle insieme.

Sì, avrei bisogno di uno stacco. Il fatto è che sul foglio per chiedere il permesso non ci sta la voce “necessità di ricaricare bellezza prima che li faccia fuori tutti.” O anche semplicemente: “Riposo”. (evitare termini come stress, stressata, li detesto.)

L’energia non ce l’hai e la devi trovare , ogni giorno.

Sì, quella che è passata è stata una settimana difficile, di quelle che ti mettono alla prova.

Poi accade che una domenica mattina come oggi accendi il pc e trovi un messaggio: F., un ragazzino che avevi lo scorso anno, ti scrive: “Buongiorno prof. Come sta? Io con la prof di quest’anno non vado per niente d’accordo. Per favore l’anno prossimo, può tornare da noi?”

Sei in trappola. Senza scampo.

 

26 gennaio

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Illustrazione di Luigi Guarino

Quattro ore di corso di formazione sulla sicurezza. Meno male ho dei colleghi simpatici, altrimenti sarebbe da spararsi. Argomenti oltremodo noiosi. Non ci formiamo – né confrontiamo – sulle cose importanti ed essenziali, ma dobbiamo conoscere tutti i rischi sul lavoro. Per carità, sacrosanto, se solo le scuole (almeno la gran parte) fossero luoghi messi in sicurezza, cosa che non è affatto.
Un mio collega ha fatto un bellissimo intervento a proposito di stress sul lavoro (perché nei protocolli c’è anche il rischio correlato allo stress). In sostanza ha detto che poiché non produciamo tonno in scatola per cui procedure e ricadute sono verificabili dovremmo fare attenzione a farci trattare come se sfornassimo merce, utenza, clienti. Mi sarei alzata per dargli un bacio in fronte.

Comunque registro che Kalim sta venendo a scuola. È stato vicino alla seconda sospensione a causa di uno di quegli insegnanti che qualche pagina fa ho definito grandi coleotteri (beh… a dire il vero lui ha mandato quell’insegnante a fanculo, ma per ottenere il risultato il bravo coleottero ci ha lavorato su parecchio!)
In quei giorni, consapevole d’averla fatta grossa, aveva smesso di nuovo di venire a scuola, tanto che con un amico gli ho mandato un biglietto con i toni di cazziatone epocale. Per fortuna a maggioranza abbiamo deciso che un’altra sospensione nel suo caso sarebbe stata fatale, significava buttarlo per strada. Ha avuto la sua brava ramanzina e gli abbiamo concesso un’altra possibilità. La buona notizia è appunto che a scuola sta venendo assiduamente.
Al rientro a un certo punto mi ha mostrato il biglietto che aveva ricevuto e mi ha fatto segno che lo porta con sé. Questo – mi ha detto – me lo conservo.
Se ne sta lì certe volte e lo vedo che mi scruta, nota tutto sto’ fetente. Tipo mentre parlo mi dice: ma perché si è allisciata i capelli? Sono mbalusi, era meglio prima. Mbalusi è una parola che ha imparato e schiaffa dappertutto, vuol dire che non vanno bene. Oppure: lo sa che il fumo invecchia, che se non fumasse non avrebbe quelle rughe? In pratica mi sta dicendo che devo avere più cura di me. Mi tiene d’occhio.
Qualche volta alla fine dell’ora mentre si preparano per uscire mi si accovaccia a fianco alla cattedra e mi chiede: ma me ne volete bene?
No, rispondo. Io sono pagata per insegnarti storia e italiano non per volerti bene Kalim.
Il massimo è stato la scorsa settimana quando mi ha chiesto: ma voi siete felice? Sono rimasta spiazzata.
Ma come ti viene in mente di farmi ste’ domande?
Io lo so perché mi fa queste domande.  Perché non ha la stessa intelligenza e sensibilità degli altri. Non studia niente, avrà una pagella disastrosa, ma non è come gli altri.
Caro Kalim, se sono felice o meno non è un problema. So però che spesso sono stanca, sempre più stanca. So che quello che succede fuori dalle aule mi piace ogni giorno di meno. So che è facile attaccare me e quelli come me, fin troppo facile. Non scodinzolo, non compiaccio, non mi mostro, mi piace fare quello che devo fare con passione, detesto i tecnicismi, detesto perdere tempo in inutili cazzate che ti atrofizzano il cervello, detesto farlo perché va fatto e salvo il quieto vivere, non ho alcun senso della gerarchia, capisco solo la cooperazione e la collaborazione e a quelli che dicono cose tipo “il/la dirigente vuole così” mi verrebbe voglia di dargli una sberla. Contrastivi, pare che abbiano definito così gli insegnanti non allineati. Mi sa che sono tra quelli, mio malgrado.
E  gli strumenti, caro Kalim, non sono così diretti come quelli che i professori usano nei confronti degli allievi. Sono subdoli. Sono piccole azioni, una per volta. Siccome penso e poiché penso parlo, questo non va bene, non è mai andato bene. Meglio star zitti e tirare a campare.
Lo stress sul luogo di lavoro. Mi viene da ridere caro Kalim, da ridere.
E mi sa che tu te ne sei accorto.
Lo sai Kalim? Io che sono più di venti anni che insegno con dedizione, mi dovrò difendere davanti a un giudice. Sì, perché ho subito un provvedimento del tutto ingiusto e fuori luogo. Tra le tante cose c’era scritto: “… ravvisando nella sua condotta mancanze relative alla funzione docente, ai doveri di correttezza, di collaborazione ecc ecc”
Qualcuno dice che non dovrei scriverne, non dovrei dirlo, ma non ho nulla di cui vergognarmi, anzi, il mio è paradigma della nuova aria che comincia a tirare. Io non riconosco il linguaggio copiato dalle leggi e usato da chi legge non è, io conosco il potere della parola, questa, adesso, qui.
Buona la scuola, vero Kalim?
Nessuno può permettersi di rivolgermi parole di quel tipo solo perché ha motivi altri che non conosco e non voglio conoscere. E per questo devo intraprendere a malincuore un’azione legale.
Nessuno può farlo, se non altro perché se tu sei tornato a scuola e non sei per strada a fare chissà che, è merito mio e di quelli come me.
Insegno il rispetto prima della letteratura. e se lo insegno, lo esigo. E’ una cosa semplice e naturale e non c’è niente di eroico in questo.

