
Al rientro delle vacanze natalizie c’è stata una lezione piuttosto singolare. Si sa, il primo giorno dopo le vacanze è sempre una mezza tragedia sia per i gli allievi che per gli insegnanti. Quel giorno avevo la prima ora in seconda. Io cercavo di darmi un tono per forza di cose, i ragazzi avevano l’aria sonnolenta e svogliata.
Parte così la domanda per spezzare il ghiaccio e ripartire: e insomma che avete fatto di bello durante le vacanze?
Succede che F. alza la mano prontamente esclamando io ho commesso due omicidi.
“Si va boh, neanche uno, addirittura due. E chi, di grazia?”
F. è un ragazzino piuttosto in carne, dislessico, ha problemi a scrivere e anche ad esporre e, stranamente, si lancia in un’affabulazione, che qui provo a ricostruire, che ha coperto tutta l’ora di lezione e ha coinvolto diversi suoi compagni che hanno confessato di essere avvezzi a “omicidi” del genere.
In realtà F. durante le vacanze “ha fatto il maiale” , espressione con cui si indica l’uccisione dell’animale in un giorno che per la famiglia diventa una sorta di cerimonia festaiola.
Ed ha spiegato passo passo in cosa consiste questa due giorni: si comincia al mattino presto quando l’animale viene – ahimè – appeso a un gancio a testa in giù e ucciso. Viene lasciato appeso in maniera che coli tutto il sangue (che viene raccolto in un recipiente) e nel frattempo si scalda una “quadara” d’acqua, ovvero un grande pentolone, che servirà per pulire l’animale.
Si lava con l’acqua bollente una prima volta e vengono messe a mollo le zampe perché così le unghie si leveranno più facilmente. Il sangue a questo punto vien messo da parte. Con quello ci si farà il sanguinaccio, cioè una crema spalmabile con cioccolata, uvetta e pinoli.
F. dice però che un altro modo di utilizzare il sangue consiste nel farlo bollire fino a completa condensazione per poi tagliarlo a fette. Pare sia buonissimo fritto condito con formaggio aglio e prezzemolo. Mi fido, perplessa.
Si prosegue bruciando i peli che sono rimasti sulla pelle e si passa a un secondo lavaggio che però viene effettuato con sale e limone (o sale e arancia). A questo punto il maiale è pulito e viene diviso in due. Ogni parte viene incisa per sfilare i tendini, dopodiché si svuota l’interno.
Fino a questo punto hanno lavorato gli uomini, da questo momento in poi, invece, entrano in scena anche le donne che cominceranno con il lavare gli intestini che serviranno per il salame. Li lavano in un secchio con acqua, aceto e sale.
Poi si forma una sorta di catena di montaggio: chi macina la carne, chi incide la pelle per fare cotiche e curacchi, chi gira una macchinetta, chi è pronto per riempire il budello. E voilà si fanno le salsicce.
In un altro pentolone vengono messi a cuocere le pelli e le parti dure tipo le orecchie, con le quali si farà la gelatina. Il grasso invece viene raccolto per fare le risimoglie (e queste anch’io so che sono una prelibatezza!)
Durante i due giorni le famiglie mangiano insieme: il primo giorno a pranzo a base di patate, fagioli, giardiniera, pane e companatici vari, mentre alla sera la pasta con la carne di maiale al sugo. Il giorno dopo polpette di carne e – dice F. – ossa cotte da spolpare che sono – pare – buonissime.
Alla fine del secondo giorno in pratica, salsicce, salamini e prosciutti sono pronti per essere consumati o stagionati.
Devo dire che a me tutto questo racconto ha fatto un po’ effetto, ma F. si è dato da fare per raccontare con ordine tutte le procedure e non me la sono sentita di fare la parte di quella che i prosciutti li mangia ma fa la schifiltosa per il fatto che dietro c’è un animale ammazzato.