Professoressa, ma voi, siete felice?

A chi piace questo clima di finti e ipocriti moralizzatori forti delle campagne mediatiche in nome di cause solo e esclusivamente personali che niente hanno a che fare  con l’educazione e la scuola – proprio in quanto prima istituzione deputata all’educazione –  dico: tenetevela.
E buona fortuna.

Ps. comunque Kalim,  sì, a te sì, ti voglio bene.

25 gennaio

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Una lezione particolare

Al rientro delle vacanze natalizie c’è stata una lezione piuttosto singolare. Si sa, il primo giorno dopo le vacanze è sempre una mezza tragedia sia per i gli allievi che per gli insegnanti. Quel giorno avevo la prima ora in seconda. Io cercavo di darmi un tono per forza di cose, i ragazzi avevano l’aria sonnolenta e svogliata.

Parte così la domanda per spezzare il ghiaccio e ripartire: e insomma che avete fatto di bello durante le vacanze?
Succede che F. alza la mano prontamente esclamando io ho commesso due omicidi.
“Si va boh, neanche uno, addirittura due. E chi, di grazia?”
F. è un ragazzino piuttosto in carne, dislessico, ha problemi a scrivere e anche ad esporre e, stranamente, si lancia in un’affabulazione, che qui provo a ricostruire, che ha coperto tutta l’ora di lezione e ha coinvolto diversi suoi compagni che hanno confessato di essere avvezzi a “omicidi” del genere.
In realtà F. durante le vacanze “ha fatto il maiale” , espressione con cui si indica l’uccisione dell’animale in un giorno che per la famiglia diventa una sorta di cerimonia festaiola.
Ed ha spiegato passo passo in cosa consiste questa due giorni: si comincia al mattino presto quando l’animale viene – ahimè – appeso a un gancio a testa in giù e ucciso. Viene lasciato appeso in maniera che coli tutto il sangue (che viene raccolto in un recipiente) e nel frattempo si scalda una “quadara” d’acqua, ovvero un grande pentolone, che servirà per pulire l’animale.
Si lava con l’acqua bollente una prima volta e vengono messe a mollo le zampe perché così le unghie si leveranno più facilmente. Il sangue a questo punto vien messo da parte. Con quello ci si farà il sanguinaccio, cioè una crema spalmabile con cioccolata, uvetta e pinoli.
F. dice però che un altro modo di utilizzare il sangue consiste nel farlo bollire fino a completa condensazione per poi tagliarlo a fette. Pare sia buonissimo fritto condito con formaggio aglio e prezzemolo. Mi fido, perplessa.

Si prosegue bruciando i peli che sono rimasti sulla pelle e si passa a un secondo lavaggio che però viene effettuato con sale e limone (o sale e arancia). A questo punto il maiale è pulito  e viene diviso in due. Ogni parte viene incisa per sfilare i tendini, dopodiché si svuota l’interno.
Fino a questo punto hanno lavorato gli uomini, da questo momento in poi, invece, entrano in scena anche le donne che cominceranno con il lavare gli intestini che serviranno per il salame. Li lavano in un secchio con acqua, aceto e sale.
Poi si forma una sorta di catena di montaggio: chi macina la carne, chi incide la pelle per fare cotiche e curacchi, chi gira una macchinetta, chi è pronto per riempire il budello. E voilà si fanno le salsicce.
In un altro pentolone vengono messi a cuocere le pelli e le parti dure tipo le orecchie, con le quali si farà la gelatina. Il grasso invece viene raccolto per fare le risimoglie (e queste anch’io so che sono una prelibatezza!)
Durante i due giorni le famiglie mangiano insieme: il primo giorno a pranzo a base di patate, fagioli, giardiniera, pane e companatici vari, mentre alla sera la pasta con la carne di maiale  al sugo. Il giorno dopo polpette di carne e –  dice F. – ossa cotte da spolpare che sono – pare – buonissime.
Alla fine del secondo giorno in pratica, salsicce, salamini e prosciutti sono pronti per essere consumati o stagionati.

Devo dire che a me tutto questo racconto ha fatto un po’ effetto, ma F. si è dato da fare per raccontare con ordine tutte le procedure e non me la sono sentita di fare la parte di quella che i prosciutti li mangia ma fa la schifiltosa per il fatto che dietro c’è un animale ammazzato.

Alla fine una domanda però la faccio: cosa rispondereste a un animalista che vi dice che ammazzare un animale è malvagio come ammazzare un uomo?
Va boh… si è aperto il mondo tra i commenti di tutti.
N. ha detto che crudeltà per l’uccisione di un maiale è una parola grossa e ha raccontato che una volta crescere il maiale era una questione che riguardava tutta la famiglia. Quell’animale diventava uno di casa. All’epoca non c’era molto da mangiare, il maiale era la risorsa principale. Se per caso succedeva che morisse prima dell’uccisione per un motivo qualsiasi, si piangeva come se fosse morto uno di famiglia e poiché non conoscevano le cause della morte dovevano buttarlo. Il che voleva dire una mala annata.
Per la maggior parte comunque “fare il maiale” è una tradizione. A parte qualche voce isolata nessuno la considera una pratica crudele.

Insomma in quella lezione sono stata discente e ho imparato in concreto dai loro racconti quello che sempre si dice: del maiale non si butta via niente. Credo fosse un po’ la filosofia dei tempi della fame.
Stavolta ho ascoltato senza fare la parte del grillo parlante.
E comunque F. era fiero di sé. Bene così.

23 gennaio

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Leggendo La scuola, le api e le formiche di Walter Tocci

Ho iniziato questa settimana a leggere “La scuola, le api e le formiche”, di Walter Tocci e ho deciso di dedicare qualche pagina di questo diario a una lettura ragionata di questo libro.
L’autore è stato Vicesindaco di Roma ed è attualmente senatore del PD e, nella sua qualità di membro della Commissione Parlamentare per l’Istruzione, ha partecipato alla discussione della Buona Scuola. Quindi appartiene allo stesso partito del premier che questa legge ha voluto fortemente ed ha una conoscenza capillare della legge, pertanto costituisce una voce autorevole che non si può definire “di parte”.
Non sono io a parlare e/o esprimere la mia opinione ma commenterò l’analisi della legge che ha fatto Tocci in queste pagine della sua efficace e autorevole pubblicazione.
Cominciamo dalla Premessa del libro, il cui incipit è: “la Buona Scuola è una riforma mancata. Non c’è il cambiamento strutturale della scuola italiana. Non si vede alcuna strategia per rimuovere gli ostacoli che impediscono al nostro sistema  di assolvere ai compiti repubblicani: le diseguaglianze legate allo status familiare, al tipo di scuola e al contesto territoriale, soprattutto nel Mezzogiorno.”
Nella Premessa Tocci afferma che sono ormai vent’anni da che ogni governo ha preteso di scrivere una riforma scolastica, ponendosi una domanda: “che cosa non va nel rapporto tra politica e scuola se per venti anni sono fallite tutte le riforme?” e più avanti “la parola riforma è stata sfigurata dalle ideologie del tempo e soprattutto in Italia si è ridotta all’approvazioni di leggi sempre più confuse e inutili. Riforma dovrebbe essere un processo sociale, non un editto ministeriale. È questione culturale, non problema amministrativo. La politica è ormai convinta di poter decidere ricorrendo soltanto alla personalità che mette fine alle controversie.
Provo  a tirare le somme dalla lettura delle prime pagine:  mettete un padre con quattro figli. Questo padre decide  di investire un tot per la crescita dei propri figli. Esaurito l’investimento di base per le prime necessità quel padre decide che continuerà a investire solo sui figli che avranno dato maggiori garanzie per far fruttare il suo investimento iniziale, abbandonerà invece quelli che non hanno acquisito le premesse. Voi pensereste che sono proprio i figli in difficoltà che avrebbero bisogno di maggior sostegno. Inoltre non è – a ben vedere – neanche lungimirante perché – a meno che non decida di far fuori fisicamente quei soggetti – da qualche parte finiranno per gravare al fine di garantirsi la sopravvivenza.
Mettete poi che quel padre faccia due calcoli e collochi due figli al nord dove il suo investimento ha maggiori probabilità di rientro e due al sud dove le probabilità sino minori e otterrete la politica del governo. Sono le leggi del mercato, la modernità, baby.