Alla fine una domanda però la faccio: cosa rispondereste a un animalista che vi dice che ammazzare un animale è malvagio come ammazzare un uomo?
Va boh… si è aperto il mondo tra i commenti di tutti.
N. ha detto che crudeltà per l’uccisione di un maiale è una parola grossa e ha raccontato che una volta crescere il maiale era una questione che riguardava tutta la famiglia. Quell’animale diventava uno di casa. All’epoca non c’era molto da mangiare, il maiale era la risorsa principale. Se per caso succedeva che morisse prima dell’uccisione per un motivo qualsiasi, si piangeva come se fosse morto uno di famiglia e poiché non conoscevano le cause della morte dovevano buttarlo. Il che voleva dire una mala annata.
Per la maggior parte comunque “fare il maiale” è una tradizione. A parte qualche voce isolata nessuno la considera una pratica crudele.
Insomma in quella lezione sono stata discente e ho imparato in concreto dai loro racconti quello che sempre si dice: del maiale non si butta via niente. Credo fosse un po’ la filosofia dei tempi della fame.
Stavolta ho ascoltato senza fare la parte del grillo parlante.
E comunque F. era fiero di sé. Bene così.
Innanzitutto, u caro saluto allo scapricciatiello riportato in foto. Non per fare paragoni, ma molti bambini, allevati in recinti casalinghi, scolastici e piscine o a giocare a pallone in strada, ingrassano quanto i maialini scapricciatielli. A questi ultimi facciamo le moine, il solletico, gli abbracci e i baci azzeccosi. Spesso, però, capita di confondere gli uni con gli altri. La differenza risiede nella storia: i bambini non solo assistono all’uccisione e maciullamento dei suddetti suini, e li divorano avidamente, unitamente, o la vera unità d’Italia, da Nord, Centro, Sud e relative Isole. Altro che spocchioso razzismo da straccioni. La vera, autentica Unità d’Italia: borghese, piccolo borghese e proletaria, anche se a quest’ultima, specie quella delle città, del porco arriva poco e niente. Piuttosto e nelle masserie o negli appezzamenti di verde residuo, ancora tra città e campagna, al limite di tutte le periferie, reali, che si cresce e si ammazza il maiale.
F., ma non c’entra nulla, però stranamente, solo stranamente, mi fa saltare in mente Franz … Franz Kafka, forse, stranamente, il retro pensiero del Franz Kafka de La metamorfosi. Probabilmente è solo una bizzarria di ciò che non leggiamo quando leggiamo un racconto, un romanzo e persino un post in giro dei molteplici blog. Insomma F. ha trovata la sua dimensione nella vita disgraziata, si può dire? di un maiale allevato, nutrito, vezzeggiato?, pasciuto e sgozzato. F. ha trovato la favella e la dialettica:un vero maestro nel racconto non solo dell’ammazzamento, ma della bontà e normalità di quel processo al maiale. Processo? Torna Franz, quel Franz Kafka de Il processo.
Ammazzare un animale, generalmente, specie per la bocca innocente dei bambini(perché sono più per la garrota piuttosto che per la protezione e un confronto paritario, forse è il connubio perverso che esiste tra la famiglia(sacra) e la scuola e non ultima la chiesa con il battesimo e la comunione?) non solo non è un crimine, in Cina i cinesi della Cina mangiano i cani, una volta si sussurrava che mangiassero i bambini; invece, in India, in certi templi, venerano le scimmie e persino i topi(ma non è un elogio, anche perchè gli animali e gli insetti più schifosi sono appunto topi e scarafaggi(oh Franz oh Franz oh Franz) con cui mangiano insieme in quelle povere e numerose ciotole, riso e latte con dei biscottini.
Per non dire del Gange poi, ma questa è un altra storia insieme a quelle delle ampolle di santi terroni e montanari val padani, ma queste sono altre storie parimenti alle statue di madonne che piangono son solo lacrime, che non si è mai visto nessuno umano che piange sangue piuttosto le solite lacrime per lo più sentimentali o addolorate per qualcosa finito, a meno che non si abbia due tampini in bocca, all’altezza delle tonsille, o ex tonsille, asportate.
Forse l’ammazzamento del maiale o di un altro animale, balene, tigri ed elefanti per le loro zanne, è educativo e permesso legalmente perché è operato dall’intera famiglia, persino dei nonni che assistono al crimine festoso sulle loro sedie a rotelle o rannicchiati nei loro letti. Forse sopportati meno del maiale. Le vie dell’imparare, del racconto e della dialettica non portano per forza nel capoluogo o addirittura nella capitale, ma son le strade storte. E che poi, lotta impari, le vite dovranno rifare dritte. Sia da sotto che da sopra le strade sono sempre storte. A volte ci scappa un seme portato dal vento, allora chissà.
PS: E’ la prima volta che passo di qui, ma mi andavo di farlo, strada o post.
Grazie per l’intervento e benvenuto, a te che passavi di qua. Un chiarimento: volutamente non ho riportato né come e se ho replicato, nè cosa ne ho fatto di quell’intervento in classe da parte di un adolescente (insegno in una scuola superiore) La cosa in realtà ha avuto un seguito, perchè ho chiesto di sviluppare il racconto di F.in una serie di interventi. Questo è un diario di alcune giornate di scuola, così come talvolta arrivano. Però se tu mi spiegassi meglio cosa c’entra Kafka te ne sarei lieta, perchè non sono sicura di aver capito. Questo diario è scritto perchè io mi sento scarafaggio a scuola, ma questa è un’altra storia! Un saluto
Daniela, grazie per l’accoglienza. Quando si tratta di parlare di Franz K., bisogna fare i conti col dolore, la sofferenza, il disagio. Probabilmente non solo esistenziale, anche se certuni hanno detto che in fondo anche Kafka spesso sorrideva o addirittura si divertiva. Succede anche che ci sentiamo stranieri nell’intimo così come si sentiva quel Gregor Samsa in strada, sul lavoro, a casa. Questo perché ci si sente giorno per giorno a disagio. E per agio non intendo chissà quali comodità, ma solo starsene così come si pensa e si crede di essere rispetto e insieme agli altri. Il tuo lavoro ti porta sempre oltre il tuo territorio, anche restando tra le mura di casa, delle strade e della scuola. Fabbrica, ufficio, scuola e casa, ambienti ben conosciuti, ma non per questo senza coni d’ombra. Franz Kafka si è servito e ha usato due modalità per far fronte alla sofferenza e al dolore nell’affrontare la vita, il contatto con gli altri e non ultimo con sé stesso: la scrittura e il teatro. Con le parole della scrittura si muoveva in prima persona, mentre con il teatro era lo spettatore, colui che guarda la scena. Penso che il tuo allievo F. per superare i limiti di se stesso, la sofferenza delle proprie difficoltà nel relazionarsi con gli altri, e in questo tu l’hai aiutato siamo come insegnante e come donna e, prima o poi sarebbe accaduto, ha adoperato, così come ha fatto Kafka, gli strumenti per l’uccisione del maiale, in cui è immerso da tempo. Forse bisognerebbe sempre mettere in relazione, anche quando non ci riusciamo, perché intessuta della nostra geografia geroglifica interiore, ciò che ci ha scritto, attraverso le sue opere, anche quando ne fosse stata scritta una sola, quello scrittore o quell’altro. La vetta, la lontananza, le parole e i termini alti e bassi, sublimi o volgari, e la stessa spietatezza del deserto o dei luoghi impervi e glaciali, forse, del nostro presente quotidiano, ci avvicinerebbero non al singolo o gruppo di scrittori, ma con il significato di scrittura e, parlare allo straniero, in difficoltà, che è in noi.
Ciao