Le politiche pubbliche non possono ridursi al bonus malus finanziario, bisogna investire sui processi organizzativi sia per dare opportunità ai migliori sia per aiutare le strutture in difficoltà. Le risorse pubbliche devono essere spese per innalzare  la qualità dell’intero sistema, non una parte contro l’altra.”
E poi ancora: “ il mondo vitale dell’educazione non può essere descritto dalle deformazioni della scienza economica che ha perso la radice originaria di filosofia morale per ridursi a una tecnologia del debito. Gli inganni del mercato divorano i sogni del nostro tempo. Hanno già spento l’ambizione di un’Europa unita, hanno intaccato la speranza di un mondo con meno frontiere, hanno svuotato il successo mondiale della democrazia. Ora non possiamo consentire che facciano del male anche alla scuola.”

E questo – per giunta – lo sta facendo una forza “di sinistra”.

16 Dicembre

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Evoluzione o Creazione?

A volte le lezioni assumono toni surreali, come quella di oggi in terza. Ora di storia, si parlava di medioevo. Il solito chiacchierone di Francesco deve sempre dire la sua ogni momento. Oggi è stata: “ma se per millenni c’è stato solo l’aratro e questi si ammazzavano per coltivare la terra, come mai non hanno pensato a inventare il trattore?”

Sulle prime ho pensato fosse una delle sue solite battute, ma poi mi sono resa conto che non scherzava.

E così ne è nata una digressione che ha portato a parlare di cause, conseguenze, contesti, progressi nel tempo, conquiste e un sacco di altre cose.

A un certo punto Francesco – che ha il dono inoltre di essere sempre sul punto – mi fa: “voi professori ci confondete, quella di religione ci parla di Adamo ed Eva, lei ci dice che veniamo dalle scimmie”.

M’è toccato spiegargli che facciamo due cose diverse, che c’è differenza tra evoluzione e creazione, tra fede e ragione, tra scienza e religione e quindi ci sono  motivi per cui diciamo cose diverse, perchè la storia é diversa, senza fonti è narrazione, simbolo.

La cosa è continuata per tutta l’ora, Francesco era una mitraglietta che sparava domande a raffica e ha anche egregiamente interpretato la scimmia che mi è servita per fargli capire cosa abbia voluto dire la conquista della posizione eretta.

Insomma comunque una bella lezione, per certi aspetti anche divertente, che ha coinvolto tutti.

Alla fine, dopo tutta questa maratona fatta di incursioni nella storia nelle diverse epoche e nei diversi contesti Francesco mi fa:

“Va beh professorè, insomma c’avete voluto dire che Adamo ed Eva erano due scimmie che si sono evolute.”

“Io non l’ho detto, ma se ti piace vederla  così, va bene così”. Ho detto ridendo, giusto per non strozzarlo.

28 novembre

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Miseria e Nobiltà

Ora di buco, sala insegnanti. Oggi sono arrivati i neo immessi in ruolo della fase C, hanno facce felici di chi finalmente ce l’ha fatta. Parlano molto, soprattutto una, danno l’impressione di voler dare il segno che sperano di collaborare, per questo si presentano a tutti i colleghi. Si vede che temono di finire a fare i tappabuchi, anche se aver firmato il contratto li rende euforici.

Quando ho firmato il mio di contratto è stato uno dei giorni più brutti della mia vita, ma era per faccende personali, comprendo perfettamente il loro stato d’animo: uscire da uno stato di precarietà è qualcosa che ti fa assomigliare a un animale che trova casa dopo aver combattuto nella foresta.

Tuttavia io all’indomani della firma del contratto sapevo cosa avrei fatto: ovvero quello che avevo fatto negli ultimi sedici anni, insegnare italiano e storia. Per loro è diverso: nessuno sa ancora come esattamente verranno utilizzati (pessima espressione) questi insegnanti. Loro hanno parlato molto di progetti, ma ho imparato a temere molto questa parola, che spesso poi si rivela necessità di contenuti a costo zero, anche se non ho osato dirlo. Sarebbe stato fuori luogo.

Seduto in angolo stava il professore in uscita, cioè il collega che andrà in pensione.  Mi dice sempre che ormai non vede l’ora, che la scuola che lascia non è quella che ha sempre pensato di contribuire a costruire e quindi lascia senza rimpianti.

Tra l’entusiasmo di questi nuovi insegnanti che non la smettono di chiacchierare, di chiedere, di parlare e la quieta rassegnazione dell’insegnante che gli dà il benvenuto dicendo loro che è felice che ci siano persone giovani e motivate, io mi sento nel mezzo, assalita da una strana malinconia. Sento di non appartenere né a una parte né all’altra. Sento di non essere né vecchia né giovane.

Sento più che altro, come la gran parte delle volte, che da questa parte del muro sono a disagio perché per me la scuola sono le aule con i ragazzi, qualsiasi cosa ci sia fuori mi pone dubbi e interrogativi, spesso mi dà tristezza. Quella con gli alunni è una sfida che affronto tutti i giorni come se fosse nuova sempre, perché non sai mai quello che capiterà. Devi essere malleabile, duttile, pronta a passare dall’acciaio allo stato liquido in un nanosecondo e viceversa. Almeno per come lo intendo io.

Invece con i colleghi ormai sono un pesce fuori dall’acqua. Mentre ascolto mi sovviene un’immagine che mi ha colpito, due giorni fa, durante il collegio. Una collega solerte che si alza e rammenta alla dirigente che la scheda di valutazione dei ragazzi che sta proiettando sul grande schermo è frutto della suo lavoro la sera precedente, il che equivaleva a dire

A) che noi stavamo approvando una cosa uscita dalla mente di un’insegnante quando siamo un centinaio e passa

B) che le modifiche apportate alla scheda erano quelle sollecitate dalla dirigente, per cui la collega con solerzia le faceva notare che le aveva accolte. Quando si dice la piaggeria.

Niente di male, accade, ma sono cose che mi lasciano perplessa, una sorta di corsa all’oro che è vero, c’è sempre stata, ma da quando hanno dato il via sta aumentando in modo esponenziale in velocità e in modalità, quasi stia lì la garanzia di successo. Di cosa poi  devo ancora capirlo.

Do comunque il benvenuto ai nuovi colleghi, ma non so, ho come la brutta sensazione che ancora una volta si comincia a costruire la casa dal soffitto, quando le fondamenta stanno marcendo. Un po’ come la scala di sicurezza che stanno costruendo davanti alla mia aula: solida, in ferro e con l’ascensore. Peccato che dentro i muri siano a pezzi, gli alunni sono in sovrannumero rispetto alle dimensioni delle aule, le lavagne sono vecchie e consunte, attaccate coi fil di ferro. Gli insegnanti hanno firmato per avere un pennarello da usare alla lavagna che deve bastare tutto l’anno, altrimenti che se lo ricomprino.

La Buona Scuola è lì, nell’orizzonte sorridente di queste facce giunte oggi, di sabato.

Per fortuna, almeno per quel che mi riguarda,  mi salva il fatto che quando entro in classe l’alba è passata e il mio orario di lavoro finisce sempre prima di qualsiasi tramonto.

 

21 novembre

 

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Ho iniziato a scrivere questo diario senza un preciso obiettivo, giusto per raccontare cosa avviene o può avvenire dentro aule scolastiche, perché non se ne parla così com’è.

Queste pagine hanno acquisito per strada un loro perché anche in virtù del fatto che sono seguite, la qual cosa spero sia dovuta proprio all’interesse che può suscitare scrivere e parlare di scuola in maniera diversa.
Certo sono spesso animata da una vena polemica, ma ciò è dovuto al tentativo di mostrare quanto sia diverso ciò che all’interno delle classi succede e ciò che esiste all’esterno, perché è difficile parlare di scuola e interrogarsi sulla bontà degli interventi legislativi che non incidono – il più delle volte – sulla vita della scuola e sui suoi reali bisogni.

Arriviamo così al racconto di oggi.  E rispetto all’ultima pagina si cambia registro. Per motivi di riservatezza diremo che ciò che raccontiamo è accaduto all’insegnante x, nella scuola y, con un dirigente k.
Cominciamo dai fatti: l’insegnante x per motivi personali prende un giorno di permesso. Accade che lo stesso insegnante – per una coincidenza occorsa anche in virtù di un forte stress al quale si è sottoposto per il poco tempo richiesto per svolgere ciò che aveva necessità di fare – il giorno dopo ha un malore.
Avverte la scuola che è impossibilitato a recarsi al lavoro. Non chiama un medico curante (che di questi tempi come sappiamo difficilmente effettuano visite a domicilio) e decide di recarsi dallo stesso nel pomeriggio anche per verificare la causa di quel malore.
Come sappiamo in caso di richiesta di visita fiscale bisogna rispettare le fasce di reperibilità. Ma, come ha fatto altre volte, l’insegnante x si reca dal medico alle ore quattro con l’intenzione di farsi comunque rilasciare l’attestazione di presenza nel suo studio.
Alle cinque al domicilio si presenta la visita fiscale. Gli viene riferito che l’insegnante x  è dal medico e già sulla via del ritorno. Ma il medico fiscale non aspetta, avverte si faccia fare il certificato necessario dal medico.
Così il giorno dopo a scuola l’insegnante x si reca in segreteria per regolarizzare la sua richiesta di malattia e presentare il certificato che attesta la presenza nell’ambulatorio in orario di visita fiscale.
Purtroppo commette un errore: invece di allegare quel certificato, allega la richiesta di analisi (stesso foglietto bianco) prescritte dal medico.
Il giorno dopo, mentre fa lezione, un custode avverte l’insegnante x che deve presentarsi presso la segreteria per comunicazioni urgenti.
Così l’insegnante si reca presso gli uffici dove gli viene consegnata una busta chiusa più grande contenente comunicazioni riservate e una più piccola.
La apre e legge l’oggetto: contestazione di addebito disciplinare.
Non sa bene cosa sia e legge il seguito: dopo una serie di commi e di riferimenti legislativi, quella lettera freddamente comunica che le è stato contestato il giorno di malattia “contravvenendo al suo obbligo di rispetto delle fasce di reperibilità. La presente costituisce atto di avvio di procedimento disciplinare” e – in breve – l’insegnante x è invitato in data … a presentarsi presso gli uffici della dirigenza per il contradditorio alla presenza di un procuratore o un rappresentante sindacale.
L’insegnante x cade dalla nuvole, sulle prime non capisce, mai è accaduto niente di simile. Fa mente locale e in un’altra busta più piccola vede che vengono riconsegnate le analisi erroneamente allegate.
Torna in segreteria e fa presente l’errore: ha presentato il certificato sbagliato.
Risultato: non c’è niente da fare, l’insegnante x dovrà presentarsi per la contestazione d’addebito. La segretaria le comunica che i suoi obblighi sarebbero stati diversi e ormai è a suo carico il procedimento, che il dirigente k ha comunque concesso di farsi assistere nel contradditorio.
Ho volutamente mantenuto un linguaggio burocratico perché è su questo solco che ormai ci muoviamo.
La legge che dà ai presidi tanti poteri, non è solo fatto che riguarda un cambiamento della scuola in senso verticistico, ma scardina completamente il senso di quella che dovrebbe essere una comunità scolastica.
È vero, ci sono dirigenti e dirigenti. Per alcuni sarebbe bastata una telefonata e l’equivoco si sarebbe chiarito. Ma per altri evidentemente il potere è quello che Andreotti diceva “logora chi non ce l’ha”. Chi ce l’ha, gongola. Se ne può anche infischiare del buon senso e del rispetto della persona.
Qui non si parla di un assenteista incallito (per il quale i metodi ci sono e ci sono sempre stati) qui si parla di un giorno e di insegnante che svolge il proprio dovere, che è una persona affidabile, in un momenti di difficoltà. Qui si parla della rottura di rapporti di fiducia, di qualsiasi sentimento di appartenenza, di conseguenze che vanno dalla demotivazione al menefreghismo (che già si vedono)
Perché infatti con la tipologia del dirigente x, nessun insegnante vuole averci a che fare, poiché si finisce per temere costantemente di essere sotto controllo e con la possibilità di essere colti in fallo.
Non stiamo parlando di un’azienda (e perfino all’interno di qualsiasi azienda un buon imprenditore sa che senza l’adeguata motivazione un lavoratore mai renderà abbastanza). Stiamo parlando dell’applicazione di meccanismi economici e gerarchici all’interno della scuola, che ha bisogno esattamente del contrario: partecipazione, condivisione, fiducia degli attori coinvolti.
Inutile dire che l’insegnante x si è sentita una merda di fronte a quel burocratichese che afferma un potere: il potere del superiore di fronte a colui che si sta trasformando in subalterno, perché ad alcuni dirigenti  – diciamo la verità – fa un sacco di bene marcare il territorio e sentirsi dire: sì padrone. È scritto nella psicologia di molti, non è un peccato, è solo una cosa che può accadere e per questo la legge è tanto più pericolosa.
L’insegnante x sa bene di non aver commesso alcuna infrazione sostanziale, eppure dovrà entrare in quella stanza a dare spiegazioni su ciò che non dovrebbe essere costretto a spiegare. Si chiama umiliazione.

Questa è anche la Buona Scuola.

 

20 novembre

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.. con questa faccia da straniero

Khalim è un ragazzino di 16 anni di terza C. Due settimane fa lo abbiamo sospeso per tre giorni a seguito di un grave episodio avenuto proprio durante una mia lezione: si è scagliato contro un compagno con una rabbia piuttosto cattiva. Nonostante io e i compagni ci fossimo precipitati a trattenerlo ha finito per lanciare una sedia contro il ragazzo, che – va detto – proprio malcapitato non era, visto che la provocazione era partita da lui.
Era da tempo che avevo percepito che tra Khalim e Franco non correva buon sangue, pare fosse un rancore covato fin dallo scorso anno che quel giorno ha trovato la miccia per esplodere.
Khalim è un ragazzo maghrebino con due occhi neri come il carbone e un sorriso bianco e bellissimo. Magro da far paura gioca a calcio in una giovanile, credo gli piaccia molto. Ho visto che a scuola non è molto integrato e anche durante l’intervallo stanno  i soliti tre (marocchini tutti) sempre insieme.
Lunedì in questa classe mi avevano chiesto di parlare di ciò che è accaduto a Parigi. Avevo cercato e trovato un racconto di una scrittrice algerina che faceva al caso (la storia di una donna araba e musulmana che perde il marito giornalista a causa di un attentato per mano di un integralista islamico)
Arrivo in classe alla sesta ora e mentre sto per dare inizio alla lezione, mi viene un’idea.
“Cosa sapete di islam, di musulmani?” esordisco.
Muti tutti, come temevo.
“Beh allora oggi la lezione non la faccio io, la farà Khalim, visto che abbiamo la possibilità di farcelo spiegare da uno che l’islam lo conosce.”
Khalim è colto ovviamente di sorpresa, fa un po’ di storie, si rifiuta, ma è chiaro che ha solo timore. Ciò che accade dal momento in cui si posiziona a fianco della lavagna per la sottoscritta è uno di quei miracoli che a scuola possono accadere e ti aprono porte, portoni, cancelli e cancelletti.
Qui provo a raccontare quello che è successo.

Io vado a sedere tra i ragazzi, per rompere il ghiaccio faccio domande.
Khalim inizia a parlare di Corano, ci ha raccontato dove lo ha imparato e come, nonostante durante i cinque anni di scuola elementare passasse i pomeriggi in una scuola coranica (e mi rompeva le palle – dice- che volevo giocare a pallone) non lo conosce abbastanza. Si professa musulmano, ma non un buon musulmano perchè sa di avere una testa calda, ma dice anche che sa benissimo che tornerà là dove è partito, perché la preghiera per i musulmani è una sorta di salvezza quotidiana (altro che droga e alcol, aggiunge). Ci ha detto che – pur non sapendo spiegare come – quando prega si sente in pace, sereno, perché pregare non è mai a vuoto, o per chiedere, si prega con un obiettivo e quasi sempre ne deriva una sorta di benessere.
Khalim infarcisce la sua lezione di termini dialettali calabresi e di parolacce, il miscuglio è divertente, e forse è proprio questo che rende la sua lezione più abbordabile anche per i ragazzi che lo stanno ascoltando, per cui lo assecondo. Del resto oggi l’insegnante è lui.
Racconta che a Gizzeria, dove vive, la nuova moschea è bellissima, perché quella che avevano prima era un po’ squallida. Gli chiedo come l’hanno avuta e cosa ci fanno. Dice che l’hanno comprata con i contributi di tutti, che si trova in mezzo alle palme, che l’hanno dipinta di rosso e di giallo e che in moschea ci vai per pregare, leggere il corano, ma anche incontrare gli altri e parlare. Aggiunge che tutti possono andare e che è usata che come luogo di ricovero per chi non ha un posto dove dormire.
Un ragazzo chiede: “Ma quindi le moschee non sono solo quelle con le cupole dorate ….”
Lui spiega che le moschee possono essere dovunque e sono luoghi di preghiera, ovunque va bene.
Parla del Ramadan, che a volte è durissimo, specialmente quando fa caldo, però… “dopo le nove di sera mi scialo, specie se sono con gli amici, mangiamo da qui a là”. E con la mano disegna una traiettoria.
Poi ci scrive qualche lettera dell’alfabeto arabo, dice che è abbastanza difficile ma a lui riesce bene perché ha una bella mano anche per disegnare (il che è vero).
Ci parla con molto entusiasmo e calore del Corano, dice che ogni parola va studiata perché ha tanti significati e per conoscerlo bene devi studiare molto, che ha un buon ricordo del suo maestro.
Durante le lezioni sul corano di solito si studia in coppia: uno studia una pagina e l’altro un’altra pagina, devono impararlo a memoria, ma anche capirlo, poi dopo alla fine della lezione devono ripeterlo.
“E se qualcosa non va?” Chiedo io già pensando alle punizioni corporali che tante volte ho visto nei film o letto da qualche parte.
“Lo rifai finché non l’hai imparato. Ci vuole pazienza.”
I ragazzi stanno stranamente zitti, lo seguono, li esorto a fare domande, l’assenza di curiosità – è palese – è data dal fatto che di quel mondo di cui Khalim ci sta parlando non conoscono niente.
Sono io l’allieva più curiosa oggi, così chiedo se è vero che il Corano promette dieci vergini e le donne in paradiso.
Sorride. “No, dice. Una soltanto, che è così bella che noi però non possiamo immaginarla, ma è difficile, devi andare in paradiso per averla. Io sono sicuro che non ci vado”.
Ai kamikaze promettono le donne in paradiso! Ride di nuovo: “Perché secondo lei quelli vanno in paradiso?”
“E cosa mi dici del fatto che le donne nella vostra religione sono considerate male?”.
Dice che ad esempio il velo, da nessuna parte c’è scritto che una donna ha l’obbligo del velo, il fatto che molte lo portino o che siano picchiate se fanno qualcosa non dipende dalla religione , ma dalla famiglia che è antiquata, è dovuto alla mentalità.
Arriviamo al nodo.
E dell’ISIS che pensi?
E qui si incazza: dice che fa male per primi ai musulmani, che qualche giorno fa mentre passava con i due suoi amici davanti al linguistico dei ragazzi hanno detto: ecco l’isis. Che per colpa loro ci passano male tutti, quando l’Isis con loro non c’entra niente.
Spiega cosa voglia dire la sigla ISIS, che li prendono giovanissimi e gli fanno il lavaggio del cervello, che la maggior parte non ha neanche idea di chi sia il capo, il capo è un’entità superiore con cui non possono avere a che fare, quasi sacra. Devono ubbidire.
“E le armi?”
“Professorè e mi fati sta domanda? Cumu si chiamanu l’armi?” mi dice ridendo.
Boh…. Mi viene in mente il kalasnichov….
“Lo vede che sa la risposta?”
Le armi cioè è l’occidente che gliele dà, aggiunge che anche in Marocco, mica sarebbero così poveri, le ricchezze ci sono, ma gli affari li fanno per il petrolio, se no “com’è che siamo divisi dal Sahara… “ e disegna il confine del Marocco con una bella linea retta. “Chista ca’.. che ci fa?”
Io sono sempre più ammutolita. Guarda tu sto’ ragazzino che rompe sempre le palle…
“Ho visto certi filmati pirati dell’Isis – riprende – che fanno delle cose che non possono essere umane, bambini usati come armi, lanciati per aria. Io li ammezzerei tutti. Gli farei provare dolore. Schifo fanno. Anzi, io vorrei che venisse la terza guerra mondiale, così almeno vediamo se li ammazzano tutti.”
Faccio notare che la storia insegna che la guerra a distruzione e morte aggiunge distruzione e morte.
“Professorè, questi non li fermano, certe volte la guerra ci vuole” e mi spiega che secondo lui i morti in realtà già ci sono e pure la distruzione, ma almeno se venisse una guerra vera dopo si potrebbe ricominciare.
Poi, arriva pure la ciliegina sulla torta. La metafora. Anche se lui la chiama “esempio”.
“Avete presente un branco di pesciolini? I pesci piccoli seguono sempre il pesce grande. Se voi ammazzate il pesce grande, quelli si disperdono, se ne vanno ognuno per i fatti propri.”
“Kalhim non è che mi faresti una lezione così in quarta?”
“Io non è che non la voglio fare, ma se mi prendono in giro o qualcuno ride per quello che dico, io poi reagisco e piu a pugni ancunu. Se stanno quieti quieti magari sì.”
Sorrido. Non avrei mai detto…. Intanto si sono fatte le due.
“Professorè… ma la campana è suonata!!” Esclama Giuseppe.
E pensare che di solito fanno cartella un quarto d’ora prima e stanno pronti dietro la porta dieci minuti prima del suono della campanella.
Oggi invece usciamo per ultimi.
Noto che Franco si avvicina a Kalhim, è l’unico che gli ha fatto delle domande e delle battute mentre parlava. C’è una bella allegria che serpeggia, mentre scendiamo le scale.
Ho soltanto un rammarico: difficilmente riuscirò a condividere quello che è successo in quest’ora e “come” è successo con un qualsiasi collega. Soprattutto con quelli convinti che Khalim sia a un passo dal diventare delinquente.
Ma tant’è. Oggi mi bruco questa foglia di felicità.
E così sia.

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